• Bulgaria : lottare per vivere, lottare per morire

    Di morti insepolti, notti insonni e domande che non avranno risposta

    “ГРАНИЦИТЕ УБИВАТ”, ovvero “I confini uccidono”. Questa scritta campeggia su delle vecchie cisterne arrugginite lungo la statale 79, la strada che collega Elhovo a Burgas, seguendo il confine bulgaro-turco fino al Mar Nero. L’abbiamo fatta noi del Collettivo Rotte Balcaniche (https://www.facebook.com/profile.php?id=100078755275162), rossa come il sangue che abbiamo visto scorrere in queste colline. Volevamo imprimere nello spazio fisico un ricordo di chi proprio tra questi boschi ha vissuto i suoi ultimi istanti, lasciare un segno perché la memoria avesse una dimensione materiale. Dall’altra parte, volevamo lanciare un monito, per parlare a chi continua a transitare su questa strada ignorandone la puzza di morte e a chi ne è direttamente responsabile, per dire “noi sappiamo e non dimenticheremo”. Ne è uscita una semplice scritta che forse in pochi noteranno. Racchiude le lacrime che accompagnano i ricordi e un urlo che monta dentro, l’amore e la rabbia.

    Dall’anno passato il confine bulgaro-turco è tornato ad essere la prima porta terrestre d’Europa. I dati diffusi dalla Polizia di frontiera bulgara contano infatti oltre 158 mila tentativi di ingresso illegale nel territorio impediti nei primi nove mesi del 2023, a fronte dei 115 mila nel corrispondente periodo del 2022, anno in cui le medesime statistiche erano già più che triplicate 1. Il movimento delle persone cambia a seconda delle politiche di confine, come un flusso d’acqua alla ricerca di un varco, così la totale militarizzazione del confine di terra greco-turco, che si snoda lungo il fiume Evros, ha spostato le rotte migratorie verso la più porosa frontiera bulgara. Dall’altro lato, la sempre più aggressiva politica di deportazioni di Erdogan – che ha già ricollocato con la forza 600 mila rifugiatə sirianə nel nord-ovest del paese, sotto il controllo turco, e promette di raggiungere presto la soglia del milione – costringe gli oltre tre milioni di sirianə che vivono in Turchia a muoversi verso luoghi più sicuri.

    Abbiamo iniziato a conoscere la violenza della polizia bulgara più di un anno fa, non nelle inchieste giornalistiche ma nei racconti delle persone migranti che incontravamo in Serbia, mentre ci occupavamo di distribuire cibo e docce calde a chi veniva picchiatə e respintə dalle guardie di frontiera ungheresi. Siamo un gruppo di persone solidali che dal 2018 ha cominciato a viaggiare lungo le rotte balcaniche per supportare attivamente lə migrantə in cammino, e da allora non ci siamo più fermatə. Anche se nel tempo siamo cresciutə, rimaniamo un collettivo autorganizzato senza nessun riconoscimento formale. Proprio per questo, abbiamo deciso di muoverci verso i contesti caratterizzati da maggior repressione, laddove i soggetti più istituzionali faticano a trovare agibilità e le pratiche di solidarietà assumono un valore conflittuale e politico. Uno dei nostri obiettivi è quello di essere l’anti-confine, costruendo vie sicure attraverso le frontiere, ferrovie sotterranee. Tuttavia, non avremmo mai pensato di diventare un “rescue team”, un equipaggio di terra, ovvero di occuparci di ricerca e soccorso delle persone disperse – vive e morte – nelle foreste della Bulgaria.

    La prima operazione di salvataggio in cui ci siamo imbattutə risale alle notte tra il 19 e il 20 luglio. Stavo per andare a dormire, verso l’una, quando sento insistentemente suonare il telefono del Collettivo – telefono attraverso cui gestiamo le richieste di aiuto delle persone che vivono nei campi rifugiati della regione meridionale della Bulgaria 2. Era M., un signore siriano residente nel campo di Harmanli, che avevo conosciuto pochi giorni prima. «C’è una donna incinta sulla strada 79, serve un’ambulanza». Con lei, le sue due bambine di tre e sei anni. Chiamiamo il 112, numero unico per le emergenze, dopo averla messa al corrente che probabilmente prima dell’ambulanza sarebbe arrivata la polizia, e non potevamo sapere cosa sarebbe successo. Dopo aver capito che il centralino ci stava mentendo, insinuando che le squadre di soccorso erano uscite senza aver trovato nessuno alle coordinate che avevamo segnalato, decidiamo di muoverci in prima persona. Da allora, si sono alternate settimane più e meno intense di uscite e ricerche. Abbiamo un database che raccoglie la quarantina di casi di cui ci siamo in diversi modi occupatə da fine luglio e metà ottobre: nomi, storie e foto che nessunə vorrebbe vedere. In questi mesi tre mesi si è sviluppata anche una rete di associazioni con cui collaboriamo nella gestione delle emergenze, che comprende in particolare #CRG (#Consolidated_Rescue_Group: https://www.facebook.com/C.R.G.2022), gruppo di volontariə sirianə che fa un incredibile lavoro di raccolta di segnalazioni di “distress” e “missing people” ai confini d’Europa, nonché di relazione con lə familiari.

    Ricostruire questo tipo di situazioni è sempre complicato: le informazioni sono frammentate, la cronologia degli eventi incerta, l’intervento delle autorità poco prevedibile. Spesso ci troviamo ad unire tessere di un puzzle che non combacia. Sono le persone migranti stesse a lanciare l’SOS, oppure, se non hanno un telefono o è scarico, le “guide” 3 che le accompagnano nel viaggio. Le richieste riportano i dati anagrafici, le coordinate, lo stato di salute della persona. Le famiglie contattano poi organizzazioni solidali come CRG, che tra lə migrantə sirianə è un riferimento fidato. L’unica cosa che noi possiamo fare – ma che nessun altro fa – è “metterci il corpo”, frapporci tra la polizia e le persone migranti. Il fatto che ci siano delle persone bianche ed europee nel luogo dell’emergenza obbliga i soccorsi ad arrivare, e scoraggia la polizia dal respingere e torturare. Infatti, è la gerarchia dei corpi che determina quanto una persona è “salvabile”, e le vite migranti valgono meno di zero. Nella notte del 5 agosto, mentre andavamo a recuperare il cadavere di H., siamo fermatə da un furgone scuro, senza insegne della polizia. È una pattuglia del corpo speciale dell’esercito che si occupa di cattura e respingimento. Gli diciamo la verità: stiamo andando a cercare un ragazzo morto nel bosco, abbiamo già avvisato il 112. Uno dei soldati vuole delle prove, gli mostriamo allora la foto scattata dai compagni di viaggio. Vedendo il cadavere, si mette a ridere, “it’s funny”, dice.

    Ogni strada è un vicolo cieco che conduce alla border police, che non ha nessun interesse a salvare le vite ma solo ad incriminare chi le salva. Dobbiamo chiamare subito il 112, accettando il rischio che la polizia possa arrivare prima di noi e respingere le persone in Turchia, lasciandole nude e ferite nel bosco di frontiera, per poi essere costrette a riprovare quel viaggio mortale o imprigionate e deportate in Siria? Oppure non chiamare il 112, perdendo così quel briciolo di possibilità che veramente un’ambulanza possa, prima o poi, arrivare e potenzialmente salvare una vita? Il momento dell’intervento mette ogni volta di fronte a domande impossibili, che rivelano l’asimmetria di potere tra noi e le autorità, di cui non riusciamo a prevedere le mosse. Alcuni cambiamenti, però, li abbiamo osservati con continuità anche nel comportamento della polizia. Se inizialmente le nostre azioni sono riuscite più volte ad evitare l’omissione di soccorso, salvando persone che altrimenti sarebbero state semplicemente lasciate morire, nell’ultimo mese le nostre ricerche sono andate quasi sempre a vuoto. Questo perché la polizia arriva alle coordinate prima di noi, anche quando non avvisiamo, o ci intercetta lungo la strada impedendoci di continuare. Probabilmente non sono fatalità ma stanno controllando i nostri movimenti, per provare a toglierci questo spazio di azione che ci illudevamo di aver conquistato.

    Tuttavia, sappiamo che i casi che abbiamo intercettato sono solo una parte del totale. Le segnalazioni che arrivano attraverso CRG riguardano quasi esclusivamente persone di origini siriane, mentre raramente abbiamo ricevuto richieste di altre nazionalità, che sappiamo però essere presenti. Inoltre, la dottoressa Mileva, capo di dipartimento dell’obitorio di Burgas, racconta che quasi ogni giorno arriva un cadavere, “la maggior parte sono pieni di vermi, alcuni sono stati mangiati da animali selvatici”. Non sanno più dove metterli, le celle frigorifere sono piene di corpi non identificati ma le famiglie non hanno la possibilità di venire in Bulgaria per avviare le pratiche di riconoscimento, rimpatrio e sepoltura. Infatti, è impossibile ottenere un visto per venire in Europa, nemmeno per riconoscere un figlio – e non ci si può muovere nemmeno da altri paesi europei se si è richiedenti asilo. In alternativa, servono i soldi per la delega ad unə avvocatə e per effettuare il test del DNA attraverso l’ambasciata. Le procedure burocratiche non conoscono pietà. Le politiche di confine agiscono tanto sul corpo vivo quanto su quello morto, quindi sulla possibilità di vivere il lutto, di avere semplicemente la certezza di aver perso una sorella, una madre, un fratello. Solo per sapere se piangere. Anche la morte è una conquista sociale.

    «Sono una sorella inquieta da 11 mesi. Non dormo più la notte e passo delle giornate tranquille solo grazie ai sedativi e alle pillole per la depressione. Ovunque abbia chiesto aiuto, sono rimasta senza risposte. Vi chiedo, se è possibile, di prendermi per mano, se c’è bisogno di denaro, sono pronta a indebitarmi per trovare mio fratello e salvare la mia vecchia madre da questa lenta morte». Così ci scrive S., dalla Svezia. Suo fratello aveva 30 anni, era scappato dall’Afghanistan dopo il ritorno dei Talebani, perché lavorava per l’esercito americano. Aveva lasciato la Turchia per dirigersi verso la Bulgaria il 21 settembre 2022, ma il 25 non era più stato in grado di continuare il cammino a causa dei dolori alle gambe. In un video, gli smuggler che guidavano il viaggio spiegano che lo avrebbero lasciato in un determinato punto, nei pressi della strada 79, e che dopo aver riposato si sarebbe dovuto consegnare alla polizia. Da allora di lui si sono perse le tracce. Non è stato ritrovato nella foresta, né nei campi rifugiati, né tra i corpi dell’obitorio. È come se fosse stato inghiottito dalla frontiera. S. ci invia i nomi, le foto e le date di scomparsa di altre 14 persone, quasi tutte afghane, scomparse l’anno scorso. Lei è in contatto con tutte le famiglie. Neanche noi abbiamo risposte: più la segnalazione è datata più è difficile poter fare qualcosa. Sappiamo che la cosa più probabile è che i corpi siano marciti nel sottobosco, ma cosa dire allə familiari che ancora conservano un’irrazionale speranza? Ormai si cammina sulle ossa di chi era venuto prima, e lì era rimasto.

