• #Ku_Klux_Klan - Une #histoire américaine. Naissance d’un empire invisible (1/2)

    L’histoire méconnue du plus ancien groupe terroriste et raciste des États-Unis.

    Le Ku Klux Klan, société secrète née en 1865, a traversé les décennies et a toujours su renaître de ses cendres. Son histoire a défrayé la chronique. 150 ans de haine, de racisme et d’horreur. 150 ans d’exclusion, de violence et de fureur.

    Pour retracer en détail les quatre vies successives du Ku Klux Klan, David Korn-Brzoza a rassemblé un impressionnant fonds d’archives, alimenté en partie par celles du mouvement lui-même, et rencontré une dizaine d’interlocuteurs : un membre repenti de l’organisation, des vétérans de la lutte pour les droits civiques, le juge pugnace qui, quatorze ans après l’attentat de Birmingham, a poursuivi et condamné ses auteurs, ainsi que différents chercheurs et analystes. En montrant ainsi combien le mouvement et ses crimes incarnent une histoire et des valeurs collectives, il jette une lumière crue sur cette part d’ombre que l’Amérique blanche peine encore à reconnaître.

    https://boutique.arte.tv/detail/ku-klux-klan-une-histoire-americaine

    #film #documentaire #film_documentaire
    #USA #Etats-Unis #KKK #plantation #esclavage #afro-américains #citoyenneté #Pulaski #société_secrète #violence #White_League #meurtres #lynchages #coups_de_fouet #terrorisme #intimidation #soumission #Nathan_Bedford_Forrest #politicide #assassinats #droits_civiques #Ku-Klux_Bill #loi_martiale #ségrégation #domination_raciale #milices_armées #ordre_social #The_birth_of_a_nation (#Griffith) #William_Joseph_Simmons #Woodrow_Wilson #business #Hiram_Wesley_Evans #Harry_Truman #Truman #Immigration_bill (1924) #The_Fiery_Cross #The_Search_Light #mouvement_social #David_Stephenson #Madge_Oberholtzer #Edward_Young_Clark #Bund #racisme #Stone_Mountain #Samuel_Green #suprématie_blanche #cérémonie_de_naturalisation #superman #Stetson_Kennedy #organisation_subversive #Afro-descendants

  • Le « British Medical Journal » appelle la réponse à la #pandémie un « #meurtre social » - World Socialist Web Site
    https://www.wsws.org/fr/articles/2021/02/09/pers-f09.html
    https://www.wsws.org/asset/61dc417e-4ae9-4f12-9675-bd131ec4fd44?rendition=image1280

    Lorsque des politiciens et des experts disent qu’ils sont prêts à permettre des dizaines de milliers de décès prématurés au nom de l’#immunité de la population ou dans l’espoir de soutenir l’économie, n’est-ce pas là une indifférence préméditée et irresponsable à l’égard de la vie humaine ? Si l’ échec de la politique conduit à des confinements récurrents et mal-à-propos, qui est responsable des surmortalités non-covid qui en résultent ? Lorsque les responsables politiques négligent délibérément les avis scientifiques, l’expérience internationale et historique, ainsi que leurs propres statistiques et modèles alarmants parce qu’agir va à l’encontre de leur stratégie politique, est-ce légal ? L’inaction est-elle une action ?

  • Il racconto dell’omicidio di #Agitu_Ideo_Gudeta evidenzia il razzismo democratico dei media italiani

    L’imprenditrice #Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa il 29 dicembre nella sua casa a #Frassilongo, in provincia di Trento. Da subito si è ipotizzato si trattasse dell’ennesimo femminicidio (72 donne dall’inizio del 2020), anche in ragione del fatto che in passato la donna era stata costretta a querelare un uomo per #stalking. In quell’occasione Gudeta aveva chiesto di considerare l’aggravante razziale, dato che l’uomo, un vicino di casa, la chiamava ripetutamente “negra”, ma il giudice aveva respinto la richiesta del suo avvocato. Il giorno successivo all’omicidio, il suo dipendente #Adams_Suleimani, – un uomo ghanese di 32 anni – ha confessato il crimine, aggravato dal fatto che l’ha violentata mentre era agonizzante. Il movente sarebbe un mancato pagamento.

    Gudeta era nata ad Addis Abeba, in Etiopia, 42 anni fa. Non era più una “ragazza”, come hanno scritto alcune testate. La sua prima permanenza in Italia risale a quando aveva 18 anni, per studiare nella facoltà di Sociologia di Trento. Era poi tornata in Etiopia, ma nel 2010 l’instabilità del Paese l’ha costretta a tornare in Italia. Nello Stato africano si è interrotto solo pochi giorni fa il conflitto tra il Fronte di Liberazione del Tigré e il governo centrale etiope – i tigrini sono una minoranza nel Paese, ma hanno governato per oltre trent’anni senza far cessare gli scontri tra etnie – cha ha causato violazioni dei diritti umani, massacri di centinaia di civili e una grave crisi umanitaria.

    Proprio le minacce dei miliziani del Fronte di Liberazione avevano spinto Agitu Ideo Gudeta a tornare in Italia. La donna aveva infatti denunciato le politiche di #land_grabbing, ossia l’accaparramento delle terre da parte di aziende o governi di altri Paesi senza il consenso delle comunità che le abitano o che le utilizzano per mantenersi. Per questo motivo il governo italiano le ha riconosciuto lo status di rifugiata. In Trentino, dove si era trasferita in pianta stabile, ha portato avanti il suo impegno per il rispetto della natura, avviando un allevamento di ovini di razza pezzata mochena, una specie autoctona a rischio estinzione, e recuperando alcuni ettari di terreni in stato di abbandono.

    Il caseificio che aveva aperto rivelava già dal nome – La capra felice – il suo credo ambientalista e il suo antispecismo, ricevendo riconoscimenti da Slow Food e da Legambiente per l’impegno promosso con la sua azienda e il suo negozio. Agitu Ideo Gudeta era un nome noto nel movimento antirazzista italiano, ma oggi viene usata – persino dai Verdi – per presentare il Trentino come terra di accoglienza, in un tentativo di nascondere la xenofobia di cui era oggetto. Le origini della donna e del suo assassino stupratore sono sottolineate da tutti e precedono la narrazione della violenza, mettendola in secondo piano, salvo evidenziarla in relazione alla provenienza dell’omicida, che per una volta non è un italiano, né un compagno o un parente.

    Alla “ragazza” è stata affibbiata in tutta fretta una narrazione comune a quella che caratterizza altre donne mediaticamente esposte, come le attiviste Greta Thunberg e Carola Rackete, la cooperante Aisha Romano o la giornalista Giovanna Botteri, basata su giudizi e attacchi basati perlopiù su fattori estetici. Razzismo, sessismo e classismo si mescolano in questa storia in cui la violenza – quella del vicino di casa, quella del suo assassino, quella del governo etiope – rischiano di rimanere sullo sfondo, in favore del Grande gioco dell’integrazione. A guidarlo è come sempre un trionfalismo tipico dei white saviour (secondo una definizione dello storico Teju Cole del 2012), come se esistesse un colonialismo rispettabile: insomma, in nome della tolleranza, noi italiani doc abbiamo concesso alla donna un riparo da un Paese povero, di una povertà che riteniamo irrimediabile. Usiamo ormai d’abitudine degli automatismi e un lessico che Giuseppe Faso ha definito razzismo democratico, in cui si oppongono acriticamente migranti meritevoli a migranti immeritevoli, un dualismo che sa vedere solo “risorse” o “minacce all’identità nazionale”.

    Così il protagonismo di Agitu Ideo Gudeta viene improvvisamente premiato, trasformando lei in una migrante-eroina e il suo aguzzino nel solito stupratore non bianco, funzionale solo al “Prima gli italiani”. Ma parlare di Agitu Ideo Gudeta in termini di “integrazione” è un insulto alla sua memoria. Considerarla un simbolo in questo senso conferma che per molti una rifugiata sarà rifugiata per sempre e che una “migrante” non è altro che una migrante. La nostra stampa l’ha fatto, suggerendo di dividere gli immigrati in buoni e cattivi, decorosi e indecorosi, e trattando i lettori come se fossero tutti incapaci di accogliere riflessioni più approfondite.

    Parallelamente però, un governo che come i precedenti accantona la proposta di legge sulla cittadinanza favorisce un racconto privo di sfumature, che rifiuta in nome di una supposta complessità non affrontabile nello sviscerare questo tema. Forse se avessimo una legge sulla cittadinanza al passo con i tempi, e non una serie di norme che escludono gli italiani di seconda generazione e i migranti, potremmo far finalmente progredire il ragionamento sulla cosiddetta convivenza e sulla coesione sociale ed esprimerci con termini più adeguati. Soprattutto chi è stato in piazza a gridare “Black Lives Matter”, “I can’t breathe” e “Say Their Names” oggi dovrebbe pretendere che la notizia di questo femminicidio venga data diversamente: in Trentino una donna di nome Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa e violentata. Era diventata un’imprenditrice di successo nel settore caseario dopo essersi opposta alle politiche di land grabbing in Etiopia. Era un’attivista e un’ambientalista molto conosciuta. Mancherà alla sua comunità.

    https://thevision.com/attualita/agitu-gudeta-razzismo

    #féminicide #racisme #Italie #meurtre #femmes #intersectionnalité #viol #réfugiés #accaparement_des_terres #Trentin #éleveuse #élevage #Pezzata_Mòchena #chèvrerie #chèvres #La_capra_felice #xénophobie
    #white_saviour #racisme_démocratique
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    Le site web de la #fromagerie de Agitu Ideo Gudet :


    http://www.lacaprafelice.com

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    NB :
    Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Murdered Agitu Ideo Gudeta, an example of environmental preservation and female entrepreneurship in Italy.

      Agitu was found dead in her home in #Val_dei_Mocheni, Trentino, Italy. The entrepreneur and shepherdess from Ethiopia would turn 43 on January 1st.
      An employee of her company confessed the murder followed by rape.

      One of the main news in the Italian media, the murder of Agitu brought much indignation. Especially among women. In Italy, a woman is murdered every three days, according to a report from Eures.

      “When will this massacre of women end? When? Today, feminicide has extinguished the smile of a dear and sweet sister. Rest in peace Agitu. We will miss you a lot”, twitted the Italian writer with SomaIi origin Igiaba Sciego.

      Agitu, originally from Addis Ababa, was born into a tribe of nomadic shepherds. She went to Rome to study Sociology when she was 18 years old and returned to Ethiopia. However, she left her country again in 2010, fleeing threats for her commitment by denouncing “land grabbing” by multinationals.

      In Italy, in Valle dei Mocheni, Trentino, she began to preserve a goat species in extinction, the #Mochena goat.

      An example of female entrepreneurship, she set up the company “La capra felice” (The happy goat) producing cheeses and cosmetic products with goat’s milk.

      She has become an example of organic and sustainable production.

      Agitu’s work has been recognized throughout Italy, her story published in many medias, she attended different events and has been rewarded for her commitment to preserving goats and her production of organic products. One of the awards was the Slow Cheese Resistenza Casearia award, in 2015.

      It was not the first time that Agitu had her life under threat in the hands of men. She publicly denounced her neighbour for stalking, racially motivated threats and aggression. For months she was threatened by a man and one of the reasons was that she offered work and apprenticeship for refugees from African origins. “This neighbour does not like the colour of our skin and does what it can to create confusion,” she said at an interview.

      On December 29, her life was taken by a man who worked for her, shepherding her goats. According to him, for financial reasons. The man confessed to the crime and also revolted that he had committed rape after the attack. The man beat her in her head with a hammer. He was arrested.

      Agitu was found lifeless after friends called the police because they thought it was strange that she didn’t come to a meeting and didn’t answer the phone.

      The murder is a tragic end for a woman who brought so many good things into the world.

      Until when will we lose our sisters to violence?

      Rest in peace Agitu. We will never forget your legacy.

      https://migrantwomenpress.com/agitu-ideo-gudeta-murdered/amp/?__twitter_impression=true

      #montagne

    • Grâce à une amie qui connaissait Agitu je viens de connaître une autre facette de cette histoire. Un drame dans le drame, dont je ne peux/veux pas parler ici.

    • Le féminicide d’Agitu Ideo Gudeta choque l’Italie

      Ce 29 décembre, Agitu Ideo Gudeta, une réfugiée éthiopienne de 42 ans, a été retrouvée morte à son domicile, dans le nord de l’Italie, annonce La Repubblica. Elle était connue dans tout le pays grâce à son activité, couronnée de succès, d’éleveuse de chèvres et avait été à de nombreuses reprises médiatisée.

      Une célèbre bergère

      Selon le quotidien local Il Dolomiti, Agitu Gudeta était devenue « la bergère la plus célèbre des vallées du Trentin ». Et son histoire n’était pas banale. En 2010, elle avait dû fuir l’Éthiopie à cause de son activité de militante environnementaliste. Elle subissait des menaces de poursuites judiciaires et des menaces de mort car elle s’opposait à l’accaparement des terres par certaines multinationales.

      A 30 ans, toute seule dans un nouveau pays et dans la région réputée inhospitalière du Trentin, elle avait commencé une autre vie, avec ses 180 chèvres et sa propre entreprise prospère de fromages bio baptisée « La Capra Felice », la chèvre heureuse. Elle avait choisi de protéger une espèce rare, la chèvre Mochena, qui survit dans cette vallée isolée.
      Insultes et menaces racistes

      Avec sa réussite, c’est à d’autres menaces qu’elle avait dû faire face : des menaces et insultes racistes de la part de ses voisins. Elle avait été agressée physiquement également. Elle avait porté plainte contre l’un d’eux qui avait été condamné en janvier à 9 mois sous liberté conditionnelle.

      https://www.youtube.com/watch?v=CF0nQXrEJ30&feature=emb_logo

      https://www.rtbf.be/info/dossier/les-grenades/detail_le-feminicide-d-agitu-ideo-gudeta-choque-l-italie?id=10664383

    • Trentino, uccisa in casa Agitu Gudeta, la rifugiata etiope simbolo dell’integrazione

      Scappata dal suo Paese, aveva fondato l’azienda agricola «La capra felice» nella Valle dei Mocheni dove allevava animali a rischio di estinzione.

      L’hanno trovata senza vita all’interno della sua casa di Frassilongo (Trentino), colpita con violenza alla testa. Un omicidio, hanno confermato i carabinieri che nel tardo pomeriggio sono giunti sul posto, chiamati dai vicini e stanno lavorando per ricostruire l’accaduto.

      È finito così - forse con un colpo di martello - il sogno di Agitu Ideo Gudeta, pastora etiope che avrebbe compiuto 43 anni il giorno di Capodanno e che si era data l’obiettivo di salvare dall’estinzione (e anche dagli attacchi dell’orso) la capra mochena, una specie che sopravvive in una valle isolata della Provincia di Trento dove la donna aveva trovato casa.

      Ma il suo problema - aveva denunciato un paio di anni fa - più che gli orsi erano i vicini: «Mi insultano, mi chiamano brutta negra, dicono che me ne devo andare e che questo non è il mio posto» aveva denunciato ai carabinieri, raccontando anche pubblicamente la sua storia. Le indagini perà si concentrerebbero su un giovane africano dipendente dell’azienda ’La Capra Felice’. A quanto pare, l’uomo - che non è quello che l’aveva minacciata ed aggredita - avrebbe avuto dissidi con Agitu per motivi economici. A dare l’allarme ai carabinieri sono stati alcuni vicini a loro volta chiamati da un uomo con il quale la vittima aveva un appuntamento al quale non si era presentata.

      Sul caso delle minacce arrivò la solidarietà del presidente della giunta provinciale, all’epoca Ugo Rossi: «Il fatto che Agitu, da rifugiata, abbia avviato la sua attività agricola sul nostro territorio dimostra che il Trentino crede nell’accoglienza e nella solidarietà». Una storia di minacce e danneggiamenti, finita in tribunale con la condanna a 9 mesi per lesioni di un uomo del posto che aveva sempre liquidato la faccenda come una lite fra vicini: «Il razzismo non c’entra». La donna quindi aveva ripreso a girare i mercati del Trentino per vendere i prodotti realizzati con il latte delle sue cinquanta capre, con il furgone che sulla fiancata riportava il nome dell’azienda agricola: «La capra felice».

      Agitu Gudeta era fuggita in Italia nel 2010 e aveva ottenuto lo status di rifugiata e dopo qualche anno era riuscita ad avviare la sua azienda agricola a Frassilongo scommettendo sulle capre mochene. Nel 2017 aveva partecipato all’incontro «Donne anche noi», raccontando la sua storia di migrante arrivata in Italia. Originaria della capitale Addis Abeba, era stata costretta a lasciate l’Etiopia perché a causa del suo impegno contro l’accapparramento delle terre da parte di alcune multinazionali era stata oggetto di minacce di morte.

      https://www.repubblica.it/cronaca/2020/12/29/news/trentino_trovata_morta_agitu_gudeta_donna_42enne_simbolo_di_integrazione_

    • Tributes paid to Ethiopian refugee farmer who championed integration in Italy

      Agitu Ideo Gudeta, who was killed on Wednesday, used abandoned land to start a goat farming project employing migrants and refugeesTributes have been paid to a 42-year-old Ethiopian refugee and farmer who became a symbol of integration in Italy, her adopted home.

      Agitu Ideo Gudeta was attacked and killed, allegedly by a former employee, on her farm in Trentino on Wednesday.

      Gudeta had left Addis Ababa in 2010 after angering the authorities by taking part in protests against “land grabbing”. Once in Italy, she tenaciously followed and realised her ambition to move to the mountains and start her own farm. Taking advantage of permits that give farmers access to abandoned public land in depopulated areas, she reclaimed 11 hectares (27 acres) around an old barn in the Mòcheni valley, where she founded her La Capra Felice (The Happy Goat) enterprise.

      Gudeta started with a herd of 15 goats, quickly rising to 180 in a few years, producing organic milk and cheese using environmentally friendly methods and hiring migrants and refugees.

      “I created my space and made myself known, there was no resistance to me,” she told Reuters news agency that year.

