• Von Wülcknitzsche Familienhäuser
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Von_W%C3%BClcknitzsche_Familienh%C3%A4user

    Dieser Artikel beschreibt, wie die Bourgeois aus Angst vor Krankheit, getrieben von den Warnungen der Ärzte auf Besserung der Lebensverhältnisse des Proletariats drängten, damit nicht deren zu nah an Berlin gelegene Unterkünfte zur Brutstätte von alle bedrohenden Epidemien würden. Es war die Zeit, in der Edgar Allan Poe „Die Maske des roten Todes“ schrieb, eine Metapher für die Unmöglichkeit auch der Reichsten, ihrem Schicksal als Mensch zu entgehen.

    Ihren Höhepunkt fand die bürgerliche Hygienebewegung mit der Errichtung des wegweisenden Obdachlosenasyls in der Wiesenstraße, der „Penne“, unter Beteiligung des Arztes Rudolph Virchow.

    Peter Weiss nennt die Pfuhlstraße, die er irrtümlich im Wedding verortet, im dritten Band der Ästhetik des Widerstands als Lage der letzten Berliner Wohnung seines Erzählers vor der Emigration.

    Hans Fallada siedelt den Taxibetrieb seiner Protagonisten in Ein Mann will nach oben hier in einer Querstraße der Chausseestraße an.

    Die von Wülcknitzschen Familienhäuser in der Gartenstraße in Berlin-Mitte waren ein Komplex von Mietwohnungen, die in den Jahren 1820 bis 1824 von dem Baron von Wülcknitz in Ausnutzung der damaligen Wohnungsnot errichtet wurden. Sie waren ein Brennpunkt sozialen Elends und gelten als Vorläufer der Berliner Mietskasernen. 1881/82 wurden sie abgerissen und durch übliche Wohnhäuser ersetzt, die dort zum Teil noch stehen. Zahlreiche Veröffentlichungen prangerten seinerzeit die Missstände dort an.

    Lage

    Sie standen auf dem Gelände, auf dem heute die Häuser Gartenstraße 108 bis 115 stehen (damals die Häuser Gartenstraße 92, 92a, 92b), also auf der Fläche vor dem Hamburger Tor zwischen Torstraße und der Westseite der Gartenstraße bis fast hinauf zur heutigen Tieckstraße. Die Häuser wurden genannt Langes Haus, Querhaus, Schulhaus, Kleines Haus und Kaufmannshaus. Das größte von ihnen, das Lange Haus war 63 m lang, gut 18 m hoch und hatte in den unteren vier der sechs Stockwerke jeweils 30 einräumige Wohnungen. Es lag etwa dort, wo heute die Häuser 108 bis 111 stehen. Der Erbauer, mit vollem Namen Königlicher Kammerherr Heinrich Otto von Wülcknitz, stammte aus der Gegend von Bernau und hatte das Gelände von seinem Vater, dem Major Hans Heinrich von Wülcknitz am 16. Oktober 1815 geerbt. Zunächst hatte er darauf einen Holzplatz eingerichtet, wo er das in seinen ererbten Wäldern geschlagene Holz zum Verkauf lagerte. Er errichtete dort – etwa im Bereich des heutigen Hauses Nr. 113 – auch sein eigenes Wohnhaus. Die Qualität der Häuser und die Wohnverhältnisse waren schlecht. So wurde das Souterrain eines der fünf Häuser bereits vermietet, als man noch am ersten Obergeschoss arbeitete. Die Kellerdecke war noch so nass, dass das Wasser herab tropfte. Aufgrund einer Anzeige schritten die Behörden ein