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    1. РЕЗУЛТАТИ ОТ ДЕЙНОСТТА НА МВР ПРЕЗ 2022 г., Противодействие на миграционния натиск и граничен контрол (Risultati delle attività del Ministero dell’Interno nel 2022, Contrasto alla pressione migratoria e controllo delle frontiere), p. 14.
    2. Per quanto riguarda lə richiedenti asilo, il sistema di “accoglienza” bulgaro è gestito dall’agenzia governativa SAR, e si articola nei campi ROC (Registration and reception center) di Voenna Rampa (Sofia), Ovcha Kupel (Sofia), Vrajdebna (Sofia), Banya (Nova Zagora) e Harmanli, oltre al transit centre di Pastrogor (situato nel comune di Svilengrad), dove si effettuano proceduredi asilo accelerate. […] I centri di detenzione sono due: Busmantsi e Lyubimets. Per approfondire, è disponibile il report scritto dal Collettivo.
    3. Anche così sono chiamati gli smuggler che conducono le persone nel viaggio a piedi.

    https://www.meltingpot.org/2023/10/bulgaria-lottare-per-vivere-lottare-per-morire

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    • Bulgaria, lasciar morire è uccidere

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: la cronaca di un’omissione di soccorso sulla frontiera bulgaro-turca


      I fatti si riferiscono alla notte tra il 19 e il 20 luglio 2023. Per tutelare le persone coinvolte, diffondiamo questo report dopo alcune settimane. Dopo questo primo intervento, come Collettivo Rotte Balcaniche continuiamo ad affrontare emergenze simili, agendo in prima persona nella ricerca e soccorso delle persone bloccate nei boschi lungo la frontiera bulgaro-turca.

      01.00 di notte, suona il telefono del Collettivo. “We got a pregnant woman on Route 79“, a contattarci è un residente nel campo di Harmanli, amico del marito della donna e da noi conosciuto qualche settimana prima. E’ assistito da un’interprete, anch’esso residente nel campo. Teme di essere accusato di smuggling, chiede se possiamo essere noi a chiamare un’ambulanza. La route 79 è una delle strade più pattugliate dalla border police, in quanto passaggio quasi obbligato per chi ha attraversato il confine turco e si muove verso Sofia. Con l’aiuto dell’interprete chiamiamo la donna: è all’ottavo mese di gravidanza e, con le due figlie piccole, sono sole nella jungle. Stremate, sono state lasciate vicino alla strada dal gruppo con cui stavano camminando, in attesa di soccorsi. Ci dà la sua localizzazione: 42.12.31.6N 27.00.20.9E. Le spieghiamo che il numero dell’ambulanza è lo stesso della polizia: c’è il rischio che venga respinta illegalmente in Turchia. Lei lo sa e ci chiede di farlo ugualmente.

      Ore 02.00, prima chiamata al 112. La registriamo, come tutte le successive. Non ci viene posta nessuna domanda sulle condizioni della donna o delle bambine, ma siamo tenuti 11 minuti al telefono per spiegare come siamo venuti in contatto con la donna, come ha attraversato il confine e da dove viene, chi siamo, cosa facciamo in Bulgaria. Sospettano un caso di trafficking e dobbiamo comunicare loro il numero dell’”intermediario” tra noi e lei. Ci sentiamo sotto interrogatorio. “In a couple of minutes our units are gonna be there to search the woman“, sono le 02.06. Ci rendiamo conto di non aver parlato con dei soccorritori, ma con dei poliziotti.

      Ore 03.21, è passata un’ora e tutto tace: richiamiamo il 112. Chiediamo se hanno chiamato la donna, ci rispondono: “we tried contacting but we can’t reach the phone number“. La donna ci dice che in realtà non l’hanno mai chiamata. Comunichiamo di nuovo la sua localizzazione: 42.12.37.6N 27.00.21.5E. Aggiungiamo che è molto vicino alla strada, ci rispondono: “not exactly, it’s more like inside of the woods“, “it’s exactly like near the border, and it’s inside of a wood region, it’s a forest, not a street“. Per fugare ogni dubbio, chiediamo: “do you confirm that the coordinates are near to route 79?“. Ci tengono in attesa, rispondono: “they are near a main road. Can’t exactly specify if it’s 79“. Diciamo che la donna è svenuta. “Can she dial us? Can she call so we can get a bit more information?“. Non capiamo di che ulteriori informazioni abbiano bisogno, siamo increduli: “She’s not conscious so I don’t think she’ll be able to make the call“. Suggeriscono allora che l’interprete si metta in contatto diretto con loro. Sospettiamo che vogliano tagliarci fuori. Sono passati 18 minuti, la chiamata è stata una farsa. Se prima temevamo le conseguenze dell’arrivo della polizia, ora abbiamo paura che non arrivi nessuno. Decidiamo di metterci in strada, ci aspetta 1h e 40 di viaggio.

      Ore 04.42, terza chiamata. Ci chiedono di nuovo tutte le informazioni, ancora una volta comunichiamo le coordinate gps. Diciamo che stiamo andando in loco ed incalziamo: “Are there any news on the research?“. “I can’t tell this“. Attraverso l’interprete rimaniamo in costante contatto con la donna. Conferma che non è arrivata alcuna searching unit. La farsa sta diventando una tragedia.

      Ore 06.18, quarta chiamata. Siamo sul posto e la strada è deserta. Vogliamo essere irreprensibili ed informarli che siamo arrivati. Ripetiamo per l’ennesima volta che chiamiamo per una donna incinta in gravi condizioni. Il dialogo è allucinante, ricominciano con le domande: “which month?“, “which baby is this? First? Second?“, “how old does she look like?“, “how do you know she’s there? she called you or what?“. Gli comunichiamo che stiamo per iniziare a cercarla, ci rispondono: “we are looking for her also“. Interveniamo: “Well, where are you because there is no one here, we are on the spot and there is no one“. Si giustificano: “you have new information because obviously she is not at the one coordinates you gave“, “the police went three times to the coordinates and they didn’t find the woman, the coordinates are wrong“. Ancora una volta, capiamo che stanno mentendo.

      Faremo una quinta chiamata alle 06.43, quando l’avremo già trovata. Ci richiederanno le coordinate e ci diranno di aspettarli lungo la strada.

      La nostra ricerca dura pochi minuti. La donna ci invia di nuovo la posizione: 42.12.36.3N 27.00.43.3E. Risulta essere a 500 metri dalle coordinate precedenti, ma ancor più vicina alla strada. Gridiamo “hello” e ci facciamo guidare dalle voci: la troviamo letteralmente a due metri dalla strada, su un leggero pendio, accasciata sotto un albero e le bambine al suo fianco. Vengono dalla Siria, le bambine hanno 4 e 7 anni. Lei è troppo debole per alzarsi. Abbiamo per loro sono dell’acqua e del pane. C’è lì anche un ragazzo, probabilmente minorenne, che le ha trovate ed è rimasto ad aiutarle. Lo avvertiamo che arriverà la polizia. Non vuole essere respinto in Turchia, riparte solo e senza zaino. Noi ci guardiamo attorno: la “foresta” si rivela essere una piccola striscia alberata di qualche metro, che separa la strada dai campi agricoli.

      Dopo poco passa una ronda della border police, si fermano e ci avvicinano con la mano sulla pistola. Non erano stati avvertiti: ci aggrediscono con mille domande senza interessarsi alla donna ed alle bambine. Ci prendono i telefoni, ci cancellano le foto fatte all’arrivo delle volanti. Decidiamo di chiamare un’avvocata locale nostra conoscente: lei ci risponde che nei boschi è normale che i soccorsi tardino e ci suggerisce di andarcene per lasciar lavorare la polizia. Nel frattempo arrivano anche la gendarmerie e la local police.

      Manca solo l’unica cosa necessaria e richiesta: l’ambulanza, che non arriverà mai.

      Ore 07.45, la polizia ci scorta nel paese più vicino – Sredets – dove ci ha assicurato esserci un ospedale. Cercano di dividere la donna e le bambine in auto diverse. Chiediamo di portarle noi tutte assieme in macchina. A Sredets, tuttavia, siamo condotti nella centrale della border police. Troviamo decine di guardie di frontiera vestite mimetiche, armate di mitraglie, che escono a turno su mezzi militari, due agenti olandesi di Frontex, un poliziotto bulgaro con la maglia del fascio littorio dei raduni di Predappio. Siamo relegati nel fondo di un corridoio, in piedi, circondati da cinque poliziotti. Il più giovane urla e ci dice che saremo trattenuti “perché stai facendo passare migranti clandestini“. Chiediamo acqua ed un bagno per la donna e le bambine, inizialmente ce li negano. Rimaniamo in attesa, ora ci dicono che non possono andare in ospedale in quanto senza documenti, sono in stato di arresto.

      Ore 09.00, arriva finalmente un medico: parla solamente in bulgaro, visita la donna in corridoio senza alcuna privacy, chiedendole di scoprire la pancia davanti ai 5 poliziotti. Chiamiamo ancora una volta l’avvocata, vogliamo chiedere che la donna sia portata in un ambulatorio e che abbia un interprete. Rimaniamo inascoltati. Dopo a malapena 5 minuti il medico conclude la sua visita, consigliando solamente di bere molta acqua.

      Ore 09.35, ci riportano i nostri documenti e ci invitano ad andarcene. E’ l’ultima volta che vediamo la donna e le bambine. Il telefono le viene sequestrato. Non viene loro permesso di fare la richiesta di asilo e vengono portate nel pre-removal detention centre di Lyubimets. Prima di condurci all’uscita, si presenta un tale ispettore Palov che ci chiede di firmare tre carte. Avrebbero giustificato le ore passate in centrale come conversazione avuta con l’ispettore, previa convocazione ufficiale. Rifiutiamo.

      Sulla via del ritorno ripercorriamo la Route 79, è estremamente pattugliata dalla polizia. Pensiamo alle tante persone che ogni notte muoiono senza nemmeno poter chiedere aiuto, oltre alle poche che lo chiedono invano. Lungo le frontiere di terra come di mare, l’omissione di soccorso è una precisa strategia delle autorità.

      L’indomani incontriamo l’amico del marito della donna. Sa che non potrà più fare qualcosa di simile: sarebbe accusato di smuggling e perderebbe ogni possibilità di ricostruirsi una vita in Europa. Invece noi, attivisti indipendenti, possiamo e dobbiamo continuare: abbiamo molto meno da perdere. Ci è chiara l’urgenza di agire in prima persona e disobbedire a chi uccide lasciando morire.

      Dopo 20 giorni dall’accaduto riusciamo ad incontrare la donna con le bambine, che sono state finalmente trasferite al campo aperto di Harmanli. Sono state trattenute quindi nel centro di detenzione di Lyubimets per ben 19 giorni. La donna ci riferisce che, durante la loro permanenza, non è mai stata portata in ospedale per eseguire accertamenti, necessari soprattutto per quanto riguarda la gravidanza; è stata solamente visitata dal medico del centro, una visita molto superficiale e frettolosa, molto simile a quella ricevuta alla stazione di polizia di Sredets. Ci dà inoltre il suo consenso alla pubblicazione di questo report.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-lasciar-morire-e-uccidere

      #laisser_mourir

    • Bulgaria, per tutti i morti di frontiera

      Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino: un racconto di come i confini d’Europa uccidono nel silenzio e nell’indifferenza


      Da fine giugno il Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino è ripartito per un nuovo progetto di solidarietà attiva e monitoraggio verso la frontiera più esterna dell’Unione Europea, al confine tra Bulgaria e Turchia.
      Pubblichiamo il secondo report delle “operazioni di ricerca e soccorso” che il Collettivo sta portando avanti, in cui si racconta del ritrovamento del corpo senza vita di H., un uomo siriano che aveva deciso di sfidare la fortezza Europa. Come lui moltə altrə tentano il viaggio ogni giorno, e muoiono nelle foreste senza che nessuno lo sappia. Al Collettivo è sembrato importante diffondere questa storia perchè parla anche di tutte le altre storie che non potranno essere raccontate, affinché non rimangano seppellite nel silenzio dei confini.