      “Agitu brought to Italy the dream she was unable to realise in Ethiopia, in part because of land grabbing,” Gabriella Ghermandi, singer, performer, novelist and friend of Gudeta, told the Guardian. “Her farm was successful because she applied what she had learned from her grandparents in the countryside.

      “In Italy, many people have described her enterprise as a model of integration. But Agitu’s dream was to create an environmentally sustainable farm that was more than just a business; for her it also symbolised struggle against class divisions and the conviction that living in harmony with nature was possible. And above all she carried out her work with love. She had given a name to each one of her goats.”

      In a climate where hostility toward migrants was increasing, led by far-right political leaders, her success story was reported by numerous media outlets as an example of how integration can benefit communities.

      “The most rewarding satisfaction is when people tell me how much they love my cheeses because they’re good and taste different,” she said in an interview with Internazionale in 2017. “It compensates for all the hard work and the prejudices I’ve had to overcome as a woman and an immigrant.”

      Two years ago she received death threats and was the target of racist attacks, which she reported to police, recounting them on her social media posts.

      But police said a man who has confessed to the rape and murder of the farmer was an ex-employee who, they said, allegedly acted for “economic reasons”.

      The UN refugee agency said it was “pained” by Gudeta’s death, and that her entrepreneurial spirit “demonstrated how refugees can contribute to the societies that host them”.

      “Despite her tragic end, the UNHCR hopes that Agitu Ideo Gudeta will be remembered and celebrated as a model of success and integration and inspire refugees that struggle to rebuild their lives,” the agency said.

      “We spoke on the phone last week’’, said Ghermandi. “We spent two hours speaking about Ethiopia. We had plans to get together in the spring. Agitu considered Italy her home. She used to say that she had suffered too much in Ethiopia. Now Agitu is gone, but her work mustn’t die. We will soon begin a fundraising campaign to follow her plan for expanding the business so that her dream will live on.”

      Gudeta would have turned 43 on New Year’s Day.

      https://www.theguardian.com/global-development/2021/jan/01/tributes-paid-to-ethiopian-refugee-farmer-who-championed-integration-in

    • Dalla ricerca di eroi alla costruzione di progetti comunitari. Perché è importante cambiare narrazione

      Del bisogno di eroi

      La storia del passato, così come la cronaca quotidiana, pullula di storie di eroi che troneggiano nell’immaginario collettivo. Quello di eroi ed eroine è un bisogno antico, che riflette la necessità di costruire cognitivamente il mondo reale per mezzo di narrative che ci permettano di affidare ruoli e connotati chiari a singoli individui e gruppi sociali, soddisfacendo il nostro bisogno di certezze che affonda le radici tanto nella mitologia classica quanto nel pensiero cristiano e che sostengono la costruzione della nostra moralità culturale e senso dell’etica.

      Si tratta però di un bisogno che è ancora largamente presente nelle società contemporanee, a dispetto dei progressi indotti dal processo di formazione del diritto moderno, che ha portato a distinguere in maniera netta tra ciò che è lecito e ciò che lecito non è. Questo processo non è infatti riuscito, se non in astratto attraverso artifici teorici, a superare la dimensione individualistica (Pisani, 2019). Di qui il perdurare del bisogno di eroi, che continua a essere percepito come rilevante perché offre un’efficace e facile via di fuga. Consente, talvolta inconsapevolmente, di banalizzare situazioni e fenomeni complessi, interpretarli in maniera funzionale alla nostra retorica e giustificare l’inazione.

      Se l’obiettivo è però innescare profondi cambiamenti sociali all’insegna di una maggiore giustizia sociale e lotta alle profonde disuguaglianze del nostro tempo, allora non è di singoli eroi che si dovrebbe andare alla ricerca, ma di una diversa narrazione che faccia assegnamento sull’impegno autentico delle comunità. Comunità locali che sono sempre più chiamate a svolgere un ruolo rilevante nella costruzione sia di sistemi di welfare di prossimità, sia di nuovi modelli di produzione a larga partecipazione, in risposta a una pluralità di bisogni e sfide incompiute che spaziano dall’inclusione di persone vulnerabili fino alla gestione di beni comuni come la salute, il territorio, l’energia.[1]

      Quest’articolo prende le mosse da una convinzione di fondo. Nonostante il ruolo importante che svolgono nel generare benessere sociale, le comunità locali stentano ad essere riconosciute come protagoniste di un processo di cambiamento.

      Responsabile della loro scarsa visibilità e incisività non è solo l’insufficiente riconoscimento politico, ma anche una narrazione incoerente di cui si fanno sovente portatrici anche le organizzazioni di terzo settore che gli interessi delle comunità promuovono. Una narrazione spesso incentrata sul culto di singole personalità che, mettendo in ombra l’ancoraggio comunitario, rischia di incrinare l’impatto generativo del terzo settore.

      Dopo una riflessione sul perché bisognerebbe diffidare delle narrazioni idealizzate e sugli effetti del pathos degli eroi, l’articolo si sofferma su un caso specifico, quello di Agitu Ideo Gudeta, assassinata sul finire del 2020 da un suo collaboratore. Quindi, prendendo le mosse da questa drammatica vicenda, gli autori si soffermano sulle ragioni che farebbero propendere per la sostituzione degli eroi con progetti collettivi, sollecitando le organizzazioni di terzo settore, in primis, a cambiare narrazione.
      Pathos degli eroi

      Gli esempi di persone, professionisti e politici che sono stati idealizzati in virtù di reali o presunti talenti o gesta sono molteplici e coinvolgono frange della società civile – sia conservatrici e reazionarie, sia progressiste – così come il mondo della politica. Eroi che, spesso in virtù di altrettante semplificazioni, da figure mitologiche sono stati di punto in bianco trasformati in demoni o in capri espiatori, lasciando volutamente in ombra la complessità dei contesti, le relazioni, le fragilità, le emozioni e i comportamenti, spesso controversi, che accompagnano ogni essere umano, sia nei momenti di gloria, sia in quelli più bui.

      Nell’ambiente conservatore spicca la parabola di Vincenzo Muccioli, santificato negli anni ’80 come salvatore di migliaia di giovani spezzati dall’eroina, e poi demonizzato dai mezzi di informazione, prescindendo da un’analisi approfondita della sua controversa iniziativa. Tra gli esempi di persone e professionisti che sono stati santificati e poi travolti da un’onda di retorica colpevolista vi sono gli infermieri e i medici, celebrati come supereroi allo scoppio della pandemia Covid-19, passati nel secondo lockdown ad essere additati come appestati e untori, quando non complici di una messa in scena.[2]
      Emblematico è anche il caso dei volontari, portati puntualmente alla ribalta della cronaca come angeli durante catastrofi e crisi naturali, per poi svanire nel nulla in tempi non emergenziali, a dispetto del loro prezioso contributo quotidiano per migliorare la qualità della vita delle persone più vulnerabili.[3]
      Con riferimento all’ambiente più militante e progressista si distingue Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, passato dall’essere innalzato a mito dell’accoglienza dalla stampa e dal sistema SPRAR, in virtù dell’esperienza pionieristica sperimentata dal suo Comune, a essere abbandonato e attaccato da una parte dei media. Il cambio di atteggiamento nei confronti di Lucano coincide con la controversa vicenda giudiziaria che lo vede coinvolto per favoreggiamento dell’immigrazione e per la gestione di progetti di accoglienza, dopo che il suo Comune è stato per anni pressato dal Viminale e dalla Prefettura affinché ospitasse un gran numero di richiedenti asilo, rifiutati da altri progetti di accoglienza (Procacci, 2021). Nel mondo della politica istituzionale primeggia l’attuale santificazione di Mario Draghi, acclamato come unico possibile salvatore di un Paese al collasso dopo essere stato considerato un simbolo dei poteri finanziari forti negli anni della crisi economica globale (Dominjanni, 2021).
      Perché diffidare degli eroi?

      Le ragioni che portano a diffidare degli eroi sono molteplici. I riflettori accesi esclusivamente sulla dimensione dell’eccellenza[4]
      distolgono l’attenzione da tutto ciò che condiziona le azioni dell’eroe, come i contesti istituzionali e ambientali, incluso il bagaglio di risorse, non solo economiche ma anche sociali e culturali, su cui il singolo fa assegnamento. A influenzare i percorsi che portano alle presunte gesta eccezionali di chi viene incoronato come eroe, ci sono comunità e organizzazioni, più o meno coese, composte da una pluralità di individui che si relazionano tra di loro per contribuire, in base al ruolo ricoperto, al raggiungimento di obiettivi condivisi. Anche le scelte dell’imprenditore più autoritario e accentratore, sono condizionate dalle persone e dall’ambiente con cui è interconnesso. Il potenziale innovativo non è quindi un dono che gli dei fanno a pochi eletti (Barbera, 2021), ma un processo complesso che per essere compreso appieno presuppone un’analisi articolata, che ricomprende una pluralità di elementi economici, sociali e relazionali. Elementi che le analisi fondate sugli eroi nella maggior parte dei casi ignorano, riconducendo sovente il successo dell’iniziativa idealizzata esclusivamente a un’intuizione del singolo.

      A fomentare una narrazione personalistica ha contribuito lo storytelling che ha fatto dell’innovazione il mantra dominante (Barbera, 2021). Responsabile è principalmente la retorica di stampo neoliberista, incentrata sul mito dell’imprenditore individuale, che ha assoggettato la maggior parte dei campi del sapere, arrivando a giustificare le disuguaglianze poiché conseguenti a un processo liberamente accettato dove ognuno ha pari opportunità di accesso al mercato e alla proprietà (Piketty, 2020). Di qui la riconversione del cittadino in homo oeconomicus, orientato non più allo scambio come nel liberismo classico, bensì alla valorizzazione di sé stesso in quanto capitale umano (Dominjianni, 2017). Una parte della letteratura sul management del terzo settore ha introiettato questa logica, proiettandola nella figura eroica dell’imprenditore sociale (Waldron et al., 2016; Miller et al., 2012; Dacin et al., 2011; Short et al., 2009; Zahra et al., 2009; Bornstein, 2007; Martin, Osberg, 2007; Austin et al., 2006).[5]
      Sottolineando il connubio tra tratti etici e competenze creative e leadership, che permetterebbero all’imprenditore sociale di assumersi i rischi necessari a raggiungere obiettivi sociali straordinari, questa letteratura ha trascurato i processi organizzativi e decisionali che sono alla base del funzionamento delle diverse organizzazioni (Petrella, Battesti, 2014).

      Il culto degli eroi ha così contribuito ad allontanare l’attenzione da alcune caratteristiche precipue di associazioni e cooperative, tra cui in primis l’adozione di modelli di governo inclusivi ad ampia partecipazione, che dovrebbero favorire il coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse nei processi decisionali, in rappresentanza dei diversi gruppi sociali che abitano un territorio (Sacchetti, 2018; Borzaga e Galera, 2016; Borzaga e Sacchetti, 2015; Defourny e Borzaga, 2001).[6]
      Ciò si verifica, ad esempio, quando una organizzazione di terzo settore costituita su basi democratiche, è identificata con il nome di un singolo eroe: un fondatore, un religioso che – anche quando non ricopra effettivamente cariche formali apicali – si riconosce come ispirazione e figura carismatica. Sono casi in cui talvolta il percorso di sviluppo dell’ente passa in secondo piano rispetto a quello di un singolo individuo il cui nome è di per sé evocativo dell’intera organizzazione.
      Gli effetti delle narrazioni eroicizzate

      L’immediata spendibilità comunicativa delle narrazioni fondate su figure eroiche spiega perché esse siano largamente preferite da una parte rilevante della politica, da molti osservatori e dalla quasi totalità degli operatori dell’informazione rispetto a studi analitici volti a comprendere i fenomeni sociali e a rendere conto ai cittadini e agli attori esterni delle scelte di policy compiute. Di qui l’incapacità di comprendere le problematiche che affliggono la società contemporanea e la proiezione artificiale in una figura erta a simbolo, non senza implicazioni negative.
      Allontanano dall’individuazione di possibili soluzioni

      Oltre a offuscare il contesto di appartenenza, la retorica dell’azione straordinaria allontana l’attenzione da quello che dovrebbe essere il corretto funzionamento di qualsiasi sistema, a livello macro, così come a livello micro. Nelle narrazioni incentrate sugli eroi non c’è spazio né per analisi valutative comparate, né tantomeno per riflessioni su come dovrebbe funzionare, ad esempio, un’organizzazione.

      Scoraggiando la correttezza analitica su temi di rilevanza pubblica e disincentivando qualsiasi tipo di studio volto a misurare l’efficacia di singole iniziative di welfare o il loro impatto sull’occupazione e il benessere della collettività, le narrazioni eroicizzate impediscono di indagare la realtà in maniera approfondita. Di conseguenza, non consentono di comprendere le implicazioni, non solo economiche ma anche in termini di efficacia, che sono connesse alle diverse soluzioni di policy.

      La tendenza ad analizzare la realtà in maniera superficiale, spesso in nome di un’imperante “politica del fare”, ci allontana quindi dall’individuazione di possibili soluzioni ai problemi che affliggono le società contemporanee. I riflettori accesi su una singola esperienza nel campo delle dipendenze hanno per molto tempo impedito un confronto serio sull’efficacia degli interventi di riabilitazione sperimentati dalle diverse realtà di accoglienza, non solo in termini di disintossicazione, ma anche di reinserimento nel tessuto sociale delle persone accolte. L’esaltazione della figura di Vincenzo Muccioli ha contribuito a trascurare negli anni ‘80 le oltre 300 iniziative di accoglienza di tossicodipendenti che in quegli stessi anni stavano sperimentando percorsi di riabilitazione alternativi basati sull’ascolto individuale, la responsabilità e la condivisione comunitaria. Realtà che, basandosi su uno scambio tra contributi volontari e competenze professionali (sociologici, psicologi, educatori, psichiatri, ecc.), prendevano le mosse a partire dall’esperienza di organizzazioni già radicate come il Gruppo Abele, San Benedetto al Porto e la Comunità di Capodarco, così come nuove esperienze, tra cui il Ceis, Exodus, Saman, Villa Maraini a Roma e la comunità Betania a Parma (De Facci, 2021). Tra le tante comunità di accoglienza e recupero nate tra gli anni ’70 e ’80, particolarmente interessante è quella trentina di Camparta, che è stata recentemente raccontata da alcuni dei suoi protagonisti. Promossa su iniziativa di uno psicoterapeuta d’impronta basagliana e animata da ideali libertari e comunitari, Camparta ha sperimentato un metodo di riabilitazione olistico, fondato su un percorso di ricerca interiore, confronto e rifondazione culturale a tutto campo (I ragazzi di Camparta, 2021).

      La narrazione fortemente polarizzata tra posizioni idealizzate pro e anti migranti continua a impedire un’analisi rigorosa e sistematica del fenomeno migratorio che possa fornire utili indicazioni di policy su come andrebbe gestita l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati entro una visione di sviluppo locale piuttosto che secondo una logica emergenziale. L’idealizzazione di Mimmo Lucano ha distolto l’attenzione dalle tante altre esperienze di accoglienza di cui l’Italia è ricca. Iniziative che, prendendo in alcuni casi ispirazione dall’iniziativa pionieristica di Riace, hanno saputo innescare processi di sviluppo a livello locale grazie ad una proficua collaborazione tra enti di terzo settore e enti locali (Galera, Borzaga, 2019; Lucano, 2020).

      Coprendo le nefandezze e le carenze di un sistema sanitario al collasso, la celebrazione di medici e infermieri come angeli durante il primo lockdown ha ritardato una riflessione quanto mai necessaria su come dovrebbe essere riformato il sistema sanitario per renderlo maggiormente in grado di gestire le attuali sfide socio-sanitarie, così come quelle all’orizzonte per effetto dell’allevamento industriale intensivo, del massiccio impiego di antibiotici in allevamento e dei cambiamenti climatici (Galera, 2020; Tamino, 2020).

      A livello organizzativo, le narrazioni incentrate sull’azione straordinaria degli eroi imprenditori incoraggiano sistematicamente sia l’adozione di strumenti di management, sia l’adesione a culture organizzative che, svilendo la componente della partecipazione, indeboliscono la capacità del terzo settore di incidere a livello locale; e influenza, in modo negativo, pure le politiche, laddove, ad esempio nelle scelte di finanziamento, venga privilegiata l’idea “innovativa”[7]
      rispetto alla capacità di costruire legami di comunità e di rafforzare soggetti collettivi e inclusivi.

      A livello di sistema, l’impatto generativo del terzo settore è nondimeno minato dall’incapacità – insita in ogni idealizzazione – di discernere tra elementi non trasferibili, perché legati a particolari condizioni congiunturali e di contesto favorevoli, ed elementi “esportabili”. Tra questi, ad esempio, modelli di servizio, strumenti di lavoro, strategie di collaborazione o forme dell’abitare che, essendo stati sperimentati con esiti positivi, potrebbero essere modellizzati e replicati su più ampia scala, qualora liberati dal giogo dell’eroe.
      Forniscono l’alibi per rifugiarsi nell’inazione

      Tra i gruppi idealizzati rientrano i volontari e gli operatori impegnati in prima linea nelle situazioni emergenziali generate da catastrofi naturali. Nel caso dei volontari, la tendenza predominante è mitizzarne il coinvolgimento durante le emergenze e ignorarne sistematicamente il contributo nella vita quotidiana a sostegno delle persone più vulnerabili o del territorio che abitiamo per contenerne la fragilità.

      Tra gli esempi di mobilitazioni di volontari idealizzate vi sono quelle avvenute in occasione di nubifragi e terremoti. Tra queste l’alluvione che nel 1966 cosparse Firenze di acqua e fango, causando gravissimi danni sia alle persone sia al patrimonio artistico (Silei, 2013). Ulteriori esempi di mobilitazioni comunitarie sono rappresentati dal terremoto del 2012 in Emilia e dall’alluvione di Genova nel 2014. Catastrofi naturali che hanno attivato una catena di solidarietà in grado di compensare, almeno in parte, l’assenza di un’organizzazione centralizzata capace di gestire opportunamente le emergenze.