    Beschreibung

    Bei den Wohnungen handelte es sich um eine Aneinanderreihung von gleichartigen Einzelräumen mit je zwei Fenstern, von sogenannten Stuben, die in der Regel 21 Quadratmeter groß waren. Aufgrund der hohen Mieten teilten sich auch mehrere Familien eine Stube. In den etwa 400 Stuben der Familienhäuser lebten – die Angaben hierzu schwanken – zwischen 2.200 und knapp 3.000 Personen. Somit standen jedem Bewohner im Durchschnitt etwa 2,2 m² Wohnfläche zur Verfügung. Da verschiedene Bewohner, namentlich Weber, hier auch ihren Beruf ausübten, war noch die Standfläche des Webstuhls abzuziehen. Zu einer solchen Menschenansammlung auf kleinstem Raum stellte der zuständige Armenarzt in einer Eingabe fest, „daß zu befürchten steht, daß eine bösartige Krankheit ausbricht“. Schließlich forderte eine 1828 vom Armenarzt ausgearbeitete Schrift, dass nur noch eine einzige Familie in einem Raum wohnen sollte. Die daraufhin ergangene Verordnung konnte aber infolge der Notlage vieler Bewohner nicht immer eingehalten werden: Noch im Jahre 1855 waren zwei Familien in einer Stube keine Seltenheit. Wer seine Miete nicht pünktlich zahlte, wurde unverzüglich ausgewiesen.

    Ein besonderes Problem waren die gemeinsamen Toiletten. Bereits 1825 hatte der zuständige Stadtrat bemängelt, dass die „Abtritte offenstehen und die Luft verpesten“. Laut einer polizeilichen Aufstellung von 1828 kam auf etwa 50 Bewohner eine Toilette. Erst 1841 wurde durch Anlage einer zweiten Toilette im Kaufmannshaus Abhilfe geschaffen. Die Abwässer der Familienhäuser flossen in offenen Rinnsteinen in eine Senkgrube beim „Langen Haus“. Erst Anfang der 1840er Jahre wurde im Zusammenhang mit dem Bau des Stettiner Bahnhofs, der eine gepflasterte Straßenverbindung über die Gartenstraße zur Stadt erforderlich machte, auch ein Abzugskanal für die Hausabwässer zur Panke gelegt.

    #Berlin #Mitte #Wedding #Gedundbrunnen #Oranienburger_Vorstadt #Geschichte #Feuerland #Hamburger_Tor #Torstraße #Wiesenstraße #Tieckstraße #Gartenstraße #Pfuhlstraße #Panke
    #Geschichte
    #Iatrokratie #Hygiene #Armut #Landflucht #Industrialisierung
    #Taxibetrieb

  • “Sotto l’acqua”. Le storie dimenticate dei borghi alpini sommersi in nome del “progresso”

    I grandi invasi per la produzione di energia idroelettrica hanno segnato nei primi decenni del Novecento l’inizio della colonizzazione dei territori montani. #Fabio_Balocco, giornalista e scrittore di tematiche ambientali, ne ha raccolto le vicende in un libro. Un lavoro prezioso anche per comprendere l’attuale dibattito su nuove dighe e bacini a favore di agricoltura intensiva e innevamento artificiale

    Un campanile solitario emerge dalle acque del Lago di Rèsia, in Val Venosta, un invaso realizzato per produrre energia idroelettrica. Quella che per i turisti di oggi è una curiosa attrazione, è in realtà ciò che rimane di una borgata alpina sommersa in nome del “progresso”. Quella del campanile che sorge dalle acque è un’immagine iconica che in tanti conoscono. Ma non si tratta di un caso isolato: molti altri abitati alpini furono sommersi nello scorso secolo, sacrificati sullo stesso altare. Soprattutto nel Piemonte occidentale, dove subirono la sorte le borgate di Osiglia, Pontechianale, Ceresole Reale, Valgrisenche, e un intero Comune come Agàro, nell’Ossola. A raccontare queste storie pressoché dimenticate è il giornalista e scrittore Fabio Balocco nel suo recente saggio “Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi” pubblicato da LAReditore.

    Balocco, perché ha scelto di raccontare queste storie?
    FB Tutto è iniziato con un’inchiesta per la rivista Alp (mensile specializzato in montagna e alpinismo, chiuso nel 2013, ndr) che feci a metà anni Novanta, incentrata proprio su queste storie dei borghi sommersi per produrre energia. Un fenomeno che caratterizzò soprattutto gli anni Venti e Trenta del Novecento per alimentare le industrie della pianura. Sono sempre stato attratto dalle storie “minime”, quelle dei perdenti, in questo caso le popolazioni alpine sacrificate appunto sull’altare dello sviluppo. È quella che io chiamo “la storia con la esse minuscola”. La nascita del libro è dovuta sia al fatto che siamo sulla soglia del secolo da quando iniziarono i primi lavori e sia dal ritorno nel dibattito politico del tema di nuovi invasi. Infine, penso sia necessario parlarne per ricordare che nessuna attività umana è esente da costi ambientali e talvolta anche sociali, come in questi casi che ho trattato.