      Ore 12, circa, al numero del collettivo viene segnalata la presenza del corpo di un ragazzo siriano di trent’anni, H., morto durante un tentativo di game in prossimità della route 79. Abbiamo il contatto di un fratello, che comunica con noi attraverso un cugino che fa da interprete. Chiedono aiuto nel gestire il recupero, il riconoscimento e il rimpatrio del corpo; ci mandano le coordinate e capiamo che il corpo si trova in mezzo ad un bosco ma vicino ad un sentiero: probabilmente i suoi compagni di viaggio lo hanno lasciato lì così che fosse facilmente raggiungibile. Nelle ore successive capiamo insieme come muoverci.

      Ore 15, un’associazione del territorio con cui collaboriamo chiama una prima volta il 112, il numero unico per le emergenze. Ci dice che il caso è stato preso in carico e che le autorità hanno iniziato le ricerche. Alla luce di altri episodi simili, decidiamo di non fidarci e iniziamo a pensare che potrebbe essere necessario metterci in viaggio.

      Ore 16.46, chiamiamo anche noi il 112, per mettere pressione ed assicurarci che effettivamente ci sia una squadra di ricerca in loco: decidiamo di dire all’operatore che c’è una persona in condizioni critiche persa nei boschi e diamo le coordinate precise. Come risposta ci chiede il nome e, prima ancora di informazioni sul suo stato di salute, la sua nazionalità. E’ zona di frontiera: probabilmente, la risposta a questa domanda è fondamentale per capire che priorità dare alla chiamata e chi allertare. Quando diciamo che è siriano, arriva in automatico la domanda: “How did he cross the border? Legally or illegally?“. Diciamo che non lo sappiamo, ribadiamo che H. ha bisogno di soccorso immediato, potrebbe essere morto. L’operatore accetta la nostra segnalazione e ci dice che polizia e assistenza medica sono state allertate. Chiediamo di poter avere aggiornamenti, ma non possono richiamarci. Richiameremo noi.

      Ore 17.54, richiamiamo. L’operatrice ci chiede se il gruppo di emergenza è arrivato in loco, probabilmente pensando che noi siamo insieme ad H. La informiamo che in realtà siamo a un’ora e mezzo di distanza, ma che ci possiamo muovere se necessario. Ci dice che la border police “was there” e che “everything will be okay if you called us“, ma non ha informazioni sulle sorti di H. Le chiediamo, sempre memori delle false informazioni degli altri casi, come può essere sicura che una pattuglia si sia recata in loco; solo a questo punto chiama la border police. “It was my mistake“, ci dice riprendendo la chiamata: gli agenti non lo hanno trovato, “but they are looking for him“. Alle nostre orecchie suona come una conferma del fatto che nessuna pattuglia sia uscita a cercarlo. L’operatrice chiude la chiamata con un: “If you can, go to this place, [to] this GPS coordinates, because they couldn’t find this person yet. If you have any information call us again“. Forti di questo via libera e incazzatə di dover supplire alle mancanze della polizia ci mettiamo in viaggio.

      Ore 18.30, partiamo, chiamando il 112 a intervalli regolari lungo la strada: emerge grande indifferenza, che diventa a tratti strafottenza rispetto alla nostra insistenza: “So what do you want now? We don’t give information, we have the signal, police is informed“. Diciamo che siamo per strada: “Okay“.

      Ore 20.24, parcheggiamo la macchina lungo una strada sterrata in mezzo al bosco. Iniziamo a camminare verso le coordinate mentre il sole dietro di noi inizia a tramontare. Richiamiamo il 112, informando del fatto che non vediamo pattuglie della polizia in giro, nonostante tutte le fantomatiche ricerche già partite. Ci viene risposto che la polizia è stata alle coordinate che noi abbiamo dato e non ha trovato nessuno; gli avvenimenti delle ore successive dimostreranno che questa informazione è falsa.

      “I talked with Border Police, today they have been in this place searching for this guy, they haven’t find anybody, so“

      “So? […] What are they going to do?“

      “What do you want from us [seccato]? They haven’t found anyone […]“

      “They can keep searching.”

      “[aggressivo] They haven’t found anybody on this place. What do you want from us? […] On this location there is no one. […] You give the location and there is no one on this location“.

      Ore 21.30, arriviamo alle coordinate attraverso un bosco segnato da zaini e bottiglie vuote che suggeriscono il passaggio di persone in game. Il corpo di H. è lì, non un metro più avanti, non uno più indietro. I suoi compagni di viaggio, nonostante la situazione di bisogno che la rotta impone, hanno avuto l’accortezza di lasciargli a fianco il suo zaino, il suo telefono e qualche farmaco. E’ evidente come nessuna pattuglia della polizia sia stata sul posto, probabilmente nessuna è neanche mai uscita dalla centrale. Ci siamo mosse insieme a una catena di bugie. Richiamiamo il 112 e l’operatrice allerta la border police. Questa volta, visto il tempo in cui rimaniamo in chiamata in attesa, parrebbe veramente.

      Ore 21.52, nessuno in vista. Richiamiamo insistendo per sapere dove sia l’unità di emergenza, dato che temiamo ancora una volta l’assoluto disinteresse di chi di dovere. Ci viene risposto: “Police crew is on another case, when they finish the case they will come to you. […] There is too many case for police, they have only few car“. Vista la quantità di posti di blocco e di automobili della polizia che abbiamo incrociato lungo la route 79 e i racconti dei suoi interventi continui, capillari e violenti in “protezione” dei confini orientali dell’UE, non ci pare proprio che la polizia non possegga mezzi. Evidentemente, di nuovo, è una questione di priorità dei casi e dei fini di questi: ci si muove per controllare e respingere, non per soccorrere. Insistiamo, ci chiedono informazioni su di noi e sulla macchina:

      “How many people are you?“

      “Three people“

      “Only women?”

      “Yes…”

      “Have patience and stay there, they will come“.

      Abbiamo la forte percezione che il fatto di essere solo ragazze velocizzerà l’intervento e che di certo nessuno si muoverà per H.: il pull factor per l’intervento della polizia siamo diventate noi, le fanciulle italiane in mezzo al bosco da salvare. Esplicitiamo tra di noi la necessità di mettere in chiaro, all’eventuale arrivo della polizia, che la priorità per noi è il recupero del corpo di H. Sentiamo anche lə compagnə che sono rimastə a casa: davanti all’ennesimo aggiornamento di stallo, in tre decidono di partire da Harmanli e di raggiungerci alle coordinate; per loro si prospetta un’ora e mezzo in furgone: lungo la strada, verranno fermati tre volte a posti di blocco, essendo i furgoni uno dei mezzi preferiti dagli smuggler per muovere le persone migranti verso Sofia.

      Ore 22, continuiamo con le chiamate di pressione al 112. E’ una donna a rispondere: la sua voce suona a tratti preoccupata. Anche nella violenza della situazione, registriamo come la socializzazione di genere sia determinante rispetto alla postura di cura. Si connette con la border police: “Police is coming to you in 5…2 minutes“, ci dice in un tentativo di rassicurarci. Purtroppo, sappiamo bene che le pratiche della polizia sono lontane da quelle di cura e non ci illudiamo: l’attesa continuerà. Come previsto, un’ora dopo non è ancora arrivato nessuno. All’ennesima chiamata, il centralinista ci chiede informazioni sulla morfologia del territorio intorno a noi. Questa richiesta conferma quello che ormai già sapevamo: la polizia, lì, non è mai arrivata.

      Ore 23.45, delle luci illuminano il campo in cui siamo sedute ormai da ore vicine al corpo di H. E’ una macchina della polizia di frontiera, con sopra una pattuglia mista di normal police e border police. Nessuna traccia di ambulanza, personale medico o polizia scientifica. Ci chiedono di mostrargli il corpo. Lo illuminano distrattamente, fanno qualche chiamata alla centrale e tornano a noi: ci chiedono come siamo venute a sapere del caso e perchè siamo lì. Gli ribadiamo che è stata un’operatrice del 112 a suggerici ciò: la cosa ci permette di giustificare la nostra presenza in zona di confine, a fianco ad un corpo senza vita ed evitare le accuse di smuggling.

      Ore 23.57, ci propongono di riaccompagnarci alla nostra macchina, neanche 10 minuti dopo essere arrivati. Noi chiediamo cosa ne sarà del corpo di H. e un agente ci risponde che arriverà un’unità di emergenza apposita. Esplicitiamo la nostra volontà di aspettarne l’arrivo, vogliamo tentare di ottenere il maggior numero di informazioni da comunicare alla famiglia e siamo preoccupate che, se noi lasciamo il campo, anche la pattuglia abbandonerà il corpo. Straniti, e forse impreparati alla nostra presenza e insistenza, provano a convincerci ad andare, illustrando una serie farsesca di pericoli che vanno dal fatto che sia zona di frontiera interdetta alla presenza di pericolosi migranti e calabroni giganti. Di base, recepiamo che non hanno una motivazioni valida per impedirci di rimanere.

      Quando il gruppo di Harmanli arriva vicino a noi, la polizia li sente arrivare prima di vederli e pensa che siano un gruppo di migranti; a questo stimolo, risponde con la prontezza che non ha mai dimostrato rispetto alle nostre sollecitazioni. Scatta verso di loro con la mano a pistola e manganello e le torce puntate verso il bosco. Li trova, ma il loro colore della pelle è nello spettro della legittimità. Va tutto bene, possono arrivare da noi. Della pattuglia di sei poliziotti, tre vanno via in macchina, tre si fermano effettivamente per la notte; ci chiediamo se sarebbe andata allo stesso modo se noi con i nostri occhi bianchi ed europei non fossimo stati presenti. Lo stallo continua, sostanzialmente, fino a mattina: la situazione è surreale, con noi sdraiati a pochi metri dalla polizia e dal corpo di H. L’immagine che ne esce parla di negligenza delle istituzioni, della gerarchia di vite che il confine crea e dell’abbandono sistematico dei corpi che vi si muovono intorno, se non per un loro possibile respingimento.

      Ore 8 di mattina, l’indifferenza continua anche quando arriva la scientifica, che si muove sbrigativa e sommaria intorno al corpo di H., vestendo jeans e scattando qualche fotografia simbolica. Il tutto non dura più di 30 minuti, alla fine dei quali il corpo parte nella macchina della border police, senza comunicazione alcuna sulla sua direzione e sulle sue sorti. Dopo la solita strategia di insistenza, riusciamo ad apprendere che verrà portato all’obitorio di Burgas, ma non hanno nulla da dirci su quello che avverrà dopo: l’ipotesi di un rimpatrio della salma o di un possibile funerale pare non sfiorare nemmeno i loro pensieri. Scopriremo solo in seguito, durante una c​hiamata con la famiglia, che H., nella migliore delle ipotesi, verrà seppellito in Bulgaria, solo grazie alla presenza sul territorio bulgaro di un parente di sangue, da poco deportato dalla Germania secondo le direttive di Dublino, che ha potuto riconoscere ufficialmente il corpo. Si rende palese, ancora una volta, l’indifferenza delle autorità nei confronti di H., un corpo ritenuto illegittimo che non merita nemmeno una sepoltura. La morte è normalizzata in questi spazi di confine e l’indifferenza sistemica diventa un’arma, al pari della violenza sui corpi e dei respingimenti, per definire chi ha diritto a una vita degna, o semplicemente a una vita.

      https://www.meltingpot.org/2023/08/bulgaria-per-tutti-i-morti-di-frontiera

  • Les errements d’Arendt
    https://laviedesidees.fr/Belle-Hannah-Arendt-et-la-question-noire

    La philosophe américaine K. S. Belle analyse la façon superficielle dont Hannah Arendt commenta en 1957 la fin de la #ségrégation raciale aux #États-Unis. Si les critiques de Belle s’avèrent souvent justes, elles ne sauraient s’étendre à l’ensemble de l’œuvre d’Arendt. À propos de : Kathryn Sophia Belle, Hannah Arendt et la question noire, éd. Kimé

    #Philosophie #Histoire #racisme
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231018_arendt.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231018_arendt.docx

  • De la #circulation des termes et des images xénophobes...