      L’uso di espressioni improprie come “angeli” e “eroi” mette tuttavia in ombra la normalità dell’azione di milioni di cittadini che nelle associazioni o individualmente nei loro posti di lavoro, in strada o su internet, chiedono l’attenzione delle istituzioni, anche prima delle emergenze, denunciano gli abusi e si battono per i propri diritti (Campagna #nonsonoangeli, 2014).[8]
      La mitizzazione dei volontari nei momenti di crisi non solo svilisce il loro prezioso contributo nella quotidianità. Appigliandosi al pretesto che l’impegno sia appannaggio di pochi eletti, l’idealizzazione offre ai così detti “cittadini ordinari” l’alibi per rifugiarsi nell’inazione.
      Scoraggiano la costruzione di un sistema valoriale alternativo

      Il pathos suscitato dagli eroi offre nondimeno la scorciatoia per non impegnarsi nella costruzione di un sistema valoriale coerente con i principi e i valori dichiarati. Il sistema di riferimenti valoriali riprodotto dall’eroe permette, infatti, di aggregare consenso in maniera immediata, senza alcuna fatica. Diversamente, un percorso di produzione valoriale sociale in grado di innescare cambiamenti consapevoli richiederebbe sia un impegno rilevante in termini di ascolto, confronti e negoziazioni volti a tracciare un itinerario di azione condiviso, sia tempi considerevoli.

      Di qui l’effimera illusione che l’eroe, consentendo di conseguire approvazione e sostegno nel breve termine, possa aiutarci a sostenere il nostro sistema valoriale in maniera più efficace. Le storie di eroi ci mostrano, invece, come i sistemi basati sull’idealizzazione siano nel medio e lungo periodo destinati a produrre l’effetto contrario. Creando una frattura netta tra gli eroi e i non eroi, influenzano in senso antisociale i comportamenti collettivi e individuali (Bonetti, 2020). E così facendo, ci allontanano da quello che dovrebbe essere il modello di società più rispondente al sistema valoriale che vorremmo promuovere.
      Incoraggiano la polarizzazione tra “buoni” e “cattivi”

      Di conseguenza, oltre a non contribuire a risolvere spinosi problemi sociali, le narrazioni idealizzate favoriscono una polarizzazione tra “buoni” e “cattivi” in cui le posizioni contrapposte si alimentano a vicenda, compromettendo il dialogo e la gestione dei conflitti.

      La tendenza a polarizzare è una prassi diffusa nel settore dell’informazione, incline a esaltare o distruggere personaggi simbolo (Sgaggio, 2011), così come tra opinionisti, osservatori, ricercatori, esperti e tra le organizzazioni della società civile.

      Quella della polarizzazione e categorizzazione è tuttavia una tendenza a cui siamo tutti soggetti, spesso inconsapevolmente. Siamo attratti maggiormente da notizie e informazioni che siano in grado di confermare le nostre interpretazioni del mondo, mentre siamo respinti magneticamente da tutto ciò che mette in discussione le nostre certezze o alimenta dubbi. Elaborare messaggi che si allineano con le nostre ideologie richiede, non a caso, uno sforzo cognitivo considerevolmente minore rispetto alla messa in discussione delle nostre sicurezze (Michetti, 2021).

      L’inclinazione a semplificare e categorizzare è in una certa misura una reazione incontrollata, indotta dall’esigenza di difenderci dal bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti sistematicamente. Una reazione che rischia di essere esasperata dallo stato emotivo di vulnerabilità a livello individuale e collettivo in cui ci troviamo a causa della pandemia. L’essere più fragili ci rende, infatti, più facilmente preda di abbagli e simboli in cui proiettare paure, ambizioni e desideri di cambiamento in positivo.
      Esasperano le fragilità delle persone idealizzate

      In mancanza della consapevolezza di essere oggetto di idealizzazione, la mitizzazione può avere conseguenze deleterie anche sulla persona idealizzata. Come alcune storie di eroi ci mostrano, l’idealizzazione può portare a una progressiva esasperazione di fragilità latenti e, nei casi estremi, a una dissociazione cognitiva. Di qui lo sviluppo – nelle persone borderline – di disturbi narcisistici e megalomani, che possono accelerare la caduta del mito, sempre al varco quando vi è un processo di santificazione in atto.[9]

      A prescindere dall’evoluzione dell’idealizzazione, delle competenze, talenti o accuse di cui può essersi macchiato il presunto eroe, si tratta di un percorso a termine, nella maggior parte dei casi destinato a lasciare spazio alla solitudine non appena la stagione della gloria si esaurisce, talvolta accompagnata dalla dissacrazione della figura dell’eroe.
      Il caso della pastora Agitu Ideo Gudeta e della “Capra Felice”

      La recente idealizzazione della pastora etiope Agitu Ideo Gudeta, titolare dell’azienda agricola “La Capra Felice”, esaltata a seguito della sua uccisione, confermano il bisogno compulsivo di eroi che affligge una rilevante fetta di società, in questo caso quella più militante e attenta alla giustizia sociale, ai valori della solidarietà e dell’antirazzismo. La sua storia è molto conosciuta.

      Agitu Ideo Gudeta nasce nel 1978 in Etiopia. Emigra in Italia per motivi di studio ma, appena laureata, torna nella sua terra d’origine per combattere contro il land-grabbing. Dopo aver ricevuto pesanti minacce per il suo impegno contro le multinazionali, rientra come rifugiata in Italia e avvia in Trentino un allevamento di ovini di razza pezzata mòchena, una specie autoctona a rischio di estinzione, e un caseificio, La Capra Felice, i cui prodotti biologici e gli intenti ambientalisti la portano ad ottenere riconoscimenti anche da Slow Food e da Legambiente. Per la sua attività Agitu Ideo Gudeta recupera un pascolo di oltre 10 ettari in stato di abbandono e occupa nel corso degli anni numerosi giovani richiedenti asilo e rifugiati.

      Quello di Agitu Ideo Gudeta è un racconto ineccepibile di cui tanti attivisti si sono innamorati, estrapolando pezzi della sua storia che calzavano a pennello con la loro retorica. Il suo percorso ha trovato terreno fertile nelle narrazioni sull’inclusione, nelle analisi di buone pratiche di imprenditoria migrante e femminista, nelle storie di rivitalizzazione di aree interne, negli esempi di recupero di specie animali autoctone a rischio di estinzione, e nella lotta contro il land-grabbing.

      La maggior parte delle analisi, in particolare quelle realizzate dopo la sua uccisione, si è tuttavia limitata ad una descrizione superficiale che ha sottovalutato le caratteristiche di un contesto contraddistinto da una molteplicità di sfide e criticità legate in primo luogo al settore di attività, la pastorizia, notoriamente a rischio di sfruttamento per le caratteristiche intrinseche a tutte le attività agricole. Si tratta di attività esposte a una molteplicità di fattori di incertezza; a quelli produttivi e di mercato si aggiungono rischi climatici, ambientali e istituzionali legati al cambio di normative e regolamenti, che condizionano fortemente le entrate economiche, specie delle aziende agricole di piccole dimensioni.

      Tra le caratteristiche di contesto rientra anche il tipo di territorio: la Valle Dei Mòcheni, un’area alpina periferica dove esistono ancora regole antiche che governano i rapporti tra i membri della comunità. Infine, un ulteriore elemento di complessità è legato alla tipologia di lavoratori impiegati dalla Capra Felice: richiedenti asilo e rifugiati, ovvero persone fragili che mostrano, in generale, un’alta vulnerabilità spesso dovuta a disturbi post-traumatici da stress (Barbieri, 2020).[10]
      Queste sfide e criticità si sono intrecciate con le difficoltà legate a un processo di sviluppo imprenditoriale che la Capra Felice ha intrapreso in un momento di grave instabilità e recessione economica.

      A dispetto delle drammatiche circostanze in cui i fatti si sono svolti, la retorica che potremmo chiamare della beatificazione seguita all’uccisione di Agitu Ideo Gudeta non ha lasciato alcuno spazio alla riflessione critica. Non solo le istituzioni pubbliche e gli operatori dell’informazione, ma anche molti politici e organizzazioni di terzo settore si sono rifugiati nella facile consacrazione dell’eroina, piuttosto che interrogarsi sulle fragilità dell’ambiente in cui Agitu Ideo Gudeta operava, sulle difficoltà incontrate da lei e dai suoi collaboratori, e persino sulle concause che potrebbero aver portato alla sua uccisione.

      Mentre si sono sprecate le parole per “eroicizzarla”, nessuno si è interrogato sulla qualità del lavoro, sul tipo di relazione lavorativa che la Capra Felice instaurava con i giovani richiedenti asilo e sull’esito dei loro percorsi di integrazione.

      Chi erano e che ruolo avevano i collaboratori della Capra Felice? Quanti richiedenti asilo hanno lavorato nel corso degli anni e in che misura e da chi erano seguiti nei loro percorsi di inclusione? Qual era il turn over dei lavoratori stranieri? Che rapporto avevano i collaboratori della Capra Felice con il territorio e la comunità locale? Dove vivono e lavorano ora gli ex lavoratori? Nel caso di lavoratori particolarmente fragili, qual era il ruolo dei servizi sociali e sanitari? Il percorso di sviluppo imprenditoriale della Capra Felice è stato seguito da qualche incubatore di impresa e, in caso negativo, perché no?

      Queste sono solo alcune delle domande su cui si sarebbe dovuto a nostro avviso interrogare qualsiasi osservatore non superficiale, interessato a comprendere e a sostenere i percorsi di accoglienza e inclusione sociale e lavorativa delle persone fragili.
      Progetti collettivi al posto di eroi e eroine

      La storia tragica di Agitu Ideo Gudeta sembra essere anche la storia di una società debole e fallimentare nel suo complesso, non solo di un’onda retorica che ha attraversato i mezzi di informazione e i social network per creare al suo centro l’eroina.

      Il fatto che la sua morte abbia generato un bisogno di santificazione e una gogna mediatica nei confronti dell’accusato, invece che sollecitare cordoglio e un esame di coscienza collettiva, smaschera un vuoto su cui forse varrebbe la pena riflettere.

      Un vuoto che può essere riempito solo con azioni concrete e durevoli, che siano il frutto di progetti collettivi a livello comunitario. A questo scopo, servono iniziative di autentica condivisione che aiutino a governare la complessità, a riconoscere le situazioni di fragilità e a prevenire e gestire i conflitti che inevitabilmente abitano i contesti sociali (Sclavi, 2003). A supporto di queste iniziative, c’è bisogno di una nuova narrazione, autentica e costruttiva, che sia innanzi tutto capace di apprendere dagli errori e dai fallimenti affinché le falle del nostro tessuto sociale non permettano più il perpetrarsi di simili tragedie. Quindi, una narrazione che non rifugge il fallimento e non lo percepisce come un pericolo da mascherare a qualsiasi costo, ma come un’opportunità di crescita e di cambiamento.

      Rispetto a quella che nutre gli eroi, è un tipo di narrazione di senso, incline ad alimentare una responsabilità collettiva e una nuova consapevolezza sociale, che può favorire un ribaltamento valoriale in senso solidale. È però una narrazione molto più faticosa da sviluppare. Presuppone, infatti, un’azione collettiva impegnativa in termini di relazioni, negoziazioni e confronti, che deve giocoforza poggiare sulla creazione di spazi di aggregazione e di collaborazione. Questa nuova narrazione non può che nascere da un rinnovato impegno civico di ciascuno di noi, in quanto cittadini responsabili che, praticando la solidarietà, prefigurano un cambiamento e un futuro possibile dove la cittadinanza attiva non è l’eccezione ma la costante.[11]

      Di qui la necessità di sostituire l’emulazione verbale e la ben sedimentata narrativa dell’eroe, normativamente accettata da un uso millenario, con un nuovo ordine normativo significante della realtà.
      Come sostenere la creazione di comunità accoglienti e inclusive

      La crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia nei partiti e l’allontanamento dalla politica hanno da tempo acceso i riflettori sulla società civile, organizzata e non, in quanto spazio di discussione e confronto, finalizzato non solo ad elaborare efficaci strategie in risposta a bisogni sempre più complessi, ma anche a prevenire e gestire le fragilità umane e i conflitti tra gruppi sociali contrapposti.

      Di fronte alla crisi epocale dei modelli politici e produttivi tradizionali, sono sempre più numerosi i dibattiti su come, in quale misura e attraverso quali strumenti, le comunità locali possano intervenire concretamente sulle profonde disuguaglianze economiche, sociali, territoriali che affliggono il nostro Paese, ribaltando i paradigmi dominanti e innescando cambiamenti profondi a vantaggio dei più deboli e della collettività.

      La storia, quella più lontana e quella più recente, ci mostra come spesso la forza della comunità risieda nel bagaglio di valori, tradizioni e relazioni fiduciarie, che sono radicati nel tessuto sociale e vissuto collettivo. Ed è questo bagaglio relazionale e valoriale che ha permesso in moltissimi casi alle comunità di sopravvivere e rigenerarsi nel corso della storia, spesso a seguito di eventi traumatici come calamità naturali, crisi economiche e sanitarie. Ma la storia ci riporta anche molti esempi di comunità in cui la valorizzazione delle identità locali ha originato fenomeni di chiusura particolaristica. Comunità esclusiviste che si sono e in molti casi continuano a identificare l’altro con il male (Bonomi, 2018; Langer, 1994).

      La comunità locali sono, quindi, lontane dall’essere sempre e comunque virtuose.

      Cosa fa pertanto la differenza tra una comunità e l’altra? Per diventare accoglienti e inclusive, le comunità devono potersi esprimere attraverso quelle organizzazioni della società civile che sono proiettate verso il bene comune e si avvalgono del coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse, in rappresentanza dei diversi pezzi di società che abitano un territorio. Sono quindi le organizzazioni di terzo settore maggiormente radicate sul territorio che andrebbero sostenute dalle politiche pubbliche all’interno di una cornice collaborativa in cui, anziché gestire prestazioni per conto dell’ente pubblico (Borzaga, 2019), il terzo settore dovrebbe configurarsi come un attivatore di risposte sociali innovative, che fanno leva sulla prossimità ai territori e alle persone, incluse quelle vulnerabili e disinformate, normalmente ai margini delle dinamiche di cambiamento (Manzini, 2018).

      Se è vero, come da più parti sottolineato, che la politica è in gran parte responsabile dello scarso riconoscimento della società civile organizzata, l’insufficiente apprezzamento del suo valore aggiunto è ascrivibile anche ad alcune prassi, culture e comportamenti organizzativi messi in atto dalle stesse organizzazioni di terzo settore. Tra questi, una retorica – quella degli eroi – incoerente con la loro natura, che ha generato atteggiamenti autoreferenziali e ha alimentato uno scollamento di molte organizzazioni di terzo settore dalle loro comunità di appartenenza. Una delle sfide che il terzo settore dovrebbe far propria è, quindi, a nostro avviso l’archiviazione, una volta per tutte, della retorica dell’eroe e dell’eroina e la sua sostituzione con una narrazione autentica e costruttiva che sia in grado di alimentare un’attiva partecipazione della cittadinanza alla gestione del bene comune.

      DOI: 10.7425/IS.2021.02.10

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      Note

      La nozione di bene comune fa riferimento all’insieme delle risorse necessarie allo sviluppo della persona ed all’esercizio dei suoi diritti fondamentali. Presuppone condizioni di eguaglianza nell’accesso o utilizzo degli stessi. Sul concetto di beni comuni si rimanda ai lavori di E. Olstrom [tra cui: Olstrom E. (1990), Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge UK]. Nel sistema italiano una definizione di riferimento è quella formulata dalla Commissione Rodotà nel 2008: “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona”.
      https://nti.apet118.it/home
      “Quanto vale il volontariato in Italia? Istat, CSVnet e FVP lanciano la prima sperimentazione del Manuale ILO sul lavoro volontario”: https://www.csvnet.it/csv/storia/144-notizie/1226-quanto-vale-il-volontariato-in-italia-istat-csvnet-e-fvp-lanciano-i-dati
      Di qui l’elogio di chi ce la fa e “merita” (Piketty, 2020). Per un’analisi critica del “merito” si rimanda a Sandel (2020).
      Con riferimento alle critiche si veda John McClusky (2018).
      Modelli di governance che sono supportati da vincoli normativi o statutari – come il vincolo alla non distribuibilità degli utili (non-profit distribution constraint) e l’asset lock – pensati per garantire la sopravvivenza nel tempo dell’inclusività e dell’interesse generale perseguito.
      Approccio che vede l’intervento sociale in analogia all’innovazione tecnologica, dove una mente geniale, chiusa nel suo garage, inventa qualcosa che rivoluziona la vita di tutti.
      La campagna #nonsonoangeli prese avvio all’indomani dell’ultima alluvione di Genova dall’esigenza di ridefinire il ruolo del volontariato e della percezione di questi per i media, promuovendo da un lato una comunicazione meno stereotipata dell’impegno dei cittadini, in caso di emergenza e non, per il bene comune, e dall’altro una conoscenza del volontariato e della solidarietà così come queste si manifestano. https://nonsonoangeli.wordpress.com/2016/06/08/roma-8-giugno-2016-on-sono-angeli-il-volontariato-tra-stere
      Si veda a questo proposito: https://socialimpactaward.net/breaking-the-myth-of-hero-entrepreneurship - http://tacklingheropreneurship.com
      Si veda anche: https://mediciperidirittiumani.org/studio-salute-mentale-rifugiati - https://archivio.medicisenzafrontiere
      https://www.cesvot.it/comunicazione/dossier/hanno-detto-di-nonsonoangeli

      https://www.rivistaimpresasociale.it/rivista/articolo/dalla-ricerca-di-eroi-alla-costruzione-di-progetti-comunitari

      #héros #narration #imaginaire_collectif #récit #moralité_culturelle #éthique #justice_sociale #contre-récit #communautés_locales #pathos #individualisation #Lucano #Mimmo_Lucano #Domenico_Lucano #excellence #storytelling #innovation #néo-libéralisation #libéralisme #management #leadership #figure_charismatique #charisme #Riace #idéalisation #polarisation #simplification #catégorisation #fragilisation #solitude #Capra_Felice #responsabilité_collective #société_civile

  • Procès de la torture en Syrie : les dossiers "César" pour la première fois devant une cour
    https://www.justiceinfo.net/fr/tribunaux/tribunaux-nationaux/45961-proces-torture-syrie-dossiers-cesar-premiere-devant-cour.html

    La semaine dernière à Coblence, le célèbre dossier « César » a été présenté comme élément de preuve devant un tribunal, pour la première fois. Un expert médico-légal a témoigné dans le procès Al-Khatib, qui a analysé les cadavres photographiés sur plus de 50 000 clichés. Sa conclusion : la torture et les meurtres étaient systématiques dans tous les centres de détention des services de renseignement.