    Nel libro afferma che l’idroelettrico ha portato ai primi conflitti nelle terre alte, tradendo la popolazione alpina. In che modo è successo?
    FB I grandi invasi per produzione di energia idroelettrica hanno segnato l’inizio della colonizzazione dei territori montani, che fino ad allora non erano stati intaccati dal punto di vista ambientale e sociale da parte del capitale della pianura. Queste opere costituirono l’inizio della colonizzazione di quelle che oggi vengono anche definite “terre alte”, colonizzazione che è proseguita soprattutto con gli impianti sciistici e le seconde case. Vale poi la pensa di sottolineare che almeno due invasi, quello di Ceresole Reale e quello di Beauregard, in Valgrisenche, comportarono la sommersione di due dei più suggestivi paesaggi delle Alpi occidentali.

    Che ruolo hanno avuto le dighe nello spopolamento delle terre alpine?
    FB È bene ricordare che nell’arco alpino occidentale lo spopolamento era già in atto agli inizi del Novecento in quanto spesso per gli abitanti delle vallate alpine era più facile trovare lavoro oltreconfine. Un caso esemplare è quello della migrazione verso la Francia che caratterizzò la Val Varaita, dove fu realizzato l’invaso di Pontechianale. Le dighe non contribuirono in modo diretto allo spopolamento ma causarono l’allontanamento di centinaia di persone dalle loro case che venivano sommerse dalle acque, e molti di questi espropriati non ricevettero neppure un compenso adeguato a comprare un nuovo alloggio, oppure persero tutto il denaro a causa dell’inflazione, come accadde a Osiglia, a seguito dello scoppio Seconda guerra mondiale. Queste popolazioni subirono passivamente le imposizioni, senza mettere in atto delle vere e proprie lotte anche se sapevano che avrebbero subito perdite enormi. Ci furono solo alcuni casi isolati di abitanti che furono portati via a forza. Questo a differenza di quanto avvenuto in Francia, a Tignes, negli anni Quaranta, dove dovette intervenire l’esercito per sgomberare la popolazione. Da noi il sentimento comune fu di rassegnazione.

    Un’altra caratteristica di queste storie è lo scarso preavviso.
    FB Tutto l’iter di approvazione di queste opere avvenne sotto traccia e gli abitanti lo vennero a sapere in modo indiretto, quasi di straforo. Semplicemente si accorgevano della presenza di “stranieri”, spesso tecnici venuti a effettuare lavori di prospezione, e solo con un passaparola successivo venivano a conoscenza dell’imminente costruzione della diga. Anche il tempo a loro lasciato per abbandonare le abitazioni fu di solito molto breve. Le imprese della pianura stavano realizzando degli interessi superiori e non erano interessate a informare adeguatamente le popolazioni coinvolte. Le opere furono realizzate da grandi imprese specializzate che si portavano dietro il loro personale. Si trattava di lavori spesso molto specialistici e solo per le mansioni di bassa manovalanza venne impegnata la popolazione locale. D’altra parte, questo incontro tra il personale delle imprese e i locali portò a conseguenze di carattere sociale in quanto i lavori durarono diversi anni e questa intrusione portò anche alla nascita di nuovi nuclei familiari.

    Differente è il caso di Badalucco, dove negli anni Sessanta gli abitanti riuscirono a opporsi alla costruzione della diga. In che modo?
    FB Badalucco è sempre un Comune alpino, sito in Valle Argentina, in provincia di Imperia e anche lì si voleva realizzare un grande invaso all’inizio degli anni Sessanta. Ma qui le cose andarono in maniera diversa, sicuramente anche perché nel 1959 c’era stata una grave tragedia in Francia quando la diga del Malpasset crollò provocando la morte di quasi 500 persone. A Badalucco ci fu quindi una vera e propria sollevazione popolare guidata dallo stesso sindaco del Comune, sollevazione che, anche attraverso scontri violenti, portò alla rinuncia da parte dell’impresa. L’Enel ha tentato di recuperare il progetto (seppure in forma ridotta) nei decenni successivi trovando però sempre a una forte opposizione locale, che dura tuttora.