    Il y a longtemps, j’avais écrit ce texte pour @visionscarto (quand encore le blog était hébergé sur le site du Monde Diplo) :
    En Suisse, pieds nus contre rangers
    https://visionscarto.net/en-suisse-pieds-nus-contre-rangers

    Je montrais notamment comment le #poster de cette campagne emblématique de l’#UDC en #Suisse avait circuler dans les sphères de l’#extrême_droite européenne.

    L’original made in Switzerland :

    La même idée des #moutons reprise par la #Lega_Nord en #Italie :


    Et le #NPD en #Allemagne :

    Cette #campagne avait été conçue par l’#UDC pour soutenir leur #initiative dite « Pour le renvoi des #étrangers_criminels » (débutée en 2010, mais qui a pourri le paysage suisse pendant des années... oui, car ces posters ont été tapissés dans l’espace public suisse pendant bien trop longtemps car il y a eu des rebondissements) :
    – "Initiative populaire « Pour le renvoi des étrangers criminels »" (2008) https://fr.wikipedia.org/wiki/Initiative_populaire_%C2%AB_Pour_le_renvoi_des_%C3%A9trangers_criminel
    Début de la récolte des signatures : 2007 —> https://www.bk.admin.ch/ch/f/pore/vi/vis357.html
    – "Initiative populaire fédérale suisse « Pour le renvoi effectif des étrangers criminels »" (2012) : https://fr.wikipedia.org/wiki/Initiative_populaire_f%C3%A9d%C3%A9rale_suisse_%C2%AB_Pour_le_renvoi_e
    – et d’autres étapes que je ne vais pas détailler ici, car pas le temps de faire la chronologie de cette initiative...

    Cette idée de l’expulsion des criminels étrangers est reprise aujourd’hui par #Darmanin (mais depuis quand cette expression est utilisée en #France ? Quelqu’un·e. a une idée ??) :

    #Gérald_Darmanin se saisit de l’attentat d’Arras pour relancer ses mesures sur l’immigration

    L’attaque au #couteau qui a coûté la vie à un professeur de lycée et fait trois blessés a relancé le débat sur l’immigration, poussant le ministre de l’intérieur à surenchérir sur la question des « #délinquants_étrangers » et de leur expulsion.

    https://mastodon.social/@Mediapart/111244723392752616
    https://www.mediapart.fr/journal/politique/161023/gerald-darmanin-se-saisit-de-l-attentat-d-arras-pour-relancer-ses-mesures-

    Au même temps, en #Italie, et plus précisément dans le #Haut-Adige :

    Un manifesto elettorale della #Süd-Tiroler_Freiheit -partito noto per le proprie posizioni xenofobe- ritrae in primo piano un uomo nero con un coltello in mano. Dietro di lui, una donna bianca cerca riparo in un angolo, coprendosi il volto con le braccia. L’immagine è inequivocabile, così come la scritta a caratteri cubitali posta poco più in basso: “Kriminelle Ausländer abschieben” (cioè espellere gli stranieri criminali).

    https://seenthis.net/messages/1021581
    https://altreconomia.it/in-alto-adige-in-arrivo-un-cpr-a-uso-locale-lultimo-anello-di-una-caten
    Voici le #poster du parti du #Sud-Tyrol :

    Et comme par hasard, voici la nouvelle campagne datée 2023 de l’UDC en Suisse : "#Nouvelle_normalité ?"


    https://www.udc.ch/nouvelle-normalite

    J’ai un vague souvenir que cette image d’une personne (étrangère, of course !) qui attaque un·e innocent·e suisse·sse au couteau n’est pas nouvelle dans l’#iconographie de l’UDC, mais je n’ai pas trouvé de trace sur internet pour l’heure...

    Si ces images et ces slogans sont #made_in_Switzerland comme on pourrait peut-être le déduire, il faudrait du coup l’ajouter à la liste des inventions suisses en termes de politique migratoire dont j’avais écrit, avec Ibrahim Soysüren dans la revue Plein Droit :
    Le couteau suisse des politiques migratoires
    https://www.cairn.info/revue-plein-droit-2019-2-page-3.htm
    #moutons_noirs #moutons_blancs #criminels_étrangers #renvoi #expulsion #migrations #étrangers_délinquants #criminalité #racisme #xénophobie

  • Sortir de l’enfer - La méridienne
    https://www.la-meridienne.info/spip.php?article22

    « Pourquoi une bombe lâchée sur un immeuble de Gaza, ça ne te fait rien ?, demandait l’autre jour une amie arabe à un Français de son entourage bouleversé, à juste titre, par l’attaque du Hamas, mais totalement indifférent au reste. Tu crois que c’est plus doux ? » C’est une vraie question.

    « D’une manière globale, je trouve que l’international est de moins en moins présent dans les discours de gauche. Chez les jeunes générations, l’internationalisme n’est pas toujours une évidence comme il l’était pour des générations plus anciennes », disait récemment la députée de La France insoumise Clémentine Autain à Mediapart, à propos d’une autre cause : la cause arménienne. C’est une explication possible. Mais on voit aussi (et ici je demande pardon à mes lecteur-ices concerné-es pour la brutalité du constat, même si je me doute que je ne leur apprends rien) les effets de longues années de déshumanisation et de diabolisation des musulman-es. Lentement mais sûrement, l’islamophobie et ses innombrables relais ont fait leur office, ils ont émoussé les sensibilités.

  • « Antisémitisme et national-socialisme », par Moishe Postone
    http://www.palim-psao.fr/article-31273595.html

    Qu’est‑ce qui fait la spécificité de l’Holocauste et de l’#antisémitisme moderne ? Ni le nombre des hommes qui furent assassinés ni l’étendue de leurs souffrances : ce n’est pas une question de quantité. Les exemples historiques de meurtres de masse et de génocides ne manquent pas. (Par exemple, les nazis assassinèrent bien plus de Russes que de juifs.) En réalité, il s’agit d’une spécificité qualitative. Certains aspects de l’anéantissement du judaïsme européen restent inexplicables tant que l’on traite l’antisémitisme comme un exemple particulier d’une stratégie du bouc émissaire dont les victimes auraient fort bien pu être les membres de n’importe quel autre groupe.

      L’Holocauste se caractérise par un sens de la mission idéologique, par une relative absence d’émotion et de haine directe (contrairement aux pogromes, par exemple) et, ce qui est encore plus important, par son manque évident de fonctionnalité. L’extermination des juifs n’était pas le moyen d’une autre fin. Les juifs ne furent pas exterminés pour une raison militaire ni au cours d’un violent processus d’acquisition territoriale (comme ce fut le cas pour les Indiens d’Amérique ou les Tasmaniens). Il ne s’agissait pas davantage d’éliminer les résistants potentiels parmi les juifs pour exploiter plus facilement les autres en tant qu’ilotes. (C’était là par ailleurs la politique des nazis à l’égard des Polonais et des Russes.) Il n’y avait pas non plus un quelconque autre but « extérieur ». L’extermination des juifs ne devait pas seulement être totale, elle était une fin en soi : l’#extermination pour l’extermination, une fin exigeant la priorité absolue[3].

      Ni une explication fonctionnaliste du meurtre de masse ni une théorie de l’antisémitisme centrée sur la notion de bouc émissaire ne sauraient fournir d’explication satisfaisante au fait que, pendant les dernières années de la guerre, une importante partie des chemins de fer fut utilisée pour transporter les juifs vers les chambres à gaz et non pour soutenir la logistique de l’armée alors que la Wehrmacht était écrasée par l’Armée rouge. Une fois reconnue la spécificité qualitative de l’anéantissement du judaïsme européen, il devient évident que toutes les tentatives d’explication qui s’appuient sur les notions de capitalisme, de racisme, de bureaucratie, de répression sexuelle ou de personnalité autoritaire demeurent beaucoup trop générales. Comprendre, ne serait‑ce qu’en partie, la spécificité de l’Holocauste exige de recourir à une argumentation elle‑même spécifique.

      Bien sûr, l’anéantissement du judaïsme europeen est lié à l’antisémitisme. La spécificité du premier doit donc être mise en rapport avec celle du second. De plus, comprendre l’antisémitisme moderne suppose la prise en compte du #nazisme comme d’un mouvement qui, dans la compréhension qu’il avait de lui‑même, se pensait comme une révolte.

      L’antisémitisme moderne, qu’il ne faut pas confondre avec le préjugé anti‑juifs courant, est une idéologie, une forme de pensée, qui a fait son apparition en Europe à la fin du XIXe siècle. Son apparition suppose l’existence séculaire de formes d’antisémitisme antérieures qui ont toujours fait partie de la civilisation chrétienne occidentale. Toutes les formes de l’antisémitisme ont en commun l’idée d’un pouvoir attribué aux juifs : le pouvoir de tuer Dieu, de déchaîner la peste ou, plus récemment, d’engendrer le capitalisme et le socialisme. La pensée antisémite est une pensée fortement manichéenne dans laquelle les juifs jouent le rôle des enfants des ténèbres.

      Ce n’est pas seulement le degré mais aussi la qualité du #pouvoir_attribué_aux_juifs qui différencie l’antisémitisme des autres formes de #racisme. Probablement, toutes les formes de racisme prêtent à l’Autre un pouvoir potentiel. Mais, habituellement, ce pouvoir est concret, matériel et sexuel. C’est le pouvoir potentiel de l’opprimé (comme puissance du refoulé), du « sous‑homme ». Le pouvoir attribué aux juifs par l’antisémitisme n’est pas seulement conçu comme plus grand mais aussi comme réel et non comme potentiel. Cette différence qualitative est exprimée par l’antisémitisme moderne en termes de mystérieuse présence insaisissable, abstraite et universelle. Ce pouvoir n’apparaît pas en tant que tel mais cherche un support concret — politique, social ou culturel — à travers lequel il puisse fonctionner. Étant donné que ce pouvoir n’est pas fixé concrètement, qu’il n’est pas « enraciné », il est ressenti comme immensément grand et difficilement contrôlable. Il est censé se tenir derrière les apparences sans leur être identique. Sa source est donc cachée, conspiratrice. Les juifs sont synonymes d’une insaisissable #conspiration internationale, démesurément puissante.