    « Compression de la gorge », « état nutritionnel affaibli », « blessures non compatibles avec le maintien en vie », les mots de l’expert médico-légal résonnent comme des abstractions. Mais les images ramènent à la réalité. Corps après corps, la projection s’enchaîne sur le mur de la salle d’audience. Certains sont minces comme des squelettes, d’autres ont des blessures ouvertes. Un corps est entièrement bleu, tandis que d’autres (...)

    #Tribunaux_nationaux

  • Cette enfant n’est pas une enfant, c’est une migrante | Le Club de Mediapart
    https://blogs.mediapart.fr/fatima-ouassak/blog/111120/cette-enfant-nest-pas-une-enfant-cest-une-migrante

    Le 16 mai 2018, Mawda est en voiture avec sa mère, son père et son frère, en route pour un endroit où la petite famille connaitra la paix, enfin. Bien d’autres personnes sont entassées dans la camionnette, les conditions du voyage sont loin d’être idéales mais ce n’est pas grave, ce n’est rien comparé à ce qu’on quitte, un pays en guerre, une vie dans la terreur. Mawda a deux ans, et elle est en route pour un avenir meilleur.

    #migrants #répression #police #meurtre #déshumanisation

  • This week in history: November 9-15 - World Socialist Web Site

    https://www.wsws.org/en/articles/2020/11/09/twih-n09.html

    On November 10, 1995, nine members of the Movement for the Survival of the #Ogoni People (MOSOP) were executed by the Nigerian military dictatorship of General Sani Abacha.

    The victims, including playwright and author Ken Saro-Wiwa, were convicted on trumped-up charges by a secret military tribunal on October 31. The junta upheld their sentences November 8 and ordered the executions to be carried out immediately to forestall further protests.

    #nigeria #droits_humains #meurtres_d_état

  • Andrea-DWORKIN-Heartbreak-The-Political-Memoir-of-a-Feminist-Militant.pdf
    http://www.feministes-radicales.org/wp-content/uploads/2010/11/Andrea-DWORKIN-Heartbreak-The-Political-Memoir-of-a-Feminist-M

    The fight

    I loved Allen Ginsberg with the passion that only a teenager knows, but that passion did not end when adolescence did.

    (...)

    On the day of the bar mitzvah newspapers reported in huge headlines that the Supreme Court had ruled child pornogra­phy illegal. I was thrilled. I knew that Allen would not be. I did think he was a civil libertarian. But in fact, he was a pedophile. He did not belong to the North American Man- Boy Love Association out of some mad, abstract conviction that its voice had to be heard. He meant it. I take this from what Allen said directly to me, not from some inference I made. He was exceptionally aggressive about his right to fuck children and his constant pursuit of underage boys.

    (...)

    Ginsberg would not leave me alone. He followed me every­where I went from the lobby of the hotel through the whole reception, then during the dinner. He photographed me con­stantly with a vicious little camera he wore around his neck. He sat next to me and wanted to know details of sexual abuse I had suffered. A lovely woman, not knowing that his interest was entirely pornographic, told a terrible story of being molested by a neighbor. He ignored her. She had thought, “This is Allen Ginsberg, the great beat poet and a prince of empathy. ” Wrong. Ginsberg told me that he had never met an intelligent person who had the ideas I did. I told him he didn’t get around enough. He pointed to the friends of my godson and said they were old enough to fuck. They were twelve and thirteen. He said that all sex was good, including forced sex.I am good at getting rid of men, strictly in the above-board sense. I couldn’t get rid of Allen. Finally I had had it. Referring back to the Supreme Court’s decision banning child pornog­raphy he said, “The right wants to put me in jail. ” I said, “Yes, they’re very sentimental; I’d kill you. ” The next day he’d point at me in crowded rooms and screech, “She wants to put me in jail. ” I’d say, “No, Allen, you still don’t get it. The right wants to put you in jail. I want you dead. ” He told everyone his fucked-up version of the story (“You want to put me in jail”) for years. When he died he stopped.

    #dead_men_don't_rape

    #ginsberg #pédocriminel #pedophile #68 #beat_generation #tanger #contre_culture #North_American_Man_Boy_Love_Association #peine_de_mort #libertarien #vengeance #haine #meurtre #assassinat #justice

  • Je suis prof. Seize brèves réflexions contre la terreur et l’obscurantisme, en #hommage à #Samuel_Paty

    Les lignes qui suivent ont été inspirées par la nouvelle atroce de la mise à mort de mon collègue, Samuel Paty, et par la difficile semaine qui s’en est suivie. En hommage à un #enseignant qui croyait en l’#éducation, en la #raison_humaine et en la #liberté_d’expression, elles proposent une quinzaine de réflexions appelant, malgré l’émotion, à penser le présent, et en débattre, avec raison. Ces réflexions ne prétendent évidemment pas incarner la pensée de Samuel Paty, mais elles sont écrites pour lui, au sens où l’effort de pensée, de discernement, de nuances, de raison, a été fait en pensant à lui, et pour lui rendre hommage. Continuer de penser librement, d’exprimer, d’échanger les arguments, me parait le meilleur des hommages.

    1. Il y a d’abord eu, en apprenant la nouvelle, l’#horreur, la #tristesse, la #peur, devant le #crime commis, et des pensées pour les proches de Samuel Paty, ses collègues, ses élèves, toutes les communautés scolaires de France et, au-delà, toute la communauté des humains bouleversés par ce crime. Puis s’y est mêlée une #rage causée par tous ceux qui, d’une manière ou d’une autre, et avant même d’en savoir plus sur les tenants et aboutissants qui avaient mené au pire, se sont empressés de dégainer des kits théoriques tendant à minimiser l’#atrocité du crime ou à dissoudre toute la #responsabilité de l’assassin (ou possiblement des assassins) dans des entités excessivement extensibles (que ce soit « l’#islamisation » ou « l’#islamophobie ») – sans compter ceux qui instrumentalisent l’horreur pour des agendas qu’on connait trop bien : rétablissement de la peine de mort, chasse aux immigré.e.s, chasse aux musulman.e.s.

    2. Il y a ensuite eu une peur, ou des peurs, en voyant repartir tellement vite, et à la puissance dix, une forme de réaction gouvernementale qui a de longue date fait les preuves de son #inefficacité (contre la #violence_terroriste) et de sa #nocivité (pour l’état du vivre-ensemble et des droits humains) : au lieu d’augmenter comme il faut les moyens policiers pour enquêter plus et mieux qu’on ne le fait déjà, pour surveiller, remonter des filières bien ciblées et les démanteler, mais aussi assurer en temps réel la protection des personnes qui la demandent, au moment où elles la demandent, on fait du spectacle avec des boucs émissaires.

    Une sourde appréhension s’est donc mêlée à la peine, face au déferlement d’injures, de menaces et d’attaques islamophobes, anti-immigrés et anti-tchétchènes qui a tout de suite commencé, mais aussi face à l’éventualité d’autres attentats qui pourraient advenir dans le futur, sur la prévention desquels, c’est le moins que je puisse dire, toutes les énergies gouvernementales ne me semblent pas concentrées.

    3. Puis, au fil des lectures, une #gêne s’est installée, concernant ce que, sur les #réseaux_sociaux, je pouvais lire, « dans mon camp » cette fois-ci – c’est-à-dire principalement chez des gens dont je partage plus ou moins une certaine conception du combat antiraciste. Ce qui tout d’abord m’a gêné fut le fait d’énoncer tout de suite des analyses explicatives alors qu’au fond on ne savait à peu près rien sur le détail des faits : quel comportement avait eu précisément Samuel Paty, en montrant quels dessins, quelles interactions avaient eu lieu après-coup avec les élèves, avec les parents, qui avait protesté et en quels termes, sous quelles forme, qui avait envenimé le contentieux et comment s’était produit l’embrasement des réseaux sociaux, et enfin quel était le profil de l’assassin, quel était son vécu russe, tchétchène, français – son vécu dans toutes ses dimensions (familiale, socio-économique, scolaire, médicale), sa sociabilité et ses accointances (ou absences d’accointances) religieuses, politiques, délinquantes, terroristes ?

    J’étais gêné par exemple par le fait que soit souvent validée a priori, dès les premières heures qui suivirent le crime, l’hypothèse que Samuel Paty avait « déconné », alors qu’on n’était même pas certain par exemple que c’était le dessin dégoutant du prophète cul nu (j’y reviendrai) qui avait été montré en classe (puisqu’on lisait aussi que le professeur avait déposé plainte « pour diffamation » suite aux accusations proférées contre lui), et qu’on ne savait rien des conditions et de la manière dont il avait agencé son cours.

    4. Par ailleurs, dans l’hypothèse (qui a fini par se confirmer) que c’était bien ce dessin, effectivement problématique (j’y reviendrai), qui avait servi de déclencheur ou de prétexte pour la campagne contre Samuel Paty, autre chose me gênait. D’abord cet oubli : montrer un #dessin, aussi problématique soit-il, obscène, grossier, de mauvais goût, ou même raciste, peut très bien s’intégrer dans une #démarche_pédagogique, particulièrement en cours d’histoire – après tout, nous montrons bien des #caricatures anti-juives ignobles quand nous étudions la montée de l’antisémitisme, me confiait un collègue historien, et cela ne constitue évidemment pas en soi une pure et simple perpétuation de l’#offense_raciste. Les deux cas sont différents par bien des aspects, mais dans tous les cas tout se joue dans la manière dont les documents sont présentés et ensuite collectivement commentés, analysés, critiqués. Or, sur ladite manière, en l’occurrence, nous sommes restés longtemps sans savoir ce qui exactement s’était passé, et ce que nous avons fini par appendre est que Samuel Paty n’avait pas eu d’intention maligne : il s’agissait vraiment de discuter de la liberté d’expression, autour d’un cas particulièrement litigieux.

    5. En outre, s’il s’est avéré ensuite, dans les récits qui ont pu être reconstitués (notamment dans Libération), que Samuel Paty n’avait fait aucun usage malveillant de ces caricatures, et que les parents d’élèves qui s’étaient au départ inquiétés l’avaient assez rapidement et facilement compris après discussion, s’il s’est avéré aussi qu’au-delà de cet épisode particulier, Samuel Paty était un professeur très impliqué et apprécié, chaleureux, blagueur, il est dommageable que d’emblée, il n’ait pas été martelé ceci, aussi bien par les inconditionnels de l’ « esprit Charlie » que par les personnes légitimement choquées par certaines des caricatures : que même dans le cas contraire, même si le professeur avait « déconné », que ce soit un peu ou beaucoup, que même s’il avait manqué de précautions pédagogiques, que même s’il avait intentionnellement cherché à blesser, bref : que même s’il avait été un « mauvais prof », hautain, fumiste, ou même raciste, rien, absolument rien ne justifiait ce qui a été commis.

    Je me doute bien que, dans la plupart des réactions à chaud, cela allait sans dire, mais je pense que, dans le monde où l’on vit, et où se passent ces horreurs, tout désormais en la matière (je veux dire : en matière de mise à distance de l’hyper-violence) doit être dit, partout, même ce qui va sans dire.

    En d’autres termes, même si l’on juge nécessaire de rappeler, à l’occasion de ce crime et des discussions qu’il relance, qu’il est bon que tout ne soit pas permis en matière de liberté d’expression, cela n’est selon moi tenable que si l’on y adjoint un autre rappel : qu’il est bon aussi que tout ne soit pas permis dans la manière de limiter la liberté d’expression, dans la manière de réagir aux discours offensants, et plus précisément que doit être absolument proscrit le recours à la #violence_physique, a fortiori au #meurtre. Nous sommes malheureusement en un temps, je le répète, où cela ne va plus sans dire.

    6. La remarque qui précède est, me semble-t-il, le grand non-dit qui manque le plus dans tout le débat public tel qu’il se polarise depuis des années entre les « Charlie », inconditionnels de « la liberté d’expression », et les « pas Charlie », soucieux de poser des « #limites » à la « #liberté_d’offenser » : ni la liberté d’expression ni sa nécessaire #limitation ne doivent en fait être posées comme l’impératif catégorique et fondamental. Les deux sont plaidables, mais dans un #espace_de_parole soumis à une autre loi fondamentale, sur laquelle tout le monde pourrait et devrait se mettre d’accord au préalable, et qui est le refus absolu de la violence physique.

    Moyennant quoi, dès lors que cette loi fondamentale est respectée, et expressément rappelée, la liberté d’expression, à laquelle Samuel Paty était si attaché, peut et doit impliquer aussi le droit de dire qu’on juge certaines caricatures de Charlie Hebdo odieuses :

    – celles par exemple qui amalgament le prophète des musulmans (et donc – par une inévitable association d’idées – l’ensemble des fidèles qui le vénèrent) à un terroriste, en le figurant par exemple surarmé, le nez crochu, le regard exorbité, la mine patibulaire, ou coiffé d’un turban en forme de bombe ;

    – celle également qui blesse gratuitement les croyants (et les croyants lambda, tolérants, non-violents, tout autant voire davantage que des « djihadistes » avides de prétextes à faire couler le sang), en représentant leur prophète cul nul, testicules à l’air, une étoile musulmane à la place de l’anus ;

    – celle qui animalise une syndicaliste musulmane voilée en l’affublant d’un faciès de singe ;

    – celle qui annonce « une roumaine » (la joueuse Simona Halep), gagnante de Roland-Garros, et la représente en rom au physique disgracieux, brandissant la coupe et criant « ferraille ! ferraille ! » ;

    – celle qui nous demande d’imaginer « le petit Aylan », enfant de migrants kurdes retrouvé mort en méditerranée, « s’il avait survécu », et nous le montre devenu « tripoteur de fesses en Allemagne » (suite à une série de viols commis à Francfort) ;

    – celle qui représente les esclaves sexuelles de Boko Haram, voilées et enceintes, en train de gueuler après leurs « allocs » ;

    – celle qui fantasme une invasion ou une « islamisation » en forme de « grand remplacement », par exemple en nous montrant un musulman barbu dont la barbe démesurée envahit toute la page de Une, malgré un minuscule Macron luttant « contre le séparatisme », armé de ciseaux, mais ne parvenant qu’à en couper que quelques poils ;

    – celle qui alimente le même fantasme d’invasion en figurant un Macron, déclarant que le port du foulard par des femmes musulmanes « ne le regarde pas » en tant que président, tandis que le reste de la page n’est occupé que par des femmes voilées, avec une légende digne d’un tract d’extrême droite : « La République islamique en marche ».

    Sur chacun de ces dessins, publiés en Une pour la plupart, je pourrais argumenter en détail, pour expliquer en quoi je les juge odieux, et souvent racistes. Bien d’autres exemples pourraient d’ailleurs être évoqués, comme une couverture publiée à l’occasion d’un attentat meurtrier commis à Bruxelles en mars 2016 et revendiqué par Daesh (ayant entraîné la mort de 32 personnes et fait 340 blessés), et figurant de manière pour le moins choquante le chanteur Stromae, orphelin du génocide rwandais, en train de chanter « Papaoutai » tandis que voltigent autour de lui des morceaux de jambes et de bras déchiquetés ou d’oeil exorbité. La liste n’est pas exhaustive, d’autres unes pourraient être évoquées – celles notamment qui nous invitent à rigoler (on est tenté de dire ricaner) sur le sort des femmes violées, des enfants abusés, ou des peuples qui meurent de faim.

    On a le droit de détester cet #humour, on a le droit de considérer que certaines de ces caricatures incitent au #mépris ou à la #haine_raciste ou sexiste, entre autres griefs possibles, et on a le droit de le dire. On a le droit de l’écrire, on a le droit d’aller le dire en justice, et même en manifestation. Mais – cela allait sans dire, l’attentat de janvier 2015 oblige désormais à l’énoncer expressément – quel que soit tout le mal qu’on peut penser de ces dessins, de leur #brutalité, de leur #indélicatesse, de leur méchanceté gratuite envers des gens souvent démunis, de leur #racisme parfois, la #violence_symbolique qu’il exercent est sans commune mesure avec la violence physique extrême que constitue l’#homicide, et elle ne saurait donc lui apporter le moindre commencement de #justification.

    On a en somme le droit de dénoncer avec la plus grande vigueur la violence symbolique des caricatures quand on la juge illégitime et nocive, car elle peut l’être, à condition toutefois de dire désormais ce qui, je le répète, aurait dû continuer d’aller sans dire mais va beaucoup mieux, désormais, en le disant : qu’aucune violence symbolique ne justifie l’hyper-violence physique. Cela vaut pour les pires dessins de Charlie comme pour les pires répliques d’un Zemmour ou d’un Dieudonné, comme pour tout ce qui nous offense – du plutôt #douteux au parfaitement #abject.

    Que reste-t-il en effet de la liberté d’expression si l’on défend le #droit_à_la_caricature mais pas le droit à la #critique des caricatures ? Que devient le #débat_démocratique si toute critique radicale de #Charlie aujourd’hui, et qui sait de de Zemmour demain, de Macron après-demain, est d’office assimilée à une #incitation_à_la_violence, donc à de la complicité de terrorisme, donc proscrite ?

    Mais inversement, que devient cet espace démocratique si la dénonciation de l’intolérable et l’appel à le faire cesser ne sont pas précédés et tempérés par le rappel clair et explicite de l’interdit fondamental du meurtre ?

    7. Autre chose m’a gêné dans certaines analyses : l’interrogation sur les « #vrais_responsables », formulation qui laisse entendre que « derrière » un responsable « apparent » (l’assassin) il y aurait « les vrais responsables », qui seraient d’autres que lui. Or s’il me parait bien sûr nécessaire d’envisager dans toute sa force et toute sa complexité l’impact des #déterminismes_sociaux, il est problématique de dissoudre dans ces déterminismes toute la #responsabilité_individuelle de ce jeune de 18 ans – ce que la sociologie ne fait pas, contrairement à ce que prétendent certains polémistes, mais que certains discours peuvent parfois faire.