    Il governo promette di realizzare nuove dighe e invasi. È una decisione sensata? Che effetti può avere sui territori montani?
    FB A parte i mini bacini per la produzione di neve artificiale nelle stazioni sciistiche, oggi vi sono due grandi filoni distinti: uno è il “vecchio” progetto “Mille dighe” voluto da Eni, Enel e Coldiretti con il supporto di Cassa depositi e prestiti, che consiste nella realizzazione di un gran numero di piccoli invasi a sostegno soprattutto dell’agricoltura, ma anche per la fornitura di acqua potabile. Poi vi sono invece i progetti di nuovi grandi sbarramenti, come quello previsto lungo il torrente Vanoi, tra Veneto e Trentino, o quelli di Combanera, in Val di Lanzo, e di Ingria, in Val Soana, in Piemonte. Come dicevo, oggi l’esigenza primaria non è tanto la produzione di elettricità quanto soprattutto l’irrigazione e, in minor misura, l’idropotabile. Si vogliono realizzare queste opere senza però affrontare i problemi delle perdite degli acquedotti (che spesso sono dei colabrodo) né il nostro modello di agricoltura. Ad esempio, la maggior parte dell’acqua utilizzata per i campi finisce in coltivazioni, come il mais, per produrre mangimi destinati agli allevamenti intensivi. Questo senza considerare gli impatti ambientali e territoriali che le nuove opere causerebbero. In buona sostanza, bisognerebbe ripensare il nostro modello di sviluppo prima di tornare a colonizzare nuovamente le terre alte.

    https://altreconomia.it/sotto-lacqua-le-storie-dimenticate-dei-borghi-alpini-sommersi-in-nome-d

    #montagne #Alpes #disparitions #progrès #villages #barrages #barrages_hydro-électriques #énergie_hydro-électrique #énergie #colonisation #industrialisation #histoire #histoires #disparition #terre_alte #Badalucco #Osiglia #Pontechianale #Ceresole_Reale #Valgrisenche #Agàro #Beauregard #Ceresole_Reale #Mille_dighe #Vanoi #Combanera #Ingria

    • Sotto l’acqua. Storie di invasi e di borghi sommersi

      Circa un secolo fa iniziò, nel nostro paese, il fenomeno dell’industrializzazione. Ma questo aveva bisogno della forza trainante dell’energia elettrica. Si pensò allora al potenziale rappresentato dagli innumerevoli corsi d’acqua che innervavano le valli alpine. Ed ecco la realizzazione di grandi bacini di accumulo per produrre quella che oggi chiamiamo energia pulita o rinnovabile. Ma qualsiasi azione dell’uomo sull’ambiente non è a costo zero e, nel caso dei grandi invasi idroelettrici, il costo fu anche e soprattutto rappresentato dal sacrificio di intere borgate o comuni che venivano sommersi dalle acque. Quest’opera racconta, tramite testimonianze, ricordi e fotografie, com’erano quei luoghi, seppur limitandosi all’arco alpino occidentale. Prima che se ne perda per sempre la memoria.

      https://www.ibs.it/sotto-acqua-storie-di-invasi-libro-fabio-balocco/e/9791255450597

      #livre

  • Planter 1 milliard d’arbres : comment le plan de #Macron rase des #forêts

    Le projet du gouvernement de planter #1_milliard_d’arbres est « une #supercherie », dénoncent des associations. D’après des documents obtenus par Reporterre, il servirait à financer des #coupes_rases et à industrialiser la filière.

    L’État plante des arbres pour mieux raser des forêts. C’est la réalité cachée du projet de plantation de 1 milliard d’arbres vanté par Emmanuel Macron. Dix-huit mois après son annonce en grande pompe, au lendemain des incendies de l’été 2022, le plan qui avait pour ambition de « renouveler 10 % de la forêt française » et de « #réparer_la_nature » montre un tout autre visage : les millions d’euros d’argent public déversés dans la filière servent de prime aux coupes rases et transforment des forêts diversifiées en #monocultures_résineuses. Une situation qui inquiète gravement les associations écologistes.