  • Le sionisme, l’antisémitisme et la gauche, par Moishe Postone
    http://www.palim-psao.fr/2019/02/le-sionisme-l-antisemitisme-et-la-gauche-par-moishe-postone.html


    Graffiti antisémite en Belgique en 2013

    Moishe Postone : Il est exact que le gouvernement israélien se sert de l’accusation d’#antisémitisme comme d’un bouclier pour se protéger des critiques. Mais ça ne veut pas dire que l’antisémitisme lui-même ne représente pas un problème grave.

    Ce qui distingue ou devrait distinguer l’antisémitisme du #racisme a à voir avec l’espèce d’imaginaire du pouvoir attribué aux #Juifs, au sionisme et à #Israël, imaginaire qui constitue le noyau de l’antisémitisme. Les Juifs sont perçus comme constituant une sorte de pouvoir universel immensément puissant, abstrait et insaisissable qui domine le monde. On ne trouve rien d’équivalent à la base d’aucune autre forme de racisme. Le racisme, pour autant que je sache, constitue rarement un système complet cherchant à expliquer le monde. L’antisémitisme est une critique primitive du monde, de la modernité capitaliste. Si je le considère comme particulièrement dangereux pour la gauche, c’est précisément parce que l’antisémitisme possède une dimension pseudo-émancipatrice que les autres formes de racisme n’ont que rarement.

    MT : Dans quelle mesure pensez-vous que l’antisémitisme aujourd’hui soit lié aux attitudes vis-à-vis d’Israël ? On a l’impression que certaines des attitudes de la #gauche à l’égard d’Israël ont des sous-entendus antisémites, notamment celles qui ne souhaitent pas seulement critiquer et obtenir un changement dans la politique du gouvernement israélien à l’égard des Palestiniens, mais réclament l’abolition d’Israël en tant que tel, et un monde où toutes les nations existeraient sauf Israël. Dans une telle perspective, être juif, sentir qu’on partage quelque chose comme une identité commune avec les autres Juifs et donc en général avec les Juifs israéliens, équivaut à être « sioniste » et est considéré comme aussi abominable qu’être raciste.

    MP : Il y a beaucoup de nuances et de distinctions à faire ici. Dans la forme que prend de nos jours l’#antisionisme, on voit converger de façon extrêmement dommageable toutes sortes de courants historiques.

    L’un d’eux, dont les origines ne sont pas nécessairement antisémites, plonge ses racines dans les affrontements entre membres de l’intelligentsia juive d’Europe orientale au début du XXesiècle. La plupart des intellectuels juifs – intellectuels laïques inclus ? – sentaient qu’une certaine forme d’#identité_collective faisait partie intégrante de l’expérience juive. Cette identité a pris de plus en plus un caractère national étant donné la faillite des formes antérieures, impériales, de collectivité – c’est-à-dire à mesure que les vieux empires, ceux des Habsbourg, des Romanov, de la Prusse, se désagrégeaient. Les Juifs d’Europe orientale, contrairement à ceux d’Europe occidentale, se voyaient avant tout comme une collectivité, pas simplement comme une religion.

    Ce sentiment national juif s’exprima sous diverses formes. Le sionisme en est une. Il y en eut d’autres, représentées notamment par les partisans d’une #autonomie_culturelle juive, ou encore par le #Bund, ce mouvement socialiste indépendant formé d’ouvriers Juifs, qui comptait plus de membres qu’aucun autre mouvement juif et s’était séparé du parti social-démocrate russe dans les premières années du XXe siècle.

    D’un autre côté, il y avait des Juifs, dont un grand nombre d’adhérents aux différents partis communistes, pour qui toute expression identitaire juive constituait une insulte à leur vision de l’humanité, vision issue des Lumières et que je qualifierais d’abstraite. Trotski, par exemple, dans sa jeunesse, qualifiait les membres du Bund de « sionistes qui ont le mal de mer ». Notez que la critique du #sionisme n’avait ici rien à voir avec la Palestine ou la situation des Palestiniens, puisque le Bund s’intéressait exclusivement à la question de l’autonomie au sein l’empire russe et rejetait le sionisme. En assimilant le Bund et le sionisme, Trotski fait plutôt montre d’un rejet de toute espèce d’identité communautaire juive. Trotski, je crois, a changé d’opinion par la suite, mais cette attitude était tout à fait typique. Les organisations communistes avaient tendance à s’opposer vivement à toute espèce de #nationalisme_juif : nationalisme culturel, nationalisme politique ou sionisme. C’est là un des courants de l’antisionisme. Il n’est pas nécessairement antisémite mais rejette, au nom d’un #universalisme_abstrait, toute identité collective juive. Encore que cette forme d’antisionisme soit souvent incohérente : elle est prêt à accorder l’autodétermination nationale à la plupart des peuples, mais pas aux Juifs. C’est à ce stade que ce qui s’affiche comme abstraitement universaliste devient idéologique. De surcroît, la signification même d’un tel universalisme abstrait varie en fonction du contexte historique. Après l’Holocauste et la fondation de l’État d’Israël, cet universalisme abstrait sert à passer à la trappe l’#histoire des Juifs en Europe, ce qui remplit une double fonction très opportune de « nettoyage » historique : la violence perpétrée historiquement par les Européens à l’encontre des Juifs est effacée, et, dans le même temps, on se met à attribuer aux Juifs les horreurs du colonialisme européen. En l’occurrence, l’universalisme abstrait dont se revendiquent nombre d’antisionistes aujourd’hui devient une idéologie de légitimation qui permet de mettre en place une forme d’#amnésie concernant la longue histoire des actes, des politiques et des idéologies européennes à l’égard des Juifs, tout en continuant essentiellement dans la même direction. Les Juifs sont redevenus une fois de plus l’objet d’une indignation spéciale de la part de l’Europe. La solidarité que la plupart des Juifs éprouvent envers d’autres Juifs, y compris en Israël – pour compréhensible qu’elle soit après l’Holocauste – est désormais décriée. Cette forme d’antisionisme est devenue maintenant l’une des bases d’un programme visant à éradiquer l’autodétermination juive réellement existante. Elle rejoint certaines formes de nationalisme arabe – désormais considérées comme remarquablement progressistes.

    Un autre courant d’antisionisme de gauche – profondément antisémite celui-là – a été introduit par l’Union Soviétique, notamment à travers les procès-spectacles en Europe de l’Est après la Seconde Guerre mondiale. C’est particulièrement impressionnant dans le cas du #procès_Slánský, où la plupart des membres du comité central du parti communiste tchécoslovaque ont été jugés puis exécutés. Toutes les accusations formulées à leur encontre étaient des accusations typiquement antisémites : ils étaient sans attaches, cosmopolites, et faisaient partie d’une vaste conspiration mondiale. Dans la mesure où les Soviétiques ne pouvaient pas utiliser officiellement le discours de l’antisémitisme, ils ont employé le mot « sionisme » pour signifier exactement ce que les antisémites veulent dire lorsqu’ils parlent des Juifs. Ces dirigeants du PC tchécoslovaque, qui n’avaient aucun lien avec le sionisme – la plupart étaient des vétérans de la guerre civile espagnole – ont été exécutés en tant que sionistes.

    Cette variété d’antisionisme antisémite est arrivée au Moyen-Orient durant la #guerre_froide, importée notamment par les services secrets de pays comme l’#Allemagne_de_l’Est. On introduisait au Moyen-Orient une forme d’antisémitisme que la gauche considérait comme « légitime » et qu’elle appelait antisionisme. Ses origines n’avaient rien à voir avec le mouvement contre l’installation israélienne. Bien entendu, la population arabe de Palestine réagissait négativement à l’immigration juive et s’y opposait. C’est tout à fait compréhensible. En soi, ça n’a certes rien d’antisémite. Mais ces deux courants de l’antisionisme se sont rejoints historiquement.

    Pour ce qui concerne le troisième courant, il s’est produit, au cours des dix dernières années environ, un changement vis-à-vis de l’existence d’Israël, en premier lieu au sein du mouvement palestinien lui-même. Pendant des années, la plupart des organisations palestiniennes ont refusé d’accepter l’existence d’Israël. Cependant, en 1988, l’OLP a décidé qu’elle accepterait cette existence. La seconde Intifada, qui a débuté en 2000, était politiquement très différente de la première et marquait un revirement par rapport à cette décision. C’était, à mon avis, une faute politique fondamentale, et je trouve surprenant et regrettable que la gauche s’y soit laissée prendre au point de réclamer elle aussi, de plus en plus, l’abolition d’Israël. Dans tous les cas, il y a aujourd’hui au Moyen-Orient à peu près autant de Juifs que de #Palestiniens. Toute stratégie fondée sur des analogies avec la situation algérienne ou sud-africaine est tout simplement vouée à l’échec, et ce pour des raisons aussi bien démographiques que politico-historiques.

    Moishe Postone est notamment l’auteur de Critique du fétiche-capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche (PUF, 2013)

    #Moishe_Postone #URSS #nationalités #autodétermination_nationale #anti-impérialisme #campisme #islam_politique

    • Il y a un siècle, la droite allemande considérait la domination mondiale du capital comme celle des Juifs et de la Grande Bretagne. À présent, la gauche la voit comme la domination d’Israël et des États-Unis. Le schéma de pensée est le même. Nous avons maintenant une forme d’antisémitisme qui semble être progressiste et « anti-impérialiste » ; là est le vrai danger pour la gauche. Le #racisme en tant que tel représente rarement un danger pour la gauche. Elle doit certes prendre garde à ne pas être raciste mais ça n’est pas un danger permanent, car le racisme n’a pas la dimension apparemment émancipatrice qu’affiche l’antisémitisme.

    • Israël, ce ne sont pas les juifs ; heureusement. Le pouvoir d’extrême droite israélien aimerait bien que tout le monde raisonne comme cela. Afin de perpétuer cet amalgame confus, qui permet de dire « t’es anti-impérialiste ? t’es antisémite ! ». on le voit arriver, le glissement dans cette dernière citation. Cet instrumentalisation l’air de rien. On passe de Juif+Grande-Bretagne à Israël+Usa, comme par magie. Et on nie tous les faits politiques qui objectivement démontrent que les Us et Israël sont à la manœuvre conjointement, géopolitiquement, au Moyen Orient, depuis plusieurs dizaines d’années.

      Le pouvoir israélien est un pouvoir fasciste et colonialiste. Cela dure depuis plusieurs dizaines d’années. Le pouvoir américain est un pouvoir impérialiste. Et cela dure depuis plusieurs dizaines d’années. Ce sont des faits objectifs.

      Renvoyer tous leurs adversaires plus ou moins progressistes dans la cuvette de l’antisémitisme, c’est confus, pour rester courtois.

    • La partie sur l’antisionisme et la Palestine repose sur un tour de passe-passe sémantique très classique : la création d’Israël est sobrement qualifiée d’« autodétermination nationale », et sa critique est systématiquement accolée à l’accusation d’être favorable à l’autodétermination des peuples, « sauf des juifs » ; tout en minimisant (voire en niant carrément) le fait que cette « autodétermination » a nécessité – et nécessite toujours – le nettoyage ethnique à grande échelle de la population indigène.

      Encore que cette forme d’antisionisme soit souvent incohérente : elle est prêt à accorder l’autodétermination nationale à la plupart des peuples, mais pas aux Juifs.

      […]

      Cette forme d’antisionisme est devenue maintenant l’une des bases d’un programme visant à éradiquer l’autodétermination juive réellement existante.

      […]

      Cette idée que toute nation aurait droit à l’autodétermination à l’exception des Juifs est bel et bien un héritage de l’Union Soviétique.