    Que chacun s’interroge toujours sur sa possible responsabilité est plutôt une bonne chose à mes yeux, si toutefois on ne pousse pas le zèle jusqu’à un « on est tous coupables » qui dissout toute #culpabilité réelle et arrange les affaires des principaux coupables. Ce qui m’a gêné est l’enchaînement de questions qui, en réponse à la question « qui a tué ? », met comme en concurrence, à égalité, d’une part celui qui a effectivement commis le crime, et d’autre part d’autres personnes ou groupes sociaux (la direction de l’école, la police, le père d’élève ayant lancé la campagne publique contre Samuel Paty sur Youtube, sa fille qui semble l’avoir induit en erreur sur le déroulement de ses cours) qui, quel que soit leur niveau de responsabilité, n’ont en aucun cas « tué » – la distinction peut paraitre simple, voire simpliste, mais me parait, pour ma part, cruciale à maintenir.

    8. Ce qui m’a gêné, aussi, et même écoeuré lorsque l’oubli était assumé, et que « le système » néolibéral et islamophobe devenait « le principal responsable », voire « l’ennemi qu’il nous faut combattre », au singulier, ce fut une absence, dans la liste des personnes ou des groupes sociaux pouvant, au-delà de l’individu #Abdoullakh_Abouyezidovitch, se partager une part de responsabilité. Ce qui me gêna fut l’oubli ou la minoration du rôle de l’entourage plus ou moins immédiat du tueur – qu’il s’agisse d’un groupe terroriste organisé ou d’un groupe plus informel de proches ou de moins proches (via les réseaux sociaux), sans oublier, bien entendu, l’acolyte de l’irresponsable « père en colère » : un certain #Abdelhakim_Sefrioui, entrepreneur de haine pourtant bien connu, démasqué et ostracisé de longue date dans les milieux militants, à commencer par les milieux pro-palestiniens et la militance anti-islamophobie.

    Je connais les travaux sociologiques qui critiquent à juste titre l’approche mainstream, focalisée exclusivement les techniques de propagande des organisations terroristes, et qui déplacent la focale sur l’étude des conditions sociales rendant audible et « efficace » lesdites techniques de #propagande. Mais justement, on ne peut prendre en compte ces conditions sociales sans observer aussi comment elles pèsent d’une façon singulière sur les individus, dont la responsabilité n’est pas évacuée. Et l’on ne peut pas écarter, notamment, la responsabilité des individus ou des groupes d’ « engraineurs », surtout si l’on pose la question en ces termes : « qui a tué ? ».

    9. Le temps du #choc, du #deuil et de l’#amertume « contre mon propre camp » fut cela dit parasité assez vite par un vacarme médiatique assourdissant, charriant son lot d’#infamie dans des proportions autrement plus terrifiantes. #Samuel_Gontier, fidèle « au poste », en a donné un aperçu glaçant :

    – des panels politiques dans lesquels « l’équilibre » invoqué par le présentateur (Pascal Praud) consiste en un trio droite, droite extrême et extrême droite (LREM, Les Républicains, Rassemblement national), et où les différentes familles de la gauche (Verts, PS, PCF, France insoumise, sans même parler de l’extrême gauche) sont tout simplement exclues ;

    – des « débats » où sont mis sérieusement à l’agenda l’interdiction du #voile dans tout l’espace public, l’expulsion de toutes les femmes portant le #foulard, la #déchéance_de_nationalité pour celles qui seraient françaises, la réouverture des « #bagnes » « dans îles Kerguelen », le rétablissement de la #peine_de_mort, et enfin la « #criminalisation » de toutes les idéologies musulmanes conservatrices, « pas seulement le #djihadisme mais aussi l’#islamisme » (un peu comme si, à la suite des attentats des Brigades Rouges, de la Fraction Armée Rouge ou d’Action Directe, on avait voulu criminaliser, donc interdire et dissoudre toute la gauche socialiste, communiste, écologiste ou radicale, sous prétexte qu’elle partageait avec les groupes terroristes « l’opposition au capitalisme ») ;

    – des « plateaux » sur lesquels un #Manuel_Valls peut appeler en toute conscience et en toute tranquillité, sans causer de scandale, à piétiner la Convention Européenne des Droits Humains : « S’il nous faut, dans un moment exceptionnel, s’éloigner du #droit_européen, faire évoluer notre #Constitution, il faut le faire. », « Je l’ai dit en 2015, nous sommes en #guerre. Si nous sommes en guerre, donc il faut agir, frapper. ».

    10. Puis, très vite, il y a eu cette offensive du ministre de l’Intérieur #Gérald_Darmanin contre le #CCIF (#Collectif_Contre_l’Islamophobie_en_France), dénuée de tout fondement du point de vue de la #lutte_anti-terroriste – puisque l’association n’a évidemment pris aucune part dans le crime du 17 octobre 2020, ni même dans la campagne publique (sur Youtube et Twitter) qui y a conduit.

    Cette dénonciation – proprement calomnieuse, donc – s’est autorisée en fait d’une montée en généralité, en abstraction et même en « nébulosité », et d’un grossier sophisme : le meurtre de Samuel Paty est une atteinte aux « #valeurs » et aux « institutions » de « la #République », que justement le CCIF « combat » aussi – moyennant quoi le CCIF a « quelque chose à voir » avec ce crime et il doit donc être dissous, CQFD. L’accusation n’en demeure pas moins fantaisiste autant qu’infamante, puisque le « combat » de l’association, loin de viser les principes et les institutions républicaines en tant que telles, vise tout au contraire leur manque d’effectivité : toute l’activité du CCIF (c’est vérifiable, sur le site de l’association aussi bien que dans les rapports des journalistes, au fil de l’actualité, depuis des années) consiste à combattre la #discrimination en raison de l’appartenance ou de la pratique réelle ou supposée d’une religion, donc à faire appliquer une loi de la république. Le CCIF réalise ce travail par les moyens les plus républicains qui soient, en rappelant l’état du Droit, en proposant des médiations ou en portant devant la #Justice, institution républicaine s’il en est, des cas d’atteinte au principe d’#égalité, principe républicain s’il en est.

    Ce travail fait donc du CCIF une institution précieuse (en tout cas dans une république démocratique) qu’on appelle un « #contre-pouvoir » : en d’autres termes, un ennemi de l’arbitraire d’État et non de la « République ». Son travail d’#alerte contribue même à sauver ladite République, d’elle-même pourrait-on dire, ou plutôt de ses serviteurs défaillants et de ses démons que sont le racisme et la discrimination.

    Il s’est rapidement avéré, du coup, que cette offensive sans rapport réel avec la lutte anti-terroriste s’inscrivait en fait dans un tout autre agenda, dont on avait connu les prémisses dès le début de mandat d’Emmanuel Macron, dans les injures violentes et les tentatives d’interdiction de Jean-Michel #Blanquer contre le syndicat #Sud_éducation_93, ou plus récemment dans l’acharnement haineux du député #Robin_Réda, censé diriger une audition parlementaire antiraciste, contre les associations de soutien aux immigrés, et notamment le #GISTI (Groupe d’Information et de Soutien aux Immigrés). Cet agenda est ni plus ni moins que la mise hors-jeu des « corps intermédiaires » de la société civile, et en premier lieu des #contre-pouvoirs que sont les associations antiracistes et de défense des droits humains, ainsi que les #syndicats, en attendant le tour des partis politiques – confère, déjà, la brutalisation du débat politique, et notamment les attaques tout à fait inouïes, contraires pour le coup à la tradition républicaine, de #Gérald_Darmanin contre les écologistes (#Julien_Bayou, #Sandra_Regol et #Esther_Benbassa) puis contre la #France_insoumise et son supposé « #islamo-gauchisme qui a détruit la république », ces dernières semaines, avant donc le meurtre de Samuel Paty.

    Un agenda dans lequel figure aussi, on vient de l’apprendre, un combat judiciaire contre le site d’information #Mediapart.

    11. Il y a eu ensuite l’annonce de ces « actions coup de poing » contre des associations et des lieux de culte musulmans, dont le ministre de l’Intérieur lui-même a admis qu’elles n’avaient aucun lien avec l’enquête sur le meurtre de Samuel Paty, mais qu’elles servaient avant tout à « #adresser_un_message », afin que « la #sidération change de camp ». L’aveu est terrible : l’heure n’est pas à la défense d’un modèle (démocratique, libéral, fondé sur l’État de Droit et ouvert à la pluralité des opinions) contre un autre (obscurantiste, fascisant, fondé sur la terreur), mais à une #rivalité_mimétique. À la #terreur on répond par la terreur, sans même prétendre, comme le fit naguère un Charles Pasqua, qu’on va « terroriser les terroristes » : ceux que l’on va terroriser ne sont pas les terroristes, on le sait, on le dit, on s’en contrefout et on répond au meurtre par la #bêtise et la #brutalité, à l’#obscurantisme « religieux » par l’obscurantisme « civil », au #chaos de l’#hyper-violence par le chaos de l’#arbitraire d’État.

    12. On cible donc des #mosquées alors même qu’on apprend (notamment dans la remarquable enquête de Jean-Baptiste Naudet, dans L’Obs) que le tueur ne fréquentait aucune mosquée – ce qui était le cas, déjà, de bien d’autres tueurs lors des précédents attentats.

    On s’attaque au « #séparatisme » et au « #repli_communautaire » alors même qu’on apprend (dans la même enquête) que le tueur n’avait aucune attache ou sociabilité dans sa communauté – ce qui là encore a souvent été le cas dans le passé.

    On préconise des cours intensifs de #catéchisme_laïque dans les #écoles, des formations intensives sur la liberté d’expression, avec distribution de « caricatures » dans tous les lycées, alors que le tueur était déscolarisé depuis un moment et n’avait commencé à se « radicaliser » qu’en dehors de l’#école (et là encore se rejoue un schéma déjà connu : il se trouve qu’un des tueurs du Bataclan fut élève dans l’établissement où j’exerce, un élève dont tous les professeurs se souviennent comme d’un élève sans histoires, et dont la famille n’a pu observer des manifestations de « #radicalisation » qu’après son bac et son passage à l’université, une fois qu’il était entré dans la vie professionnelle).

    Et enfin, ultime protection : Gérald Darmanin songe à réorganiser les rayons des #supermarchés ! Il y aurait matière à rire s’il n’y avait pas péril en la demeure. On pourrait s’amuser d’une telle #absurdité, d’une telle incompétence, d’une telle disjonction entre la fin et les moyens, si l’enjeu n’était pas si grave. On pourrait sourire devant les gesticulations martiales d’un ministre qui avoue lui-même tirer « à côté » des véritables coupables et complices, lorsque par exemple il ordonne des opérations contre des #institutions_musulmanes « sans lien avec l’enquête ». On pourrait sourire s’il ne venait pas de se produire une attaque meurtrière atroce, qui advient après plusieurs autres, et s’il n’y avait pas lieu d’être sérieux, raisonnable, concentré sur quelques objectifs bien définis : mieux surveiller, repérer, voir venir, mieux prévenir, mieux intervenir dans l’urgence, mieux protéger. On pourrait se payer le luxe de se disperser et de discuter des #tenues_vestimentaires ou des #rayons_de_supermarché s’il n’y avait pas des vies humaines en jeu – certes pas la vie de nos dirigeants, surprotégés par une garde rapprochée, mais celles, notamment, des professeurs et des élèves.

    13. Cette #futilité, cette #frivolité, cette bêtise serait moins coupable s’il n’y avait pas aussi un gros soubassement de #violence_islamophobe. Cette bêtise serait innocente, elle ne porterait pas à conséquence si les mises en débat du #vêtement ou de l’#alimentation des diverses « communautés religieuses » n’étaient pas surdéterminées, depuis de longues années, par de très lourds et violents #stéréotypes racistes. On pourrait causer lingerie et régime alimentaire si les us et coutumes religieux n’étaient pas des #stigmates sur-exploités par les racistes de tout poil, si le refus du #porc ou de l’#alcool par exemple, ou bien le port d’un foulard, n’étaient pas depuis des années des motifs récurrents d’#injure, d’#agression, de discrimination dans les études ou dans l’emploi.

    Il y a donc une bêtise insondable dans cette mise en cause absolument hors-sujet des commerces ou des rayons d’ « #alimentation_communautaire » qui, dixit Darmanin, « flatteraient » les « plus bas instincts », alors que (confère toujours l’excellente enquête de Jean-Baptiste Naudet dans L’Obs) l’homme qui a tué Samuel Paty (comme l’ensemble des précédents auteurs d’attentats meurtriers) n’avait précisément pas d’ancrage dans une « communauté » – ni dans l’immigration tchétchène, ni dans une communauté religieuse localisée, puisqu’il ne fréquentait aucune mosquée.

    Et il y a dans cette bêtise une #méchanceté tout aussi insondable : un racisme sordide, à l’encontre des #musulmans bien sûr, mais pas seulement. Il y a aussi un mépris, une injure, un piétinement de la mémoire des morts #juifs – puisque parmi les victimes récentes des tueries terroristes, il y a précisément des clients d’un commerce communautaire, l’#Hyper_Cacher, choisis pour cible et tués précisément en tant que tels.

    Telle est la vérité, cruelle, qui vient d’emblée s’opposer aux élucubrations de Gérald Darmanin : en incriminant les modes de vie « communautaires », et plus précisément la fréquentation de lieux de culte ou de commerces « communautaires », le ministre stigmatise non pas les coupables de la violence terroriste (qui se caractérisent au contraire par la #solitude, l’#isolement, le surf sur #internet, l’absence d’#attaches_communautaires et de pratique religieuse assidue, l’absence en tout cas de fréquentation de #lieux_de_cultes) mais bien certaines de ses victimes (des fidèles attaqués sur leur lieu de culte, ou de courses).

    14. Puis, quelques jours à peine après l’effroyable attentat, sans aucune concertation sur le terrain, auprès de la profession concernée, est tombée par voie de presse (comme d’habitude) une stupéfiante nouvelle : l’ensemble des Conseils régionaux de France a décidé de faire distribuer un « #recueil_de_caricatures » (on ne sait pas lesquelles) dans tous les lycées. S’il faut donner son sang, allez donner le vôtre, disait la chanson. Qu’ils aillent donc, ces élus, distribuer eux-mêmes leurs petites bibles républicaines, sur les marchés. Mais non : c’est notre sang à nous, petits profs de merde, méprisés, sous-payés, insultés depuis des années, qui doit couler, a-t-il été décidé en haut lieu. Et possiblement aussi celui de nos élèves.

    Car il faut se rendre à l’évidence : si cette information est confirmée, et si nous acceptons ce rôle de héros et martyrs d’un pouvoir qui joue aux petits soldats de plomb avec des profs et des élèves de chair et d’os, nous devenons officiellement la cible privilégiée des groupes terroristes. À un ennemi qui ne fonctionne, dans ses choix de cibles et dans sa communication politique, qu’au défi, au symbole et à l’invocation de l’honneur du Prophète, nos dirigeants répondent en toute #irresponsabilité par le #défi, le #symbole, et la remise en jeu de l’image du Prophète. À quoi doit-on s’attendre ? Y sommes-nous prêts ? Moi non.

    15. Comme si tout cela ne suffisait pas, voici enfin que le leader de l’opposition de gauche, celui dont on pouvait espérer, au vu de ses engagements récents, quelques mises en garde élémentaires mais salutaires contre les #amalgames et la #stigmatisation haineuse des musulmans, n’en finit pas de nous surprendre ou plutôt de nous consterner, de nous horrifier, puisqu’il s’oppose effectivement à la chasse aux musulmans, mais pour nous inviter aussitôt à une autre chasse : la #chasse_aux_Tchétchènes :

    « Moi, je pense qu’il y a un problème avec la #communauté_tchétchène en France ».

    Il suffit donc de deux crimes, commis tous les deux par une personne d’origine tchétchène, ces dernières années (l’attentat de l’Opéra en 2018, et celui de Conflans en 2020), plus une méga-rixe à Dijon cet été impliquant quelques dizaines de #Tchétchènes, pour que notre homme de gauche infère tranquillement un « #problème_tchétchène », impliquant toute une « communauté » de plusieurs dizaines de milliers de personnes vivant en France.

    « Ils sont arrivés en France car le gouvernement français, qui était très hostile à Vladimir Poutine, les accueillait à bras ouverts », nous explique Jean-Luc #Mélenchon. « À bras ouverts », donc, comme dans un discours de Le Pen – le père ou la fille. Et l’on a bien entendu : le motif de l’#asile est une inexplicable « hostilité » de la France contre le pauvre Poutine – et certainement pas une persécution sanglante commise par ledit Poutine, se déclarant prêt à aller « buter » lesdits Tchétchènes « jusque dans les chiottes ».

    « Il y a sans doute de très bonnes personnes dans cette communauté » finit-il par concéder à son intervieweur interloqué. On a bien lu, là encore : « sans doute ». Ce n’est donc même pas sûr. Et « de très bonnes personnes », ce qui veut dire en bon français : quelques-unes, pas des masses.

    « Mais c’est notre #devoir_national de s’en assurer », s’empresse-t-il d’ajouter – donc même le « sans doute » n’aura pas fait long feu. Et pour finir en apothéose :

    « Il faut reprendre un par un tous les dossiers des Tchétchènes présents en France et tous ceux qui ont une activité sur les réseaux sociaux, comme c’était le cas de l’assassin ou d’autres qui ont des activités dans l’#islamisme_politique (...), doivent être capturés et expulsés ».

    Là encore, on a bien lu : « tous les dossiers des Tchétchènes présents en France », « un par un » ! Quant aux suspects, ils ne seront pas « interpellés », ni « arrêtés », mais « capturés » : le vocabulaire est celui de la #chasse, du #safari. Voici donc où nous emmène le chef du principal parti d’opposition de gauche.