    D’après les documents officiels du ministère de l’Agriculture, que Reporterre a pu consulter, 50 millions d’arbres ont déjà été plantés, sur 35 935 hectares. Dans de nombreuses régions, les conditions dans lesquelles se sont déroulés ces chantiers posent problème.

    Les documents indiquent que 15 millions de plants d’arbres auraient été replantés sur 10 000 hectares de forêts qualifiées de « pauvres » par le gouvernement. Ces forêts rasées étaient en réalité « saines et bien portantes », assure l’association Canopée, qui a enquêté sur le terrain. Des coupes rases sur 6 500 hectares auraient même été réalisées en zone Natura 2000. Sur ces surfaces dévolues d’ordinaire à la protection du vivant, 1 500 hectares auraient été ensuite plantés exclusivement en #pins_douglas, une essence prisée par les industriels.

    Adapter la forêt aux besoins de l’industrie

    « On nage en plein délire, s’emporte Bruno Doucet, chargé de campagnes au sein de l’association. Alors même qu’il y a urgence à préserver les forêts, on les rase pour les transformer en #champs_d’arbres. » Les associations écologistes dénoncent un « coup de communication » et « un projet mégalomane ». Le milliard d’arbres plantés aurait vocation non pas à aider la forêt à affronter le dérèglement climatique, mais à l’adapter aux besoins de l’#industrie. « Si tous les arbres du plan “1 milliard d’arbres” sont plantés dans les mêmes conditions, cela signifierait que 200 000 hectares de forêts saines et vivantes seraient rasés d’ici 2032 », ajoute-t-il.

    « La #biodiversité a peu à peu été rejetée au second plan pour prioriser la #récolte_de_bois et les #fonctions_productives de la forêt », regrette de son côté Christophe Chauvin, pilote du réseau forêt à France Nature Environnement (FNE). En septembre 2023, plusieurs ONG écologistes [1] alertaient déjà sur les dérives en cours. « La stratégie s’est éloignée de l’enjeu qui en a initié l’élaboration », écrivaient-ils dans un rapport. « La restauration des écosystèmes » et le « renforcement de la résilience des forêts » ont été délaissés au profit d’une logique simpliste et comptable qui privilégie « les #plantations_en_plein », c’est-à-dire les #plantations après coupes rases, prévenaient-ils.

    « Plutôt que de protéger les peuplements existants, en les enrichissant et en travaillant avec finesse, les industriels préfèrent tout couper pour les substituer à d’autres essences, du #résineux majoritairement, qu’ils jugent plus résistant et plus intéressant économiquement », observe Christophe Chauvin.

    Plus de 80 % des arbres sont plantés après une coupe rase

    Selon un rapport du Conseil supérieur de la forêt et du bois, un organisme ministériel, les plantations en plein, donc après coupes rases, représenteraient près de 80 % des opérations à effectuer pour atteindre la cible du milliard d’arbres, et donc se feraient en lieu et place d’anciennes forêts. Seuls 7 % des arbres plantés viendraient s’ajouter aux forêts existantes, principalement sur des terres agricoles abandonnées. À TF1, le ministère de l’Agriculture a tenu à préciser que « l’objectif du milliard d’arbres ne visait pas à créer de nouvelles forêts, mais bien à renouveler celles déjà existantes ».

    « #Renouveler », ou plutôt « #transformer » la forêt et « #abattre » des parcelles entières pour y #replanter de jeunes arbres. Ce que le ministère assume auprès de Reporterre : « France Relance s’adresse à des forêts malades ou non adaptées au changement climatique. Il est donc normal que les plantations en plein soient très majoritaires. Les coupes rases sont essentiellement sanitaires », assure-t-il.

    Les grandes #coopératives_forestières en embuscade

    Concrètement, 35 935 hectares ont été replantés de 2021 à 2023 pour un coût de 150 millions d’euros, d’après la Direction générale de la performance économique et environnementale des entreprises (DGPE). Le #pin_maritime et le #douglas ont été les principales essences replantées sur d’anciennes #forêts_feuillues et les plantations après coupes rases ont représenté 32 046 hectares (soit 89 % de la surface totale). Ces chantiers lourds et coûteux ont été portés en grande majorité par les coopératives forestières, des entreprises qui plaident pour l’#industrialisation de la filière.