      À l’inverse, le termine « colonisation » n’est ici utilisé que pour être nié.

      la violence perpétrée historiquement par les Européens à l’encontre des Juifs est effacée, et, dans le même temps, on se met à attribuer aux Juifs les horreurs du colonialisme européen.

      […]

      Subsumer le conflit sous l’étiquette du colonialisme, c’est mésinterpréter la situation.

      Évidemment : l’euphémisation « immigration juive », alors qu’on parle de la période de la guerre froide (la Nakba : 1948) :

      Bien entendu, la population arabe de Palestine réagissait négativement à l’immigration juive et s’y opposait.

  • Leaked letter on intended Cyprus-Lebanon joint border controls: increased deaths and human rights violations

    In an increasingly worrying context for migrants and refugees in Cyprus, with the recent escalation of violent racist attacks and discrimination against refugees on the island and the continued pushback policy, civil society organisations raise the alarm concerning Cyprus’ increased support to the Lebanese Army to harden border control and prevent departures.

    A letter leaked on 26 September 2023 (https://www.philenews.com/kipros/koinonia/article/1389120/exi-metra-protini-ston-livano-i-kipros), from the Cypriot Interior Minister to his Lebanese counterpart, reveals that Cyprus will provide Lebanon with 6 vessels and speedboats by the end of 2024, trainings for the Lebanese Armed Forces, will carry out joint patrol operations from Lebanese shores, and will finance the salaries of members of the Lebanese Armed Forces “who actively contribute to the interception of vessels carrying irregular migrants to Cyprus”. In this way, by providing equipment, funding and training to the Lebanese Army, Cyprus will have a determining influence, if not effective control, on the interceptions of migrants’ boats in Lebanese territorial waters and forced returns (the so-called “pullbacks”), to Lebanon. This in violation of EU and international law, which is likely to trigger legal liability issues. As seen in numerous cases, refugees, especially Syrians, who are pulled back to Lebanon are at risk of detention, ill-treatment and deportations to Syria where they are subject to violence, arrest, torture, and enforced disappearance. The worsening situation of Syrian refugees in Lebanon, who face increasing violence and deportations, confirms that Lebanon is not a “safe” third country.

    As seen in the past with several examples from other examples at the EU’s external borders, (e.g. Turkey, Libya and most recently Tunisia), striking deals with EU neighboring countries of departure in order to increase border controls and contain migratory movements has several catastrophic consequences. Despite officially aiming at decreasing the number of lost lives, they actually increase border violence and deaths, leading to serious human rights abuses and violations of EU and international laws. They also foster a blackmail approach as third countries use their borders as leverage against European countries to get additional funds or negotiate on other sensitive issues, at the expense of people’s lives. All these contribute to having a negative impact on the EU and Member States’ foreign policy.

    As demonstrated by a recent article from the Mixed Migration Centre (https://mixedmigration.org/articles/how-to-break-the-business-model-of-smugglers), the most effective way to “disrupt the business model of smugglers” and reduce irregular departures, migrants’ dangerous journeys and the consequent losses of lives, is to expand legal migratory routes.

    By going in the complete opposite direction, Cyprus, for many years now, has prevented migrants, asylum seekers and refugees from reaching the island in a legal way and from leaving the island for other EU countries1. Cyprus has resorted to systematic practices of pushbacks sending refugees back to countries where they are at risk of torture, persecution and arbitrary detention, has intensified forced returns, has dismantled the reception and asylum system, and has fueled a toxic anti-refugee narrative that has led to indiscriminate violent attacks that were initially against Syrian refugees and their properties in #Chloraka (https://kisa.org.cy/sundays-pogrom-in-chloraka) and a few days later to against migrants and their properties in #Limassol (https://cde.news/racism-fuelled-violence-spreads-in-cyprus). More recently, Cyprus has also announced its willingness to push the EU and Member States to re-evaluate Syria’s status and consider the country as “safe” in order to forcibly return Syrian refugees to Syria – despite on-going clashes, structural human rights violations, crimes against humanity and war crimes.

    These deadly externalisation policies and unlawful practices have and continue to kill individuals and prevent them from accessing their rights. A complete change in migration and asylum policies is urgently needed, based on the respect of human rights and people’s lives, and on legal channels for migration and protection. Cyprus, as well as the EU and its Member States, must protect the human rights of migrants at international borders, ensure access to international protection and proper reception conditions in line with EU and international human rights law. They must open effective legal migratory pathways, including resettlement, humanitarian visas and labour migration opportunities; and they must respect their obligations of saving lives at sea and set up proper Search and Rescue operations in the Mediterranean.

    https://euromedrights.org/publication/leaked-letter-on-intended-cyprus-lebanon-joint-border-controls-increa

    #mourir_aux_frontières #frontières #droits_humains #asile #migrations #réfugiés #Chypre #Liban #racisme #attaques_racistes #refoulements #push-backs #militarisation_des_frontières #joint_operations #opérations_conjointes #aide #formation #gardes-côtes_libanaises #pull-backs #réfugiés_syriens #externalisation

  • Mediapart (je suis abonnée) a beaucoup de mal à donner des informations sur Gaza.
    Le propos de Mediapart n’attaque pas la position actuelle de l’occident, qui viole allègrement le Droit international en soutenant Israël dont la politique d’épuration ethnique, aggravée chaque jour, a entrainé l’action du Hamas.

    Je postais des informations sur Gaza récupérées sur Tweeter auprès de comptes sérieux.
    J’avais des difficultés à poster mes commentaires qui n’apparaissaient qu’au bout de plusieurs envois.

    Je suis maintenant interdite de publication sur Mediapart (sous prétexte de quelques commentaires répétés) pour une semaine. Ce qui est une durée longue pour le site ...

    Fabrice Arfi sur Tweeter s’était alarmé que certains condamnent en premier Israël pour sa politique, avant de traiter le Hamas de terroriste ...
    Oubliant qu’Israël a aidé le développement du Hamas pour gêner l’OLP plus modéré, et ainsi n’avoir pas à négocier.

    Peu importe ma petite personne, mais les positions actuelles face à la tragédie de Gaza (et face aux victimes israéliennes conséquentes à la politique d’Israël) me semblent révéler des racismes invisibles jusqu’ici.

    #Media #Racisme #Israël #Gaza #crimes-de-guerre #Mediapart #liberté-d-expression

  • BALLAST • La boxe, ce sport de prolétaires
    https://www.revue-ballast.fr/la-boxe-ce-sport-de-proletaires

    Dans l’i­ma­gi­naire col­lec­tif, la boxe a long­temps été asso­ciée à des images de salles sombres où résonnent le bruit des coups sur les sacs, tan­dis que des corps trans­pirent à la lumière des néons. Aujourd’hui, les salles de sport pro­posent sa pra­tique sous des moda­li­tés variées à un public issu des classes moyenne ou aisée, qui veut se main­te­nir en forme, ou dans le cadre de cours d’au­to­dé­fense. Malgré tout, la boxe reste une acti­vi­té spor­tive bien ancrée dans les classes popu­laires. Par l’en­ga­ge­ment qu’elle demande et la dure­té de la pra­tique, elle fait écho à des condi­tions de vie dif­fi­cile, qu’elle aide à affron­ter. Face à sa récu­pé­ra­tion mar­chande et à la ten­ta­tive de la vider de son carac­tère sub­ver­sif, le jour­na­liste Selim Derkaoui défend pour sa part un sport « au ser­vice des com­bats que l’on mène à plu­sieurs ». Dans Rendre les coups — Boxe et lutte des classes, qui paraît ces jours-ci au Passager clan­des­tin, il rend hom­mage à la boxe popu­laire, celle que pra­ti­quait son père et qu’il est allé ren­con­trer à Aubervilliers, Pantin ou dans la ban­lieue de Caen. Nous en publions un extrait.

    #sport #boxe

  • 🟥 L’EXTRÊME-DROITE GRIMPE PAR LES URNES EN EUROPE... - Debunkers

    L’extrême-droite est toujours bien présente en Europe. Oui, mais de quelle façon ?
    Nous avons l’habitude de considérer qu’il existe des extrêmes-droites, et sur notre continent, on trouve différents courants qui correspondent à des particularités dues à l’histoire. Nous allons donc regarder, pays par pays, qui fait l’extrême-droite en Europe (...)

    ⚡️ #Europe #extrêmedroite #nationalisme #racisme #xénophobie

    #Antifascisme #antiracisme #internationalisme

    https://www.debunkersdehoax.org/lextreme-droite-grimpe-par-les-urnes-en-europe

  • En Tunisie, le président Kaïs Saïed se rebelle contre la politique migratoire européenne
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/10/03/en-tunisie-le-president-kais-saied-se-rebelle-contre-la-politique-migratoire

    Sur le sujet des #migrations irrégulières, rien ne va plus entre la Tunisie et l’Union européenne (UE). En des termes explicites, le président Kaïs Saïed a rejeté les 127 millions d’euros d’aides annoncées le 22 septembre par la Commission européenne, dont 67 millions alloués à un programme d’assistance opérationnelle en matière de migration, en plus d’un appui budgétaire à hauteur de 60 millions d’euros. « La Tunisie […] n’accepte pas la charité ou l’aumône. Notre pays et notre peuple ne veulent pas de sympathie, mais exigent le respect », a déclaré Kaïs Saïed dans un communiqué publié lundi 2 octobre dans la soirée.

    .... le plan de la Commission européenne évoque « la possibilité d’un arrangement de travail entre la Tunisie et Frontex et d’une task force de coordination au sein d’Europol pour lutter de manière plus ciblée contre le trafic de migrants sur la route migratoire vers #Lampedusa via la Tunisie », en plus d’accélérer la fourniture d’équipements et de renforcer « la formation des garde-côtes et des autres services répressifs tunisiens ».

    Sur la même ligne, le président français, Emmanuel Macron, a apporté son soutien à Giorgia Meloni et a indiqué, lors d’une interview diffusée le 24 septembre, vouloir conditionner l’aide budgétaire apportée aux Tunisiens et proposer en échange « d’embarquer des experts, du matériel sur leurs côtes pour démanteler les réseaux de passeurs ». « C’est un partenariat respectueux », a-t-il assuré, rappelant qu’« on a eu en quelques heures plusieurs milliers de migrants qui arrivent à Lampedusa et qui partent tous du port de Sfax », deuxième ville de Tunisie et principal point de départ des candidats à la traversée vers l’Europe.

    #Frontex #pogroms #Tunisie #racisme #migrants #réfugiés #Méditerranée #frontières

  • 🛑 🛑 ACTION COLLECTIVE - 62ÈME ANNIVERSAIRE DU CRIME D’ÉTAT COMMIS LE 17 OCTOBRE 1961... | Solidaires

    Plus de soixante ans après le massacre perpétré par la police française à l’encontre des milliers d’algériennes et d’algériens qui manifestaient pacifiquement à Paris le 17 octobre 1961 contre le couvre-feu raciste qui leur avait été imposé par le gouvernement de l’époque, les plaies de cette blessure sont encore largement ouvertes dans leur mémoire.
    Ce jour-là, cinq mois avant la signature des accords d’Évian, en réaction aux mesures prises par l’État français, la fédération française du FLN algérien (Front de Libération Nationale) a organisé, dans le contexte de la guerre d’indépendance, une manifestation pacifique pour réclamer la levée du couvre-feu, l’indépendance et le droit des peuples à disposer d’eux-mêmes.
    Cette manifestation où se mêlaient femmes, hommes et enfants, fut très violemment réprimée par les forces de police de la préfecture de police de Paris. Aujourd’hui le bilan de ce massacre n’est plus contestable : des victimes de violences par milliers, des disparitions et des morts par centaines (...)