    16. Enfin, quand on écrira l’histoire de ces temps obscurs, il faudra aussi raconter cela : comment, à l’heure où la nation était invitée à s’unir dans le deuil, dans la défense d’un modèle démocratique, dans le refus de la violence, une violente campagne de presse et de tweet fut menée pour que soient purement et simplement virés et remplacés les responsables de l’#Observatoire_de_la_laïcité, #Nicolas_Cadène et #Jean-Louis_Bianco, pourtant restés toujours fidèles à l’esprit et à la lettre des lois laïques, et que les deux hommes furent à cette fin accusés d’avoir « désarmé » la République et de s’être « mis au service » des « ennemis » de ladite #laïcité et de ladite république – en somme d’être les complices d’un tueur de prof, puisque c’est de cet ennemi-là qu’il était question.

    Il faudra raconter que des universitaires absolument irréprochables sur ces questions, comme #Mame_Fatou_Niang et #Éric_Fassin, furent mis en cause violemment par des tweeters, l’une en recevant d’abjectes vidéos de décapitation, l’autre en recevant des #menaces de subir la même chose, avec dans les deux cas l’accusation d’être responsables de la mort de Samuel Paty.

    Il faudra se souvenir qu’un intellectuel renommé, invité sur tous les plateaux, proféra tranquillement, là encore sans être recadré par les animateurs, le même type d’accusations à l’encontre de la journaliste et chroniqueuse #Rokhaya_Diallo : en critiquant #Charlie_Hebdo, elle aurait « poussé à armer les bras des tueurs », et « entrainé » la mort des douze de Charlie hebdo.

    Il faudra se souvenir qu’au sommet de l’État, enfin, en ces temps de deuil, de concorde nationale et de combat contre l’obscurantisme, le ministre de l’Éducation nationale lui-même attisa ce genre de mauvaise querelle et de #mauvais_procès – c’est un euphémisme – en déclarant notamment ceci :

    « Ce qu’on appelle l’#islamo-gauchisme fait des ravages, il fait des ravages à l’#université. Il fait des ravages quand l’#UNEF cède à ce type de chose, il fait des ravages quand dans les rangs de la France Insoumise, vous avez des gens qui sont de ce courant-là et s’affichent comme tels. Ces gens-là favorisent une idéologie qui ensuite, de loin en loin, mène au pire. »

    Il faudra raconter ce que ces sophismes et ces purs et simples mensonges ont construit ou tenté de construire : un « #consensus_national » fondé sur une rage aveugle plutôt que sur un deuil partagé et un « plus jamais ça » sincère et réfléchi. Un « consensus » singulièrement diviseur en vérité, excluant de manière radicale et brutale tous les contre-pouvoirs humanistes et progressistes qui pourraient tempérer la violence de l’arbitraire d’État, et apporter leur contribution à l’élaboration d’une riposte anti-terroriste pertinente et efficace : le mouvement antiraciste, l’opposition de gauche, la #sociologie_critique... Et incluant en revanche, sans le moindre état d’âme, une droite républicaine radicalisée comme jamais, ainsi que l’#extrême_droite lepéniste.

    Je ne sais comment conclure, sinon en redisant mon accablement, ma tristesse, mon désarroi, ma peur – pourquoi le cacher ? – et mon sentiment d’#impuissance face à une #brutalisation en marche. La brutalisation de la #vie_politique s’était certes enclenchée bien avant ce crime atroce – l’évolution du #maintien_de l’ordre pendant tous les derniers mouvements sociaux en témoigne, et les noms de Lallement et de Benalla en sont deux bons emblèmes. Mais cet attentat, comme les précédents, nous fait évidemment franchir un cap dans l’#horreur. Quant à la réponse à cette horreur, elle s’annonce désastreuse et, loin d’opposer efficacement la force à la force (ce qui peut se faire mais suppose le discernement), elle rajoute de la violence aveugle à de la violence aveugle – tout en nous exposant et en nous fragilisant comme jamais. Naïvement, avec sans doute un peu de cet idéalisme qui animait Samuel Paty, j’en appelle au #sursaut_collectif, et à la #raison.

    Pour reprendre un mot d’ordre apparu suite à ce crime atroce, #je_suis_prof. Je suis prof au sens où je me sens solidaire de Samuel Paty, où sa mort me bouleverse et me terrifie, mais je suis prof aussi parce que c’est tout simplement le métier que j’exerce. Je suis prof et je crois donc en la raison, en l’#éducation, en la #discussion. Depuis vingt-cinq ans, j’enseigne avec passion la philosophie et je m’efforce de transmettre le goût de la pensée, de la liberté de penser, de l’échange d’arguments, du débat contradictoire. Je suis prof et je m’efforce de transmettre ces belles valeurs complémentaires que sont la #tolérance, la #capacité_d’indignation face à l’intolérable, et la #non-violence dans l’#indignation et le combat pour ses idées.

    Je suis prof et depuis vingt-cinq ans je m’efforce de promouvoir le #respect et l’#égalité_de_traitement, contre tous les racismes, tous les sexismes, toutes les homophobies, tous les systèmes inégalitaires. Et je refuse d’aller mourir au front pour une croisade faussement « républicaine », menée par un ministre de l’Intérieur qui a commencé sa carrière politique, entre 2004 et 2008, dans le girons de l’extrême droite monarchiste (auprès de #Christian_Vanneste et de #Politique_magazine, l’organe de l’#Action_française). Je suis prof et je refuse de sacrifier tout ce en quoi je crois pour la carrière d’un ministre qui en 2012, encore, militait avec acharnement, aux côtés de « La manif pour tous », pour que les homosexuels n’aient pas les mêmes droits que les autres – sans parler de son rapport aux femmes, pour le moins problématique, et de ce que notre grand républicain appelle, en un délicat euphémisme, sa « vie de jeune homme ».

    Je suis prof et j’enseigne la laïcité, la vraie, celle qui s’est incarnée dans de belles lois en 1881, 1882, 1886 et 1905, et qui n’est rien d’autre qu’une machine à produire plus de #liberté, d’#égalité et de #fraternité. Mais ce n’est pas cette laïcité, loin s’en faut, qui se donne à voir ces jours-ci, moins que jamais, quand bien même le mot est répété à l’infini. C’est au contraire une politique liberticide, discriminatoire donc inégalitaire, suspicieuse ou haineuse plutôt que fraternelle, que je vois se mettre en place, sans même l’excuse de l’efficacité face au terrorisme.

    Je suis prof, et cette #vraie_laïcité, ce goût de la pensée et de la #parole_libre, je souhaite continuer de les promouvoir. Et je souhaite pour cela rester en vie. Et je souhaite pour cela rester libre, maître de mes #choix_pédagogiques, dans des conditions matérielles qui permettent de travailler. Et je refuse donc de devenir l’otage d’un costume de héros ou de martyr taillé pour moi par des aventuriers sans jugeote, sans cœur et sans principes – ces faux amis qui ne savent qu’encenser des profs morts et mépriser les profs vivants.

    https://lmsi.net/Je-suis-prof

    #Pierre_Tevanian

    –—

    –-> déjà signalé sur seenthis :
    https://seenthis.net/messages/882390
    https://seenthis.net/messages/882583
    ... mais je voulais mettre le texte complet.

  • Poissy : un policier mis en examen pour le meurtre d’Olivio Gomes, Sihame Assbague, journaliste indépendante – ACTA
    https://acta.zone/poissy-un-policier-mis-en-examen-pour-le-meurtre-dolivio-gomes

    Dans la nuit du 16 au 17 octobre 2020, Olivio Gomes, un homme noir de 28 ans, a été tué par un policier blanc à Poissy. Les trois balles qui l’ont touché, notamment au niveau de l’omoplate et de l’épaule gauche, lui ont été fatales. D’après nos informations, confirmées par Le Parisien – dans un article qui constitue, par ailleurs, un cas d’école du « journalisme de préfecture » 1 -, le policier tireur a été mis en examen pour « homicide volontaire » . Une qualification très rare dans ce genre d’affaires. Il a également été placé sous contrôle judiciaire et fait l’objet d’une interdiction d’exercer la profession, de se rendre dans les Yvelines et de porter une arme.

    À Argenteuil, où Olivio a grandi, et dans le quartier Beauregard à Poissy, où il vivait, la nouvelle a été accueillie avec soulagement. Mais les questions et frustrations demeurent. La tristesse d’avoir perdu un être cher, un « exemple, aimé de tous » , se mêle à la colère froide suscitée par les circonstances de ce crime et son traitement médiatique.

    En effet, quelques heures seulement après le décès de ce père de famille, se fondant sans recul sur la version officielle, de nombreux journaux titraient « un chauffard abattu par un policier » et faisaient mention d’une « folle course-poursuite » . Tous ont repris la thèse selon laquelle le policier aurait agi en état de « légitime défense » face à un conducteur qui, nous a-t-on dit, voulait lui « foncer dessus » . Problème ? Tout ceci est mis en cause par les récits de deux témoins oculaires, passagers de sa voiture au moment des faits. Et les premiers éléments de l’enquête leur donnent plutôt raison.

    Que s’est-il passé ?

    https://seenthis.net/messages/882860

    #Olivio_Gomes #police #bac #mass_media #presse #Justice #blame_the_victim #criminalisation

  • Activist suspected in Portland shooting was fired at 30 times by police, official says | World news | The Guardian
    https://www.theguardian.com/world/2020/oct/14/activist-portland-shooting-michael-reinoehl-police

    Un escadron de la mort de la police avait criblé de balles l’activiste antifasciste, #Michael_Reinoehl. Il n’y a pas eu de sommations et on l’a abattu alors qu’il montait dans sa voiture sur le parking d’un appartement dans l’État de Washington. La police faisait partie d’une force d’intervention US Marshal sous les ordres directs de #Trump et de son procureur général #William_Barr.

    https://www.wsws.org/fr/articles/2020/10/20/pers-o20.html
    #meurtre #liquidation #militant #fascisme #anti-fascisme #extrême-droite

  • Après l’attentat de Conflans : ne pas se laisser diviser entre travailleurs ! | #editorial des bulletins d’entreprise LO
    https://www.lutte-ouvriere.org/editoriaux/apres-lattentat-de-conflans-ne-pas-se-laisser-diviser-entre-travaill

    L’assassinat d’un professeur de collège à #Conflans-Sainte-Honorine, décapité pour avoir montré des caricatures de #Charlie_Hebdo, nous plonge une fois de plus dans l’horreur. Une horreur et un dégoût redoublés par le fait que ces actes ignobles sont toujours utilisés par les racistes, les réactionnaires et les anti-immigrés avec, pour résultat, de diviser le monde ouvrier.

    L’acte est effroyable. Tout aussi glaçant est le processus qui a conduit et armé la main de ce jeune de 18 ans, d’origine tchétchène. Son passage à l’acte a, en effet, suivi une campagne d’agitation et de manipulation, orchestrée par la mouvance de l’#islamisme intégriste. Celle-ci a voué le professeur à la vindicte publique, en faisant passer un cours sur la liberté d’expression pour du #racisme et de l’#islamophobie.

    Ces agitateurs intégristes prétendent parler au nom des musulmans qui peuvent, à juste titre, se sentir stigmatisés et rejetés. Mais ils ne visent qu’une chose : imposer leur ordre moral à tous, à commencer par les #musulmans.

    Ils ne s’en prennent pas seulement à ce qui est enseigné à l’école. Ils veulent aussi régir la vie des musulmans et menacent qui ne suit pas le ramadan comme ils le voudraient ou qui boit de l’alcool. Ils font pression sur les musulmanes qui ne se conforment pas à leurs règles. Demain, s’ils s’enhardissent, ils s’opposeront à ceux qui écoutent de la musique ou jouent au foot. C’est ce qu’ils font dans certains pays où ils sont au pouvoir. C’est ce que l’on a vu dans les régions dominées par Daech.

    La dictature qu’ils préparent pèsera avant tout sur les classes populaires. Comme le monde occidental a ses #fascistes d’extrême droite, le monde musulman a les siens. Quand l’extrême droite identitaire utilise la peur de l’étranger, les #islamistes se servent de la religion pour dominer ce qu’ils considèrent être leur communauté.

    Les deux s’alimentent mutuellement, les deux sont des ennemis mortels des travailleurs. Et les deux sont prêts à creuser un fossé de sang et à s’imposer par la terreur. On l’a vu en Europe dans les années 1930 avec Hitler, en Algérie pendant la décennie noire des années 1990 et, récemment, en Syrie et en Irak avec Daech.

    Qu’ils viennent des rangs de l’extrême droite ou des intégristes, ceux qui prétendent limiter les libertés veulent faire de nous des moutons dociles, soumis à eux, mais aussi au patronat. Il ne s’agit pas seulement de discuter où se trouvent les limites de la #liberté_d’expression. Ce sont nos droits et nos intérêts de travailleurs qui sont menacés : la liberté de contester, de s’organiser, de revendiquer et de faire grève.

    Alors, les travailleurs doivent combattre ces deux ennemis en faisant bloc en tant que prolétaires, en s’appuyant sur leurs intérêts communs d’exploités et sur les combats qu’ils ont à mener ensemble, jour après jour.

    Comme tous les autres dirigeants politiques, Macron a appelé à l’#unité_nationale et au respect de la République. Mais derrière ces prétendues #valeurs_républicaines, il y a un ordre social contraire aux valeurs de liberté, d’égalité et de fraternité.

    La société ne se délite pas seulement sous les coups de boutoir de militants réactionnaires. Ces derniers ne font qu’exploiter politiquement le désarroi et l’abandon dans lesquels la crise, le chômage de masse et la misère plongent des millions de femmes et d’hommes. Les frustrations et la haine qui en découlent renouvellent en permanence le terreau de l’#intolérance, de l’#individualisme et de la violence, surtout dans les périodes de crise.

    L’ordre social capitaliste et, plus encore, la crise créent les éléments d’un engrenage mortel. Et la politique gouvernementale, systématiquement favorable aux plus riches et à la bourgeoisie contre les travailleurs, ne fait qu’accélérer le mécanisme.

    Car, que va-t-il se passer demain ? À cause de crapules fanatisées ou embrigadées par les filières terroristes, combien y aura-t-il de contrôles au faciès, de jeunes de banlieue confrontés au racisme et à la suspicion généralisée ? À cause de terroristes sous statut de réfugiés, combien de migrants fuyant les guerres et les persécutions seront rejetés ? Seuls les travailleurs, unis par-delà les différences d’origine, de nationalité et de religion, peuvent casser cet engrenage.

    La conscience de pouvoir et de devoir, ensemble, changer la société doit guider les travailleurs, car le fanatisme religieux, le #fondamentalisme, la terreur fasciste, sortent malheureusement, comme des #bêtes_immondes, du ventre de notre société. Pour mettre fin à des actes barbares tels que le #meurtre de Conflans, c’est la société elle-même qu’il nous faudra transformer.

    #capitalisme #révolution #réaction #obscurantisme

  • La déclaration de Great Barrington : Un manifeste de la mort - World Socialist Web Site
    https://www.wsws.org/fr/articles/2020/10/17/pers-o17.html
    https://www.wsws.org/asset/300fce5a-27d2-4f87-b249-801616bad713?rendition=image1280

    Cette semaine, la Maison-Blanche a officiellement adopté une politique d’#immunité_collective dans le cadre de la #pandémie de #COVID-19, déclarant en substance que l’#infection massive de la population est un bien positif.

    Cela a pris la forme d’une approbation publique de la Déclaration de Great Barrington, un manifeste de l’Institut américain de recherche économique pour le marché libre, qui appelle à l’abandon de toutes les mesures qui visent à contenir la pandémie. La déclaration a été élaborée en étroite coordination avec Scott Atlas, conseiller de Trump.

    La déclaration de huit paragraphes ne cite aucune donnée scientifique. Elle ne tente pas sérieusement de défendre son point de vue. Il s’agit plutôt d’une série d’affirmations construites rétroactivement selon les exigences de la grande entreprise américaine pour l’abandon des mesures de santé publique visant à contenir la pandémie : « Les écoles et les universités devraient être ouvertes à l’enseignement en personne. Les activités extrascolaires, telles que le sport, devraient être reprises. Les jeunes adultes à faible risque devraient travailler normalement, plutôt que de chez eux. Les restaurants et d’autres entreprises devraient ouvrir. Les arts, la musique, le sport et les autres activités culturelles devraient reprendre ».

    Le document ne mentionne aucune mesure de #santé publique pour contenir la maladie, que ce soit le dépistage, la recherche des contacts ou la mise en quarantaine des malades. Ce n’est pas une omission, c’est #délibéré. En effet, du point de vue des auteurs de l’article, l’infection massive, avec la #mort massive qui s’ensuit, est un bénéfice à rechercher.

    Avant-hier soir, à la télévision, on a demandé à Trump si la politique du gouvernement était en fait l’« immunité collective ». Il a répondu en précisant que c’était le cas, répétant à nouveau le refrain proposé pour la première fois par Thomas Friedman du New York Times selon lequel « le remède ne peut pas être pire que le problème lui-même » – c’est-à-dire qu’il n’y aura pas de retour aux restrictions de l’activité économique qui visent à ralentir la #propagation du virus.

    L’adoption officielle de l’immunité collective est un aveu que le sabotage des efforts de dépistage par la Maison-Blanche, son refus de fournir des équipements de protection et sa campagne de #désinformation visaient délibérément à sacrifier des vies humaines au nom de « l’économie ».

    Plus important encore, l’adoption de la déclaration par la Maison Blanche est une déclaration d’intention pour le #meurtre de masse. Elle va laisser des centaines de milliers de personnes supplémentaires mourir en pleine résurgence mondiale de la pandémie suite à l’abandon prématuré des fermetures d’entreprises et d’autres efforts pour contenir la pandémie.

    La stratégie d’immunité collective a suscité à juste titre des condamnations cinglantes de la part des principales organisations de santé publique du monde. Le 15 octobre, le journal médical britannique The Lancet a publié une déclaration condamnant cette politique comme « une dangereuse erreur non étayée par des preuves scientifiques ».

    Le journal a affirmé qu’« aucune preuve n’existe d’une immunité protectrice durable contre le SRAS-CoV-2 à la suite d’une infection naturelle ». Par conséquent, « une telle stratégie ne mettrait pas fin à la pandémie de COVID-19, mais entraînerait des épidémies récurrentes, comme ce fut le cas pour de nombreuses maladies infectieuses avant l’avènement de la vaccination ».