    « Ce plan favorise une logique prométhéenne »

    Selon le document de la DGPE, les #coopératives ont capté plus du tiers des #subventions totales, le reste est allé aux particuliers et aux propriétaires (parfois eux-même en lien avec des coopératives). « Le #plan a constitué un effet d’aubaine pour asseoir leur #modèle_productiviste. Ces acteurs se sont accaparé l’argent public pour leur business », dénonce Bruno Doucet. La plus grande coopérative, #Alliance_Forêts_Bois, critiquée pour ses méthodes destructrices des écosystèmes, a même perçu 10 % des subventions. C’est en #Nouvelle-Aquitaine, dans la forêt des #Landes — où l’entreprise est hégémonique —, qu’il y a d’ailleurs eu le plus de #reboisements. À l’inverse, les experts et gestionnaires indépendants qui privilégient souvent d’autres méthodes sylvicoles plus proches de la nature n’ont reçu que des miettes. Ils ne représentent que 7 % des dossiers soutenus par les pouvoirs publics.

    « Ce plan favorise une logique prométhéenne, soutient Christophe Chauvin, c’est une négation de l’#écologie et de ses équilibres. On croit à la toute-puissance de l’intervention humaine et à celles des machines. C’est soit naïf, soit complètement opportuniste. »

    « Si une forêt est pauvre, il faut l’enrichir, pas la détruire »

    Au cœur des polémiques résident les critères d’attribution de ces #aides. Pour être éligible aux #subventions et pouvoir replanter sa forêt au nom du milliard d’arbres, il faut que son peuplement soit considéré comme « dépérissant »,« vulnérable » ou « pauvre ».

    Pour l’État, un « #peuplement_dépérissant » est une forêt où 20 % des arbres seraient morts après une catastrophe naturelle ou une attaque de pathogènes. Une forêt « vulnérable » est une forêt que l’on suppose menacée à terme par le réchauffement climatique avec des essences jugées fragiles comme le châtaignier ou le hêtre. Tandis qu’un peuplement est considéré comme « pauvre », lorsque sa valeur économique est inférieure à 15 000 euros l’hectare, soit environ trois fois son coût de plantation.

    Ces définitions font l’objet de vifs débats. Les ONG écologistes jugent trop faible le curseur de 20 % pour un peuplement dépérissant. Par exemple, dans une forêt composée à 80 % de chênes sains et à 20 % d’épicéas attaqués par des scolytes, le propriétaire pourrait légalement tout raser, toucher des subventions et dire qu’il participe au grand projet du milliard d’arbres.

    Les peuplements dits « vulnérables » suscitent aussi des controverses. Sans nier les conséquences du réchauffement climatique sur les forêts — la mortalité des arbres a augmenté de 80 % en dix ans —, la vulnérabilité d’un massif reste très difficile à établir. Elle dépend de multiples facteurs et repose aussi sur le scénario climatique auquel on se réfère, à +2 °C, +4 °C, etc.

    « Il faut être vigilant quant à ces projections, prévient Marc Deconchat, directeur de recherche à l’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (Inrae). On ne sait pas exactement comment les essences vont survivre ou non. On connaît encore mal leur capacité d’adaptation et d’évolution génétiques. »

    Les modèles qui prédisent une migration vers le nord de certaines essences d’arbres indigènes ou leur disparition reposent sur des moyennes générales, avec des échelles parfois très grossières. « Quand on regarde de manière plus subtile, en prenant en compte les variations de pente, le type de sol ou d’orientation au soleil, le risque de disparition est très variable, affirme Marc Deconchat. Ce ne sont d’ailleurs pas uniquement les essences qui sont en cause, mais aussi le mode de #sylviculture qui leur est associé. »

    Un exemple de #maladaptation

    C’est surtout le terme de « #peuplement_pauvre » qui provoque l’ire des écologistes. Cette expression servirait de prétexte pour tout ratiboiser. Selon les calculs de plusieurs forestiers et écologistes, près de 95 % des forêts françaises auraient une valeur sur pied inférieur à 15 000 euros l’hectare. Avec ce critère, quasiment toute la forêt métropolitaine pourrait donc être considérée comme pauvre et être remplacée par des plantations.