    #crimedétat #ViolencesPolicières #racisme #17octobre1961 #mémoire

    https://solidaires.org/sinformer-et-agir/actualites-et-mobilisations/nationales/action-collective-62eme-anniversaire-du-crime-detat-commis-le-17-octobre

  • Un racisme à peine voilé, Jérôme Host, 2004
    https://www.dailymotion.com/video/x7sjan

    Octobre 2003 : Alma et Lila Levy sont exclues du Lycée Henri Wallon d’Aubervilliers pour le seul motif qu’elles portent un foulard. S’en est suivi un débat politique et médiatique assourdissant, justifiant dans la plupart des cas l’exclusion des jeunes filles qui portent le foulard à l’école. Février 2004, une loi finit par être votée par l’assemblée nationale, à la demande de Chirac…
    « Un racisme à peine voilé » revient sur cette polémique depuis l’affaire de Creil en 1989 (où deux collégiennes avaient été exclues pour les mêmes raisons) et tente de « dévoiler » ce qui se cache réellement derrière la volonté d’exclure ces jeunes filles. Nous leur avons donné la parole. Ainsi qu’à d’autres [professeurs, militant(e)s associatifs(-ves), féministes, chercheurs(-euses)] regroupé(e)s autour du collectif « Une école pour tous-tes », qui lutte pour l’abrogation de cette loi qu’ils et elles jugent sexiste et raciste…

    #film #racisme #sexisme #voile #école #éducation_nationale

  • California’s struggle for clean water is getting harder - Los Angeles Times
    https://www.latimes.com/environment/story/2023-09-27/californias-struggle-for-clean-water-is-getting-harder

    “The issue is, [the human right to water] is a moral obligation more than a legal obligation,” said Mark Gold, director of water scarcity solutions for the Natural Resources Defense Council. “That’s why you see the results that we’ve had. Unless there’s a legal obligation to clean up the water supply and provide it to your residents, then we end up perpetuating the system that we have, which is environmental racism.”

    #eau #eau_potable #toxiques #états-unis #priorités #milliers_de_milliards #leadership #racisme_environnemental

  • A Chypre, les migrants subsahariens poussés au « retour volontaire »
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/29/a-chypre-les-migrants-subsahariens-pousses-au-retour-volontaire_6191668_3212

    A Chypre, les migrants subsahariens poussés au « retour volontaire »
    Un dédommagement est offert à ceux qui décident de quitter l’île. Nicosie veut faire passer le nombre de personnes reparties de 700 par mois en moyenne à 1 000.
    Par Laure Stephan(Nicosie, Chypre, envoyée spéciale)
    Publié le 29 septembre 2023 à 20h00
    2023. CHRISTINA ASSI / AFP
    « Le 10 octobre, cela fera trois ans que je suis arrivée à Chypre. J’ai déposé une demande d’asile, mais je n’ai toujours pas obtenu de rendez-vous pour un entretien », dit Paulette, une Camerounaise de 26 ans assise sur un banc de la vieille ville de Nicosie, où elle savoure son jour de congé hebdomadaire. Sur l’île méditerranéenne, la jeune femme, employée dans un fast-food, se sent « loin des menaces » qu’elle a vécues à Kumba, au Cameroun anglophone en proie à un conflit entre séparatistes et armée, et vit « mieux qu’au pays ». Mais elle se pose la question de « prendre l’option du retour volontaire », programme promu par le gouvernement chypriote : « Les compatriotes arrivés en même temps que moi ont été déboutés du droit d’asile. Le quotidien s’est dégradé, en raison de l’inflation, de la concurrence entre migrants, et du durcissement de la politique migratoire. »
    Les rapatriements volontaires visent les étrangers nouvellement arrivés, et ceux dont la demande d’asile a été rejetée, à condition que leur présence soit toujours légale – ils sont autrement passibles d’expulsion, dont le taux à Chypre est le plus élevé de l’Union européenne (UE). Les ressortissants d’Afrique subsaharienne ont le droit, comme les Syriens, à la compensation la plus élevée – 1 500 euros – s’ils optent pour le retour, avec la prise en charge de leur billet d’avion. Cela s’explique par leur forte représentation ces dernières années : les Nigérians, les Camerounais, les Congolais de République démocratique du Congo (RDC) et les Somaliens constituaient en 2022 38 % des quelque 21 000 nouveaux demandeurs d’asile.
    Les chiffres des arrivées sont minimes en comparaison d’autres pays du sud de l’Europe, comme l’Italie. Mais, à l’échelle de la partie sud de l’île divisée qui compte 915 000 habitants pour moins de 6 000 km2, l’afflux, en hausse depuis 2018, est jugé inquiétant par les autorités de Nicosie.
    Une approche critiquée par les ONG, qui mettent en avant l’apport des migrants à l’économie et le besoin de protection des réfugiés. Le gouvernement, lui, dénonce la main de la Turquie derrière ces arrivées : la plupart des migrants franchissent, avec un passeur, la ligne de démarcation entre le nord de Chypre, contrôlé par la République turque de Chypre du Nord (RTCN, reconnue uniquement par Ankara), et le sud. Il estime avoir à faire, dans une majorité de cas, à des migrants économiques. Plus de 95 % des demandes d’asile ont été rejetées en 2022, un chiffre qui s’explique aussi par l’interruption pendant plus de deux ans de l’étude des dossiers des Syriens, au profil de réfugiés.
    Déterminé à limiter les présences et à décourager les arrivées – l’afflux a diminué lors du premier semestre –, le gouvernement a fait des retours volontaires l’un de ses outils : plus de 2 000 personnes sont reparties dans leur pays d’origine, suivant ce mécanisme, au cours du premier trimestre. L’objectif annoncé est de passer de 700 personnes par mois, la moyenne actuelle, à mille.« Ce programme peut séduire ceux dont la demande d’asile est refusée, pourvu qu’ils n’aient pas fui des persécutions ou une guerre. Les retours, qui ne peuvent se faire que vers des pays sûrs, doivent découler d’une décision personnelle », plaide Elizabeth Kassinis, directrice de Caritas Chypre, dont les locaux se trouvent dans la vieille ville de Nicosie, au pied de la zone tampon entre les parties sud et nord.
    « Mais c’est aussi une solution de facilité de dire : “Renvoyons les étrangers !”, quand il existe à la fois le sentiment d’être dépassé par le nombre, des courants politiques hostiles aux migrants [le candidat du parti d’extrême droite Elam a obtenu 6 % des voix à la présidentielle de février] et que le personnel chargé des demandes d’asile n’est pas formé », poursuit la responsable. Les équipes de Caritas reçoivent au quotidien migrants et demandeurs d’asile, dont près de 90 % de francophones en quête d’aide. Ou d’informations sur les retours volontaires.
    Madame Kassinis considère que « Chypre n’était pas préparée lorsque la crise des demandeurs d’asile a commencé. Le système – à commencer par le logement – n’est toujours pas prêt à absorber des chiffres élevés. En outre, le débat sur les migrants souffre d’imprécision et de paresse intellectuelle ». Elle connaît la détresse de jeunes fraîchement débarqués « qui découvrent que l’île, dans l’UE, ne fait pas partie de l’espace Schengen, et que la procédure de Dublin les contraint à rester sur place ».
    Coutumière de la vieille ville, où les migrants travaillent, transitent par la gare centrale des bus ou trouvent parfois des logements à bas prix, Paulette réfléchit aux opportunités si elle repart avec une indemnité : « Je pourrais ouvrir un atelier de nettoyage de voiture en ville, ou un commerce dans le village où mes parents sont retournés, en zone francophone. Si la situation empire ici, mieux vaut être à leurs côtés, ou tenter depuis le Cameroun un départ vers une nouvelle destination. » Sa famille avait déboursé pour son périple en 2020 environ 3 000 euros, « ce qui comprenait le billet d’avion de Douala à Ercan [Chypre du Nord] avec une escale à Istanbul, l’inscription à une université nord-chypriote [qui permet l’obtention d’un visa étudiant] et le passage vers le sud de l’île ». Un business d’universités privées s’est développé dans le nord, en partie utilisé par les candidats à l’exil.
    A Limassol, ville sur la côte septentrionale prisée par les nouveaux arrivants pour les emplois du secteur touristique, Ugwu (un pseudonyme), un Nigérian de 27 ans, surveille l’heure : il prend son service en fin d’après-midi comme plongeur dans un restaurant du bord de mer. Sous son air calme, il bouillonne : « Les étrangers occupent les métiers pénibles, et pourtant ils ne sont pas les bienvenus. Je me fais parfois insulter dans la rue. Face au racisme, des Africains plongent dans la dépression. » Sa demande d’asile a été rejetée à la mi-septembre. « J’hésite à faire appel car cela coûte très cher, ou à rentrer, via les retours volontaires. J’ai fui un conflit familial. » Parmi les autres mesures de dissuasion, les autorités de Nicosie ont lancé en juin une campagne à destination, principalement, des pays d’Afrique subsaharienne, « Parlons franchement de Chypre ». Elles ont exclu les étrangers arrivés à partir de 2023 d’une réinstallation vers un autre pays européen et disent accélérer l’étude des demandes d’asile, dont environ 30 000 dossiers sont en souffrance.
    Le soir, Mohamed, Somalien de 32 ans, scrute la mer de Paphos, station balnéaire du sud-ouest de l’île. Rejoindre Chypre, en 2022, a été « le moyen le plus sûr et le moins cher de se rapprocher de l’Europe ». L’ancien camionneur vit de boulots temporaires, dans la construction ou le nettoyage. Il a la nostalgie de sa terre, même s’il a voulu quitter les « problèmes tribaux ». Des amis, dont il n’a plus de nouvelles, sont repartis avec le programme de retour volontaire : « Ils galéraient ici, pour l’emploi ou le logement. » Craignant que ses jours soient comptés à Chypre, où il « se sent bien », il espère une réinstallation, en France ou en Allemagne. En attendant que l’administration chypriote tranche sur sa demande d’asile, il envoie chaque mois les économies accumulées au cours d’heures harassantes à sa femme et à ses quatre enfants, pour assurer leur quotidien.
    Laure Stephan(Nicosie, Chypre, envoyée spéciale)

    #Covid-19#migrant#migration#chypre#mediterranee#retourvolontaire#rapatriement#reinstallation#sante#santementale#racisme#accueil#asile#ue

  • 🛑 Qu’est-ce que le « contrôle au faciès » ? - Amnesty International France

    Un contrôle d’identité au faciès est un contrôle de police fondé sur des caractéristiques physiques associées à l’origine de la personne, qu’elle soit réelle ou supposée. De tels contrôles sont illégaux car ils sont discriminatoires (...)

    #police #contrôleaufaciès #discrimination #humiliation #racisme

    https://www.amnesty.fr/focus/quest-ce-que-le-controle-au-facies

  • 🛑 CONTRÔLE AU FACIÈS : FACE AU SILENCE DU GOUVERNEMENT, NOUS SAISISSONS LA JUSTICE... - Amnesty International France

    Le vendredi 29 septembre à 14h, se tiendra devant le Conseil d’État, une audience publique dans le cadre de l’action de groupe intentée par six associations nationales et internationales de défense des droits humains pour que cessent les contrôles d’identité discriminatoires ou contrôles dits au faciès en France (...)