    The Lancet a conclu de manière décisive : « Les preuves sont très claires : le contrôle de la propagation communautaire de COVID-19 est le meilleur moyen de protéger nos sociétés et nos économies jusqu’à ce que des vaccins et des thérapeutiques sûrs et efficaces arrivent dans les prochains mois ».

  • L’Espagne juge le meurtre de jésuites au Salvador
    https://www.justiceinfo.net/fr/tribunaux/tribunaux-nationaux/45346-espagne-juge-meurtre-jesuites-salvador.html

    Le verdict dans le procès du colonel Inocente Orlando Montano est attendu aujourd’hui à Madrid. L’ancien vice-ministre salvadorien de la Sécurité publique risque la prison à vie s’il est reconnu coupable du meurtre de six prêtres jésuites, d’une cuisinière et de sa fille, le 16 novembre 1989, pendant la guerre civile au Salvador.

    Jusqu’en 2014, l’Espagne pouvait lancer des poursuites pénales sur des crimes contre l’humanité, quel que soit le lieu dans le monde où ces crimes avaient été commis. L’affaire Inocente Orlando Montano, qui a été extradé des États-Unis vers l’Espagne en décembre 2017, a pu s’ouvrir grâce à ce principe dit de « pleine compétence universelle ». Depuis 2014, une nouvelle loi stipule que les victimes doivent être de nationalité espagnole pour pouvoir porter plainte devant une juridiction (...)

    #Tribunaux_nationaux

  • Collateral Murder
    https://lundi.am/Collateral-Murder

    « Look at these dead bastards ! »
    « It’s Their Fault for Bringing Their Kids into a Battle. »

    Comme une sombre rengaine, les mots et les rires de la vidéo "Collateral Murder", publiée par WikiLeaks le 5 avril 2010, nous remplissent la tête et ne nous quittent plus. Ces phrases prononcées à la radio par l’équipage d’un hélicoptère de combat Apache et son commandement, empruntes de mépris pour la vie humaine, ont révélé au monde la banalité des horreurs de ces guerres des Etats-Unis en Irak et en Afghanistan, où les crimes de guerre sont perpétrés comme dans un jeu vidéo.

    #wikileaks #Julien_Assange #meurtres_collatéraux

  • Le discours choc de la sœur de Jacob Blake, gravement blessé par la police à Kenosha - video dailymotion
    https://www.dailymotion.com/video/x7vsd7i


    https://s1.dmcdn.net/v/SQIpU1VHa3PNdtFmE/526x297

    Après le drame qui a touché Jacob Blake, un Afro-Américain qui s’est fait tirer sept fois dessus dans le dos par la police à Kenosha (Wisconsin), sa sœur Letetra Widman a pris la parole pour crier sa colère. Dans un discours émouvant, elle a évoqué les nombreuses morts de personnes noires tuées à cause du racisme et des violences policières aux Etats-Unis.

  • https://tradfem.wordpress.com/2020/07/21/changer-le-monde-pour-contrer-les-peres-assassins
    PAMELA CROSS, juriste militante canadienne : "À mon avis, si le meurtre d’un enfant par son père était vraiment « dévastateur » et « incompréhensible », les réformes que les mères et les défenderesses des droits des femmes réclament depuis des décennies auraient déjà été apportées."
    #droitsd'accès, #Loisurledivorce, #meurtresd'enfants, #NorahetRomyCarpentier, #PamelaCross, #pèresassassins, #violencefamiliale

  • #Santé_mentale des #migrants : des #blessures invisibles

    Une prévalence élevée du trouble de stress post-traumatique et de la #dépression

    Les #migrations, les migrants et leur #santé ne peuvent être compris indépendamment du contexte historique et politique dans lequel les mouvements de population se déroulent, et, ces dernières décennies, les migrations vers l’#Europe ont changé. L’#immigration de travail s’est restreinte, et la majorité des étrangers qui arrivent en #France doivent surmonter des obstacles de plus en plus difficiles, semés de #violence et de #mort, au fur et à mesure que les #frontières de l’Europe se ferment. Ils arrivent dans des pays où l’#hostilité envers les migrants croît et doivent s’engager dans un processus hasardeux de #demande_d’asile. Ce contexte a de lourds effets sur la santé mentale des migrants. Ces migrants peuvent être des adultes ou des enfants, accompagnés ou non d’un parent – on parle dans ce dernier cas de mineur non accompagné*. S’il n’existe pas de pathologie psychiatrique spécifique de la migration1 et que tous les troubles mentaux peuvent être rencontrés, il n’en reste pas moins que certaines pathologies sont d’une grande fréquence comme le trouble de stress post-traumatique et la dépression.

    Facteurs de risque

    Pour approcher la vie psychique des migrants et les difficultés auxquelles ils font face, nous distinguerons quatre facteurs à l’origine de difficultés : le vécu prémigratoire, le voyage, le vécu post-migratoire, et les aspects transculturels.

    Vécu prémigratoire

    Avant le départ, de nombreux migrants ont vécu des événements adverses et traumatiques : #persécution, #guerre, #violence_physique, #torture, violence liée au #genre (#mutilations, #viols), #deuils de proches dans des contextes de #meurtre ou de guerre, #emprisonnement, famine, exposition à des scènes horribles, etc. Les violences ont fréquemment été dirigées contre un groupe, amenant une dislocation des liens communautaires, en même temps que des liens familiaux. Ces traumatismes ont un caractère interhumain et intentionnel, et une dimension collective, témoignant d’une situation de violence organisée, c’est-à-dire d’une relation de violence exercée par un groupe sur un autre.2, 3 Cette situation de traumatismes multiples et intentionnels est fréquemment à l’origine d’une forme particulière de troubles appelée trouble de stress post-traumatique complexe. Les nombreuses pertes, deuils et pertes symboliques fragilisent vis-à-vis du risque dépressif.

    Départ et #voyage

    La migration est en elle-même un événement de vie particulièrement intense, obligeant à des renoncements parfois douloureux, déstabilisante par tous les remaniements qu’elle implique. Ce risque est pris par ceux qui partent avec un #projet_migratoire élaboré. En revanche, l’exil dans une situation critique est plus souvent une fuite, sans projet, sans espoir de retour, bien plus difficile à élaborer.1 Vers une Europe dont les frontières se sont fermées, les routes migratoires sont d’une dangerosité extrême. Nous connaissons tous le drame de la Méditerranée, ses morts en mer innombrables.4 Les adolescents venant seuls d’Afghanistan, par exemple, peuvent mettre plusieurs années à arriver en Europe, après des avancées, des retours en arrière, des phases d’incarcération ou de #prostitution. Durant ce long voyage, tous sont exposés à de nouvelles violences, de nouveaux traumatismes et à la traite des êtres humains, surtout les femmes et les enfants.

    Vécu post-migratoire

    Une fois dans le pays hôte, les migrants se retrouvent coincés entre un discours idéal sur l’asile, la réalité d’une opinion publique souvent hostile et des politiques migratoires contraignantes qui les forcent sans cesse à prouver qu’ils ne sont pas des fraudeurs ou des criminels.5 Les réfugiés qui ont vécu un traumatisme dans le pays d’origine vivent donc un nouveau traumatisme : le déni de leur vécu par le pays d’accueil. Ce déni, qui est pathogène, prend de multiples aspects, mais il s’agit d’être cru : par les agents de l’Office de protection des réfugiés et des apatrides (Ofpra) qui délivre le statut de réfugié, par les conseils départementaux, qui décident, avec un certain arbitraire, de la crédibilité de la minorité des jeunes non accompagnés. L’obtention d’un statut protecteur dans un cas, l’obligation de quitter le territoire dans l’autre. Mais raconter en détail des événements traumatiques que l’on n’a parfois jamais pu verbaliser est difficile, parfois impossible. Lorsque des troubles de la mémoire ou des reviviscences traumatiques les empêchent de donner des détails précis, on leur répond...

    #migration #mental_health #trauma #depression #violence

    https://www.larevuedupraticien.fr/article/sante-mentale-des-migrants-des-blessures-invisibles

  • Témoins au féminin
    https://laviedesidees.fr/Giovanna-Parmigiani-Feminism-Violence-Representation-Modern-Italy.html

    À propos de : Giovanna Parmigiani, Feminism, #violence and Representation in Modern Italy. « We are Witnesses, Not Victims », Bloomington, Indiana University Press. Une enquête sur les violences faites aux femmes en #Italie et sur l’engagement des militantes montre comment la lutte porte aussi sur les représentations culturelles, politiques, esthétiques et éthiques.

    #Société #féminisme #militantisme
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20200717_parmigiani.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20200717_parmigiani.docx

    • En Italie, entre 2012 et 2017, une femme est tuée presque tous les deux jours par son compagnon (p. 1, note 1). Pour désigner ce phénomène, on peut employer le terme de « #féminicide », qui renvoie au meurtre d’une femme en raison de sa condition de femme. Ce terme permet de produire une analyse structurelle et politique des #meurtres : en français, par exemple, il est de plus en plus mobilisé pour remplacer le terme de « crime passionnel », qui romantise la #violence et met l’accent sur des facteurs individuels et psychologiques plutôt que sur des facteurs sociaux, comme les rapports de #genre, l’éducation des hommes cisgenres à la violence, la #structuration du couple hétérosexuel et de la #famille, etc. En Italie, si le terme « féminicide » suscite de nombreuses résistances antiféministes (liées au refus d’avoir une analyse critique et structurelle des violences faites aux #femmes), il s’impose néanmoins dans le débat public au cours des années 2010, et la conscience de l’ampleur des violences faites aux femmes se généralise. De nombreuses initiatives, associations, collectifs et campagnes féministes naissent pendant cette période.

  • Ethiopia Cracks Down Following Popular Singer’s Killing

    Lift Internet Shutdown, Avoid Force at Protests, Free Unjustly Held Politicians

    Protests erupted in several towns across Ethiopia in response to the June 29 killing of #Hachalu_Hundessa, a popular #Oromo singer whose songs captured the struggles and frustrations of the Oromo people during the 2014-2018 anti-government protest movement. Unidentified gunmen shot Hundessa dead in Addis Ababa, the capital. Hundessa’s uncle was also reportedly killed in Ambo today.

    While police claim to have made arrests in connection with Hundessa’s killing, the government’s responses to the protesters risks enflaming long-simmering tensions. On Tuesday morning the government cut internet services across the country, which only amplified concerns that people are being silenced and that human rights abuses and communal violence, having rocked the country last year, are not being addressed.

    The internet shutdown has also made it impossible to access information on those killed and injured in the protests. One witness told us: “There is no network. We don’t have any information flow … the government only tells people [they] are investigating, and so everyone is hypothesizing based on current affairs.”

    Despite the blackout, credible reports of violence are emerging. A regional government spokesman said that three explosions shook the capital, Addis Ababa, the morning after Hundessa’s killing. Meanwhile, independent media reports suggest that more than 80 people have been killed in the Oromia region and a further 10 people were killed in Adama after a government building was set on fire.

    An activist in Nekemte, western Oromia, told Human Rights Watch that three protesters were killed after Oromia police opened fire. A doctor in the town of Dire Dawa said that the hospital had received eight people with gunshot injuries after reportedly being fired at by security forces, and that two soldiers had also been shot and injured.

    The government’s response took another worrying turn when authorities arrested political opposition leaders Jawar Mohammed and Bekele Gerba of the Oromo Federalist Congress party, late Tuesday morning after a reported standoff with security forces over Hundessa’s funeral site. Jawar and Bekele were initially held incommunicado, but are now known to be held in Sostegna police station in Addis Ababa. While their families have now been allowed to bring them food and medicine, it is unclear if they have access to a lawyer. Bekele’s son and daughter were also arrested, and their whereabouts remain unknown.

    The media has also reported that another prominent political opposition leader, Eskinder Nega, has also been detained.

    Rather than restoring calm, the authorities’ internet shutdown, apparent excessive use of force, and arrest of political opposition figures could make a volatile situation even worse. The government should take prompt steps to reverse these actions or risk sliding deeper into crisis.

    https://www.hrw.org/news/2020/07/01/ethiopia-cracks-down-following-popular-singers-killing
    #assassinat #musique #Ethiopie #musique_et_politique #décès #mort #meurtre

    ping @sinehebdo

  • La Chine vend les organes de ses prisonniers Ouïgours aux riches - VICE
    https://www.vice.com/fr/article/bv8m3q/la-chine-vend-les-organes-halal-de-ses-prisonniers-ouigours-riches

    Les acheteurs viennent du monde entier pour ces greffes d’organes. Les prélèvements servent en partie à alimenter les besoins de la Chine puis de ceux qui ont les moyens de se les payer à l’étranger. Les porteurs étant musulmans, la Chine cible principalement le monde musulman pour acheter ces organes qui n’ont jamais eu d’alcool ou de porc dans le sang.

    « Selon plusieurs de nos sources, un prisonnier d’une trentaine d’années rapporterait un demi-million de dollars à lui seul et plusieurs de ses organes »

    Erkin Sidick, conseiller du World Uyghur Congress, est l’un des premiers à avoir alerté sur l’existence d’organes halal en croisant plusieurs sources : « Dernièrement, on m’a appris que le Parti communiste chinois avait récemment commencé à transporter une grande quantité d’organes de Ouïghours entre Shanghai et l’Arabie saoudite. Le gouvernement chinois fait la promotion de ces organes halal en Arabie Saoudite pour attirer les musulmans. » Selon lui, il s’agirait de l’une des raisons pour lesquelles plusieurs pays du Golfe (Koweït, Oman, Qatar, Arabie Saoudite, Émirats arabes Unis) ont signé une lettre de soutien à la politique chinoise.

    En tant qu’étranger, il est très facile de trouver sur Internet des offres attrayantes dans des cliniques privées. De nombreux hôpitaux tentent de séduire les patients internationaux à l’aide de publicités en anglais et les personnes de confessions musulmanes sont directement ciblées. L’hôpital Tongshantang de Pékin propose sur plusieurs de ses sites des transplantations de rein et se vante sur sa chaîne Youtube d’avoir un espace de prière pour musulmans ainsi qu’une cantine halal pour ses patients.

  • La notion d’"identité" a été accréditée comme naturelle et non confrontante dans la mesure où tout un chacun est censé - dans notre univers libéral - être en droit de se l’accorder, même quand il s’agit de l’identité d’un groupe opprimé qui résiste à cette appropriation. (Rappel de l’affaire Rachel Dolezal)
    Je suggère qu’une approche plus politique, pour dépasser les soliloques actuels, serait de se référer à la liberté d’association, qui a l’avantage de posséder une définition, une histoire et une reconnaissance dans les instruments juridiques nationaux et internationaux.
    Et je propose que, faute de « comprendre » (un problème apparemment au café du commerce que constitue seenthis), l’on se documente sur ce que font des agresseurs sexistes reconnus avec le principe de l’autodéclaration de sexe (blog Madam Nomad : https://wp.me/p2xXH6-14v) On sera peut-être moins arrogant à départager les droits auxquels les femmes devraient avoir droit... #transgenrisme #meurtres #viols #libertéd'association #identité #Droitsdel'homme

    • Et je propose que, faute de « comprendre » (un problème apparemment au café du commerce que constitue seenthis)

      Nan, mais sérieux ? Mais casse-toi si ça te va pas que des personnes doutent et se posent des questions de manière accueillante et soient pas en adoration devant tes positions, mec !

      On sera peut-être moins arrogant à départager les droits auxquels les femmes devraient avoir droit...

      Elle est chez qui la violence là ? Elle est chez qui l’arrogance ? C’est trop facile de balancer des trucs comme ça.
      (Ca me fait trop chier d’intervenir comme ça, mais quand je vois ce que ce refus de la discussion sereine et ces mots peuvent produire, avec l’autoexclusion de féministes, ça me saoule grave.)

    • Elle est chez certains d’entre vous, la violence.
      « questions accueillantes, discussion sereine »... L’autocongratulation façon Macron fait école, dites donc... Poses-toi donc la question, Gata, de comment tu ressentirais l’expression comme « des réunions vulvaires » si tu en avais une... Si je te parlais d’expression « scrotale » plutôt que « masculine », est-ce que ce serait plus clair ? Basta !

    • Et moi, je te parle d’une femme à qui tu balances qu’elle serait une « courroie de transmission » de trucs que tu trouves naze, mais que si elle vous lisait, elle comprendrait enfin ; et tu lui balances ensuite une phrase de Leonard Cohen complètement hors de propos, avant de l’ignorer totalement depuis une semaine.
      C’est ça ton féminisme, et ton empathie ? De qui tu prends soin en faisant ça ici ?
      (https://seenthis.net/messages/859349#message859389)

    • (Mais fais ce que tu veux de ça, en fait. Moi, je suis pas une personne importante ici, tu peux bien rester et ne pas faire attention à mon cercle underground de l’amicale des SAM, Seenthis avec Macron.)

      On ne sait toujours pas ce que tu trouves violent, et comme on n’est pas dans une cour d’école, je vais arrêter là.

      Si je me permets de te répondre comme ça, c’est surtout que tu n’as pas l’air de prendre des femmes au sérieux.
      J’ai trouvé ça affiché chez une copine féministe (enfin, je sais pas si tu la trouverais assez féministe pour toi) et ça m’a fait penser à toi :

      Un de mes principes féministes : ne jugez jamais un homme selon sa manière de traiter les femmes qui le chouchoutent et l’admirent. Regardez plutôt comment un homme réagit quand une femme le contrarie, lui fait face, ou lui pose une limite. Là vous saurez qui il est.

      https://twitter.com/RaphaelleRL/status/1225507170290216962
      Traduit de :

      Here’s one feminist life rule of mine: I never judge a man based on how he treats women when they are coddling or praising him. Look closely at how a man reacts when a woman displeases him, stands up to him, or draws a boundary with him, and you will find out who he really is.

      https://twitter.com/Iconawrites/status/1223022451690561536

  • Rubber Bullets and Beanbag Rounds Can Cause Devastating Injuries - The New York Times
    https://www.nytimes.com/2020/06/12/health/protests-rubber-bullets-beanbag.html

    ... research increasingly shows they can seriously injure and disable people — and sometimes even kill.

    A 2017 analysis# published in the British Medical Journal of several decades of the use of rubber bullets, beanbag rounds and other projectiles during arrests and protests found that 15 percent of people who were injured were left with permanent disabilities and 3 percent of those who were injured died. Of those who survived, 71 percent had severe injuries, with their extremities most frequently impacted.

    [...]

    The main effect of clouds of tear gas, mace or pepper spray — chemicals known as lacrimating agents that were also used to clear the park in Washington — is to cause watering of the eyes and irritate sensitive tissues in the nose, mouth and lungs. But if deployed in an enclosed space, tear gas and pepper spray have a more severe impact. Injuries can include chemical burns, blurred vision, corneal erosions, ulcers, nerve damage, abnormal growth of tissue on the eyes (which may need to be removed surgically) and permanent vision loss.

    The chemical frequently used in pepper spray — oleoresin capsicum (OC) — is a natural oily resin found in hot peppers, including cayenne and other chili peppers. Because OC is often used in the foods we eat, it is considered by many to have minimal toxicity when used as a lacrimating agent.

    That’s simply not accurate, said Dr. Mary K. Daly, chief of ophthalmology at the V.A. Boston Healthcare System. “There have been a number of reports of serious eye complications from OC,” Dr. Daly said. “It can cause permanent vision loss and chronic symptoms. The risks are not only to the eyes. There has also been a death reported in the literature, which was attributed to OC exposure in a person with asthma.”

    [...]

    Doctors worry that lacrimating agents and gases may also increase the risk of spreading the coronavirus as protests occur during the pandemic. Yet the police in Seattle have reportedly sprayed a child in the face and New York City officers have yanked a young man’s protective face mask and pepper-sprayed him while he held his arms in the air.

    A 2011## study of the use of tear gas in regular military trainings noted that exposure to the chemical could have long-term effects and recommended reducing personnel exposure to tear gas. Several health and human rights experts say the substance should also be removed from domestic law enforcement use.

    #létalité #armes #santé #manifestations #décès #meurtres #handicaps

    # Death, injury and disability from kinetic impact projectiles in crowd-control settings: a systematic review | BMJ Open
    https://bmjopen.bmj.com/content/7/12/e018154

    ## Evaluation of CS (O-Chlorobenzylidene Malononitrile) Concentrations During U.S. Army Mask Confidence Training - PubMed
    https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/22010329

  • Sicilia, ucciso per aver difeso i #braccianti dai caporali: la storia di Adnan

    #Adnan_Siddique, pakistano di 32 anni è stato ucciso la sera del 3 giugno scorso a #Caltanissetta, nella sua abitazione di via San Cataldo. La sua colpa? Quella di essersi fatto portavoce di alcuni braccianti vittime di caporalato. Secondo la ricostruzione dei carabinieri, la vittima qualche mese fa aveva accompagnato un suo connazionale a sporgere denuncia, perché quest’ultimo non era stato pagato per il lavoro prestato e alla richiesta di chiarimenti sarebbe stato aggredito. Da allora aveva iniziato a ricevere minacce, tutte denunciate. Fino alla sera dell’omicidio. Adesso sta prendendo piede l’ipotesi che gli aggressori operassero una mediazione tra datori di lavoro e connazionali, per procacciare manodopera nel settore agricolo. In cambio avrebbero trattenuto una percentuale sulla loro paga.

    Ieri è stata eseguita l’autopsia su cadavere dal medico legale. Cinque i fendenti: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale. Trovata poche ore dopo il delitto, dai carabinieri anche l’arma utilizzata, un coltello di circa 30 centimetri. Il gip Gigi Omar Modica ha interrogato ieri i quattro fermati per l’omicidio: Muhammad Shoaib, 27 anni, Alì Shujaat, 32 anni, Muhammed Bilal, 21 anni, e Imrad Muhammad Cheema, 40 anni e il connazionale Muhammad Mehdi, 48 anni, arrestato per favoreggiamento. Restano in carcere i primi quattro, il quinto è stato rimesso in libertà con l’obbligo di firma. Secondo la ricostruzione dei carabinieri la vittima, che per lavoro si occupava di riparazione e manutenzione di macchine tessili, aveva presentato denuncia per minaccia nei confronti dei suoi carnefici. Intanto, dall’autopsia è emerso che la vittima è stata colpita con cinque coltellate in diverse parti del corpo: due alle gambe, uno alla schiena, alla spalla e al costato. Quest’ultimo è risultato quello fatale. I carabinieri, poche ore dopo il delitto, hanno trovato anche il coltello, lungo 30 centimetri, utilizzato dai presunti assassini.

    Adnan Siddique era arrivato in Italia dal Pakistan cinque anni fa con la speranza di costruirsi un futuro. A Lahore, metropoli pakistana di oltre 11 milioni di abitanti, viveva con il padre e la madre e altri 9 fratelli. Una famiglia povera che riponeva in Adnan tante aspettative. A Caltanissetta lavorava come manutentore di macchine tessili e si era fatto degli amici.

    “Quasi ogni giorno Adnan passava dal bar Lumiere nel centro storico, ordinava un caffè o una coca cola. E con il suo carattere limpido, educato, gentile, si era fatto subito amare dai proprietari: Giampiero Di Giugno, la moglie Piera e il figlio Erik. Tanto che a volte lo avevano anche invitato a pranzo da loro. In quelle ore insieme, Adnan aveva raccontato dei suoi sogni ma anche delle sue preoccupazioni per via di un gruppo di connazionali che lo tormentavano”, riporta l’Ansa. Adnan si era confidato con il cugino, che vive in Pakistan. “Aveva difeso una persona e lo minacciavano per questo motivo – riferisce Ahmed Raheel – Voleva tornare in Pakistan per la prima volta dopo tanti anni per una breve vacanza ma non lo rivedremo mai più. Adesso non sappiamo neanche come fare tornare la salma in Pakistan. Noi siamo gente povera, chiediamo solo che venga fatta giustizia”.

    https://www.tpi.it/cronaca/sicilila-ucciso-difeso-braccianti-caporali-20200608616384
    #caporalato #décès #meurtre #assassinat #agriculture #Italie #Sicile

  • Guatemala : un expert en médecine naturelle et guide spirituel maya, correspondant de diverses universités de pharmacie brûlé vif pour sorcellerie

    Quemaron vivo a un experto en medicina natural en Guatemala por supuesta brujería
    https://www.elnacional.com/mundo/queman-vivo-a-un-experto-en-medicina-natural-en-guatemala-por-supuesta-b
    (je ne garde pas la photo)

    Domingo Choc Che, conocido como Abuelo Domingo, era miembro de un equipo de investigación farmacéutica conformado por científicos del University College de Londres, Reino Unido, y de la universidad de Zúrich, Suiza

    Un grupo de personas linchó y quemó vivo a un experto en medicina natural y guía espiritual maya el pasado 6 de junio en una aldea cerca del municipio de San Luis, en Guatemala, porque supuestamente practicaba la brujería.

    Domingo Choc Che, conocido como Abuelo Domingo, era miembro de un equipo de investigación farmacéutica conformado por científicos del University College de Londres, Reino Unido, y las universidades de Zúrich, Suiza, y del Valle, Guatemala.

    De acuerdo con lo reseñado por RT, el hombre fue muerto por sus vecinos debido a que creían que había causado daño a varios miembros de la comunidad y los habitantes de esa aldea. Durante el suceso, impidieron que las fuerzas de orden público accedieran al lugar.

    • Qui était Domingo Choc Che,

      Domingo Choc Che, guía espiritual asesinado en Guatemala | En Profundidad | teleSUR
      https://www.telesurtv.net/telesuragenda/guatemala-domingo-choc-che-asesinato-guia-espiritual-20200609-0059.html

      Domingo formaba parte de investigaciones científicas sobre medicina maya, que en colaboración con universidades de Suiza e Inglaterra, buscaban la creación de documentos y libros sobre el antiguo conocimiento maya de las medicinas naturales.

      El asesinato de Domingo Choc Che, el pasado 6 de junio en la comunidad de San Luis, departamento de Petén en Guatemala, despertó la indignación de la población, quienes consideran que su muerte violenta representa no solo una injusticia, sino la máxima expresión de la discriminación y los estigmas por cuestión de etnia y fe.

      Reconocido científico maya, Choc Che era un experto en medicina natural y trabajaba en la Asociación de Concejos de Guías Espirituales Releb’Aal Saq’E (ACGERS).

      Considerado un experto en medicina natural maya, Choc Che tenía un “conocimiento profundo de las plantas, de las oraciones que hacía, una formación que traía desde su infancia, de sus abuelos maternos y que fue cultivando hasta convertirse en un experimentado”, explica el también guía espiritual Rolando Quib en entrevista exclusiva para teleSUR.

      Según recuerda Quib, quien conoció a Domingo hace más de 15 años atrás, “era una persona muy humilde, muy trabajadora, un médico maya muy entregado al conocimiento de las plantas medicinales, a la atención comunitaria, pero sobretodo, también era un campesino de su trabajo, que cultivaba y vivía con ello”.

      Compromiso con el conocimiento
      Refiere Quib que, en los últimos años, Domingo estaba en un proyecto científico internacional en el que comenzaba a revalorizar o socializar el conocimiento que tienen los médicos quekchíes, grupo étnico al norte de Guatemala. 

      Al respecto, la antropóloga médica de la Universidad del Valle de Guatemala, Dra. Mónica Berger, afirma que Domingo formaba parte de investigaciones científicas sobre medicina maya, que en colaboración con universidades de Suiza e Inglaterra, buscaban la creación de documentos y libros sobre el ancestral conocimiento maya de las medicinas naturales.

      Un vasto conocimiento que, al decir de Quib, Choc Che ponía a disposición del bien de ayudar a las personas, de contribuir con el saber popular, que utilizaba para “que la humanidad no estuviera enferma, que se curara y cuidara”. 

      Según el también guía espiritual, José Che, Domingo tenía más de 20 años de ser Ajilonel (herbalista), y realizaba largos y lejanos recorridos en busca de las plantas con las que sanaba.

      Mientras, Rolando Quib recuerda que las dolencias tratadas por Domingo podían ser físicas como la diabetes, varios tipos de cáncer, el susto o el miedo, fracturas, la epilepsia, e incluso se realizan operaciones espirituales en diversas partes del cuerpo, “no importando que grupos de creencias tengan”.

      Reconocimiento a su labor
      Dentro del mundo de los guías espirituales, de los médicos mayas, lo conocían como el “Abuelo Domingo”, y dentro del concepto quekchí, lo llamaban el “Abuelo Ku” por sus amplios conocimientos.

      Además, por su respeto a la madre naturaleza, a su comunidad, a las personas con las que convivía, así como a sus pacientes y a su forma de actuar. Un guía espiritual guatemalteco a quien, afirma Quib, “le tenían mucho respeto”.

      Trasfondo de violencia
      Sin embargo, el aprecio y reconocimiento hacia su profesión no era generalizado. Domingo vivía en la aldea Chimay, en ella, según explica a Rolando Quib, “existían diferentes grupos religiosos que le molestaba mucho su trabajo con la medicina natural, su conocimiento de plantas, el uso de velas, y de ahí se comenzó a manejar el mal concepto de brujo”.

      Bajo la falsa premisa de brujería y de haber enfermado espiritualmente a una persona que murió en un centro asistencial, al guía espiritual se le llevó a la muerte envuelto en llamas, en su aldea Chimay, a más de 370 kilómetros al noreste de Ciudad de Guatemala.

      Para la Dra. Mónica Berger, el asesinato del respetado Ajq’ij (guía espiritual) habla de prejuicios estigmatizantes que ven equivocadamente a los herbalistas como brujos. Además, considera su muerte como haber “quemado una biblioteca”, pues su amplio conocimiento implica la pérdida de todo un caudal que nunca pudo ser documentado completo.


      Al menos 20 personas han sido asesinadas en los últimos años por considerarlos «brujos».
      Foto: Ecoreinita

      Para la escritora de la agencia de noticias Prensa Guatemalteca, Quimy De León, el asesinato de Domingo no es un hecho aislado, pues desde la invasión y la colonia, ha habido un estigma y una persecución a personas que hacen prácticas espirituales diferentes a la judeocristiana. Según De León, este fenómeno no ha parado de ocurrir, y en los últimos años se han afianzado en las comunidades.

      También explica que el discurso de vincular a las poblaciones originarias, en este caso mayas, con la hechicería y la brujería, el diablo y la maldad, proviene desde la invasión y de la propia configuración del racismo en nuestra América. “Eso, digamos, es un discurso que se ha prolongado, se utiliza hasta la fecha y considera que los pueblos indígenas son personas sin alma y que lo único que hacen en relación con sus prácticas espirituales es la brujería”, comentó.

      De acuerdo con un listado realizado por Prensa Guatemalteca, al menos 20 personas han sido asesinadas en los últimos años por considerarlos brujos.

      Sin embargo, argumenta De León que los médicos mayas como Domingo Choc realizan un trabajo preventivo, de educación a personas y a familias, trabajan la salud mental, el sistema musculoesquelético, la pediatría. “Se podría decir que son el primer nivel de atención, que ellas resuelven lo que el Estado no resuelve en estas comunidades lejanas”, enfatiza.

      Esto no fue un crimen cometido por una muchedumbre tumultuosa, como suelen ser los linchamientos en Guatemala (...) No es una cosa espontánea perpetrada por una muchedumbre. En este caso fueron cinco o seis personas que deliberadamente, en pleno toque de queda, se dirigieron a buscarlo y a sacarlo de su casa. Incluso lo retuvieron por horas. No tenemos información precisa, pero lo tuvieron horas hasta que amaneció. Y luego, le prendieron fuego”, detalla De León.

      El Ministerio Público de Guatemala, por medio de la Fiscalía Municipal de Poptún, investiga el hecho en el cual el Abuelo Domingo perdió la vida. El reproche y condena a estos sucesos ha llegado a todas las esferas de la sociedad, quienes los han calificado como un crimen imperdonable y una gran pérdida del conocimiento ancestral maya.

    • 4 membres d’une même famille arrêtés
      qui l’accusaient d’être la cause du décès d’un proche (dans l’article précédent)

      toujours dans l’article précédent (mais sans lien), les pratiques de Grand-père Ku dérangeaient «   certains groupes religieux  » (note : les évangélistes sont très actifs au Guatemala)

      Capturan a 4 personas señaladas por la muerte de Domingo Choc Che – Prensa Libre
      https://www.prensalibre.com/ciudades/peten/autoridades-desarrollan-5-allanamientos-en-aldea-donde-murio-linchado-d

      En seguimiento a la investigación por la muerte del señor Domingo Choc Che, esta mañana la Fiscalía de Distrito de Petén, con apoyo de la PNC, realiza cinco diligencias de allanamiento en aldea, Chimay, San Luis”, informó el Ministerio Público.

      La fiscalía agregó que buscaba ejecutar cinco órdenes de captura contra supuestos responsables de haber participado en la muerte del líder indígena.

      La Policía Nacional Civil (PNC) reportó la captura de 4 familiares, dos hombres y dos mujeres.

      Fueron identificados como Ovidio Ramírez Chub, de 24 años, sus hermanos Edin Arnoldo, de 21; y Magalí Pop Caal, de 27; así como Romelia Caal Chub, de 49 años, prima de los tres anteriores.

      Todos son acusados del delito de asesinato.

    • Dans ce récit détaillé, il se confirme que certains des assassins faisaient partie de la communauté évangélique. En plus d’être des «  notables économiques  » du village.

      ¿Cuál fue la causa del crimen contra Domingo Choc Che Aj Ilonel ? – Prensa Comunitaria
      https://www.prensacomunitaria.org/cual-fue-la-causa-del-crimen-contra-domingo-choc-che-aj-ilonel2

      Algunas de las personas que lo asesinaron son “creyentes” y asisten a iglesias evangélicas, además tienen poder económico a nivel local, ya que se dedican al comercio de maíz y tienen camiones, nos aseguraron algunas personas que por temor piden confidencialidad. Por lo que no fue una muchedumbre la que cometió este crimen, fueron pocas personas, plenamente identificadas por la comunidad.

      Après la «  guerre [civile] » (la répression féroce des communautés indigènes) se sont développées mafias liées au trafic de drogue et structures paramilitaires. Dans le village, il n’y a pas moins de 5 églises (catholiques, charismatiques et évangéliques)

      Pese a los esfuerzos de reconstrucción del tejido social, los años después de la guerra, en las comunidades empezaron a sufrir una serie de problemáticas que se sobrepusieron a las dinámicas sociales ya debilitadas, algunas herencia de la contrainsurgencia usadas para controlar a la población; otras relacionadas con nuevas formas de enriquecimiento ilícito. San Luis es entrada de drogas hacia el departamento y es territorio de influencia de narcos, según el informe Grupos de poder en Petén: territorios, política y negocios, publicado en el 2011.

      En este informe se hace referencia a estructuras de “limpieza social” existentes en este municipio asociados a ex paramilitares y/o grupos criminales de alcance nacional, que se han dedicado a asesinar a jóvenes supuestamente vinculados a maras y a otras personas. Las actividades de control económico están asociadas a ganaderos tradicionales y palma de aceite. En el municipio hay un destacamento militar y solo en la aldea Chimay hay al menos cinco iglesias entre católicas, carismáticas y evangélicas.

      Le rôle traditionnel de l’Aj Ilonel (homme médecine ?)

      Carlos Morán Ical pocomchi´ investigador de la cultura maya, psicólogo y también Ajq’ij explica el rol de los aj Ilonel como Domingo Choc:

      Un Aj Ilonel es la persona, dentro del modelo de medicina maya, que tiene un don, que le permite ser quien resguarda la salud de las personas y de la familia. Es quien tiene el conocimiento de las plantas, de los ciclos lunares y conocen la época de identificación, recolección y preparado de plantas medicinales. Su función y rol comunitario es resguardar a la comunidad, es un personaje de respeto que si se requiere su consejo lo puede facilitar ya sea a personas o a las familias”.

      Todo esto lo desconocían los perpetradores de su muerte o el miedo que provoca el desconocimiento, sumado a la influencia de religiones conservadoras y fundamentalistas que logran distanciar a la gente de su propio ser.