    #police #contrôleaufaciès #discrimination #humiliation #racisme

    https://www.amnesty.fr/discriminations/actualites/controle-au-facies-face-au-silence-du-gouvernement-nous-saisissons-la-justic

  • 🛑 Fichage racial chez Adecco : « Pourquoi on n’a pas été traité comme les autres ? » - Rapports de Force

    L’affaire du fichage racial chez Adecco aurait pu se conclure ce jeudi 28 septembre. Or, dans ce dossier instruit depuis 22 ans, rien ne se règle rapidement. Six heures d’audiences n’auront pas suffi à exposer l’ensemble des arguments pour déterminer la culpabilité ou non de l’entreprise Adecco, accusée de discrimination à l’embauche et de fichage ethnique (...)

    #Adecco #fichage #racisme

    https://rapportsdeforce.fr/ici-et-maintenant/fichage-racial-chez-adecco-pourquoi-on-na-pas-ete-traite-comme-les-a

  • 🔴 Après 22 ans, le géant de l’intérim Adecco jugé pour fichage racial | StreetPress

    Adecco et deux ex-responsables vont être jugés le 28 septembre 2023 pour « fichage racial » et discrimination à l’embauche. Entre 1997 et 2001, une agence faisait un tri entre ses intérimaires noirs et non-noirs. Plongée dans un système raciste (...)

    #Adecco #fichage #racisme

    https://www.streetpress.com/sujet/1695805410-geant-interim-adecco-juge-fichage-racial-discrimination-emba

  • Le #racisme au sein de la #police en France nécessite une #surveillance internationale - Le Temps
    https://www.letemps.ch/opinions/debats/le-racisme-au-sein-de-la-police-en-france-necessite-une-surveillance-interna
    https://letemps-17455.kxcdn.com/photos/f84909ae-dd0e-4129-885e-05399bc625e3/medium

    Au cours de l’année à venir, plusieurs mécanismes et organismes internationaux de défense des droits humains pourront s’attaquer de front à ce problème. Le Mécanisme international d’experts pour faire progresser la justice raciale et l’égalité dans l’application des lois (Emler), créé en 2021 par le Conseil des droits de l’homme des Nations unies à la suite du meurtre de George Floyd par la police aux Etats-Unis, présentera un rapport lors de la session actuelle du Conseil des droits de l’homme, suivi d’un dialogue offrant l’occasion d’examiner de près l’échec de la France à mettre fin aux pratiques policières discriminatoires.
    Lire finalement : De Sion au Lignon, les jeunes d’ici racontent leur défiance envers la police
    A Genève, l’Examen périodique universel

    La France sera également tenue de répondre publiquement aux recommandations qu’elle a reçues dans le cadre de ce qu’on appelle « l’Examen périodique universel », qui est un mécanisme d’examen par les pairs entre les Etats membres de l’ONU pour contrôler le respect de leurs obligations en vertu du droit international des droits humains. Lors de son examen en mai, la France a reçu plusieurs recommandations de la part d’autres pays pour lutter contre le racisme systémique au sein de ses forces de police et, lors des prochaines sessions, les Etats devraient s’appuyer sur ces recommandations et rappeler à la France que le respect des obligations en matière de droits humains n’est pas facultatif.

  • La Polonia che imprigiona i migranti nei campi, ostaggio dei “geni della manipolazione”

    Il 15 ottobre, con le elezioni generali, i cittadini polacchi saranno chiamati a esprimersi su un referendum xenofobo indetto dal partito di estrema destra al potere. Rut Kurkiewicz, co-autrice del documentario “We are prisoners of the Polish State” e tra le poche voci indipendenti del Paese, racconta la situazione dei transitanti e rifugiati

    “Sei d’accordo con l’ammissione di migliaia di immigrati illegali dal Medio Oriente e dall’Africa, a seguito del meccanismo di ricollocamento forzato imposto dalla burocrazia europea?”. “Sei d’accordo con la rimozione delle barriere al confine tra Polonia e Bielorussia?”. Sono due dei quattro quesiti che figurano nel referendum indetto dal partito polacco di estrema destra Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, Pis), attualmente al potere. Si vota il 15 ottobre, stesso giorno delle elezioni governative.

    Rut Kurkiewicz, una delle poche voci indipendenti nel panorama dell’informazione polacca sulla situazione delle persone rifugiate e transitanti, chiama “geni della manipolazione” gli artefici di quelle domande, che trovano la loro ratio nello spostare l’attenzione su un nemico esterno piuttosto che sui temi che davvero dovrebbero trovare posto in una campagna elettorale.

    Dall’inizio della cosiddetta crisi dei rifugiati al confine tra Polonia e Bielorussia nell’estate del 2021, Kurkiewicz, con il suo lavoro giornalistico, racconta che cosa accade alle persone in movimento una volta entrate nel Paese. Nel 2022, insieme a Wojciech Szumowski, ha pubblicato “We are prisoners of the Polish State”, documentario riguardante la situazione dei centri di detenzione in Polonia. È stato trasmesso sulla prima televisione nazionale, raggiungendo almeno mezzo milione di persone.

    Kurkiewicz, quale è la situazione attuale delle persone in movimento tra Bielorussia e Polonia, a due anni dalla cosiddetta crisi del confine?
    RK Non è cambiato nulla. Ogni anno decine di migliaia di persone tentano di attraversare questo confine, in particolare nella stagione estiva. Non si sa quante riescano effettivamente a passare e quante siano respinte; la polizia di frontiera ogni giorno pubblica sui propri canali social il numero di persone intercettate, ma non si sa quanto questi dati siano affidabili. La cosa di cui siamo certi è che dal 2021 sono 50 le salme ritrovate al confine. Sono decine anche gli scomparsi. I gruppi di attivisti che operano su questo confine vengono contattati tutti i giorni dai familiari di persone di cui non si hanno più tracce. L’argomento sembra dimenticato, sia in Polonia sia fuori: ci sono tre gruppi di attivisti che intervengono come possono in forma volontaria ma nessuna grande organizzazione, nessun organismo europeo o internazionale.

    Che ruolo gioca la polizia di frontiera in tutto questo?
    RK Ogni giorno opera respingimenti, indipendentemente da chi si trova di fronte. Di recente gli attivisti hanno trovato un ragazzo somalo in condizioni critiche, respirava con difficoltà, sembrava essere disidratato. I volontari hanno chiamato l’ambulanza. Al suo posto è arrivata la polizia di frontiera, hanno messo il ragazzo su un autocarro militare, gli hanno detto di sorridere e nel frattempo lo hanno ripreso: il video è sui social della polizia di frontiera, si vede evidentemente che il ragazzo sta male. Probabilmente poi è stato respinto, perché non si trova nei registri dei centri di detenzione. La famiglia ha perso i contatti con lui.

    Dal febbraio 2022 milioni di ucraini in fuga dalla guerra hanno attraversato il vicino confine tra Ucraina e Polonia. In questo caso la grande maggioranza è stata accolta, non riscontrando alcun ostacolo alla frontiera. Come mai questa differenza?
    RK Su entrambi i confini ci sono persone che scappano da guerre. Su uno, iracheni, afghani, siriani, sull’altro, ucraini. Ma gli standard sono stati opposti: da una parte respingimenti e violenze, dall’altra apertura e accoglienza. Esiste un razzismo istituzionalizzato alle frontiere e in questo caso è stato lampante. Chi era nero, anche sul confine ucraino-polacco, veniva fermato, i bianchi no. Questa differenza si è vista anche nella reazione dei cittadini polacchi: c’è stata un’enorme mobilitazione per ospitare le persone ucraine, tantissima gente comune ha aperto le porte di casa, è stato bello. Allo stesso tempo per le persone non ucraine nulla di questo. Nel mio giro di amici alcuni hanno ospitato persone ucraine per settimane. Una volta ho provato a chiedere loro di ospitare una persona irachena per due notti: non ho trovato nessuno. C’è paura, un razzismo profondo nelle nostre menti. Gli Stati Uniti hanno fatto un grande lavoro dopo l’11 settembre: hanno vinto, adesso tutta l’Europa è razzista.

    Nel tuo ultimo documentario “We are prisoners of the Polish State” racconti della situazione carceraria a cui vengono costrette le persone una volta in Polonia. Quale è la situazione attuale?
    RK Adesso sono cinque i campi di detenzione in Polonia, all’interno dei quali si trovano circa 500 persone, a fine 2021 ce n’erano molte di più. Dopo i report di alcuni giornali e associazioni il campo più grande a Wędrzyn ha chiuso i battenti, era come l’inferno.

    Come mai le persone che vogliono fare domanda di asilo, una volta in Polonia, vengono rinchiuse nei centri detentivi?
    RK Quando le persone in movimento sorpassano “illegalmente” il confine, se vengono intercettate dalla polizia di frontiera polacca e non vengono respinte in Bielorussia, con buona probabilità vengono portate in un centro di detenzione. È paradossale: da una parte la Polonia non vuole persone migranti, dall’altra una volta che entrano non vuole che queste lascino il Paese, rinchiudendole in un centro. La situazione legale è poco chiara: alcune persone rimangono lì due anni, altre tre mesi, anche se provengono dallo stesso Paese, anche se hanno una storia simile. Non si capisce quale sia la logica.

    Il 5 settembre, nel campo di detenzione di Prezmy, le persone detenute hanno cominciato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di prigionia. Pensi che questo cambierà qualcosa?
    RK Speriamo. È un evento unico, ci sono stati altri scioperi della fame, ma questa è la prima volta che quasi tutte le persone all’interno del campo partecipano. Sono 100 detenuti in sciopero della fame. Protestano contro il trattamento disumano delle guardie del centro. Queste utilizzano taser per far rispettare l’ordine, identificano i detenuti con dei numeri e non con nomi e cognomi. Nel campo non si possono utilizzare social network, impedendo così ai detenuti di avere contatti con famiglie e amici. Il cibo e gli oggetti per l’igiene sono centellinati. Qualche settimana fa nel centro è morto un ragazzo siriano di 27 anni. La polizia ha inizialmente nascosto quanto accaduto, ma adesso il caso è già in corte. Era ammalato, ha più volte chiesto l’intervento di un dottore. Lo hanno picchiato per porre fine alle sue richieste. Alla fine, è morto nel campo di detenzione, senza l’intervento di nessuno. La polizia nei campi si sente al di sopra delle leggi nazionali e internazionali. A Prezmy stanno protestando per tutto questo.

    Il tuo documentario sui centri di detenzione è stato trasmesso in prima serata sulla prima televisione polacca. Sono state organizzate proiezioni in altri Paesi dell’Unione europea, quale è l’impatto che questo tuo importante lavoro sta avendo sull’opinione pubblica?
    RK Difficile da dire. Il vantaggio di un documentario che va in televisione, rispetto agli articoli o ai report sui giornali, è che raggiunge un pubblico più vasto: l’hanno visto in 500mila. Capitava che alcune persone mi fermavano per le strade, nei negozi, dicendomi: “Non sapevamo che stesse accadendo questo, è terribile”. Concretamente però non è cambiato nulla, le guardie di polizia dei centri detentivi continuano ad agire nello stesso modo. Voglio però credere che il nostro lavoro abbia cambiato le menti di qualcuno. I polacchi non potranno dire: “Non lo sapevamo”. Adesso sanno dell’esistenza di questa enorme oppressione.

    https://altreconomia.it/la-polonia-che-imprigiona-i-migranti-nei-campi-ostaggio-dei-geni-della-

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    sur le film, voir aussi:
    https://seenthis.net/messages/1018549