    Dans un documentaire, le journaliste Hugo Clément montre comment des parcelles de forêts #feuillues diversifiées considérées comme pauvres ont été rasées, partout à travers la #France, avec ce type d’argumentaire. Le #bois a été transformé en #broyat pour partir ensuite en fumée, nourrir des chaudières ou faire de l’électricité. « C’est une supercherie, un non-sens écologique et climatique. Une forêt pauvre, il faut l’enrichir, pas la détruire », enchérit Christophe Chauvin.

    Les défenseurs de l’environnement craignent que ce plan de 1 milliard d’arbres ne soit finalement qu’un exemple de maladaptation au changement climatique. Ils rappellent que les #monocultures sont plus fragiles que les vieilles forêts face aux aléas naturels. 38 % des plantations de jeunes arbres sont morts l’an dernier à cause de la sécheresse. La coupe rase est aussi décriée pour ses conséquences climatiques. « Elle est à éviter autant que possible et ne doit être utilisée qu’en dernier recours », déclare le climatologue Philippe Ciais. Dans une expertise scientifique commandée par le ministère de la Transition écologique, soixante-dix chercheurs affirment que « les principaux effets des coupes rases sur le milieu physique et chimique sont généralement négatifs et globalement bien documentés, notamment sur la structure, la fertilité et le stockage de carbone des sols, la biodiversité, l’érosion ou encore la qualité des cours d’eau ».

    « Dans une période de restriction budgétaire où le ministre de l’Économie appelle à faire la chasse aux dépenses inutiles, on peut se demander légitimement si ce plan n’en fait pas partie », déclare Bruno Doucet. Jusqu’à 2032, l’État souhaite mobiliser 8 à 10 milliards d’euros pour planter son milliard d’arbres.

    https://reporterre.net/1-milliard-d-arbres-plantes-le-mensonge-de-Macron-Le-milliard-d-arbres-d
    #déforestation

    • Pour le coup @sombre je ne connaissais pas Zeni Geva
      https://daily.bandcamp.com/lists/kk-null-list

      Tokyo-based musician KK Null, real name Kazuyuki Kishino, has spent more than 40 years journeying from #punk to #industrial_noise to experimental, ambient, to everything else in between. While arguably best known for his proggy noise rock band Zeni Geva, who have released albums via #Alternative_Tentacles, #Skin_Graft, and his own Nux Organization, Null has racked up hundreds of recording credits as a guitarist, electronic composer, sound manipulator, and more. Exploring his music—even just figuring out a jumping-off point—can feel incredibly overwhelming.

      Kazuyuki Kishino aka KK Null & Steve Albini (chant et guitare)
      https://coldspring.bandcamp.com/track/angel

      Yoni Kroll |#bandcamp_daily] : There are too many good songs on Maximum Implosion to pick a favorite, but the back-to-back combo of “Terminal Hz” and “Kettle Lake” certainly stands out. The former is pure Zeni Geva; the percussion sounds like a war march, the guitars like a swarm of venomous insects. It’s followed by a track featuring Steve Albini on vocals that feels—well, very much like a Shellac song, but with the added bonus of Zeni Geva backing him up. The second disc is a collection of live recordings they did together during some Japanese dates in 1992.

      https://coldspring.bandcamp.com/track/terminal-hz

      “What can you expect when a master of noise (KK Null) joins hands with one of the post-punk/industrial pioneers (Big Black)? You get a merciless and tormenting sonic assault on, which you perfectly recognize, the input of each artist. The typical harsh and very unique guitar play by Steve Albini creates a perfect cacophonous harmony with the noises and screams of Zeni Geva... a real opportunity to (re)discover this common project between opposite artists hailing from very different cultures. The sound and experiment is extreme, but definitely something apart from established projects. Both artists clearly had some fun creating one of the most unexpected sonic fusions, which I guess sounds more Japanese-like than American and/or European” (Side-Line)

    • KK Null / bandcamp & Electrical Audio (studios d’Albini)
      https://kknull1.bandcamp.com
      https://www.youtube.com/@ElectricalAudioOfficial
      Twenty-Five Years of the Brain-Melting Sounds of SKiN Graft Records
      https://daily.bandcamp.com/label-profile/twenty-five-years-of-the-brain-melting-sounds-of-skin-graft-records

      Steve Albini aux manettes sur cet excellent label Skin Graft rds, quelques production, mixing, collaboration...

      https://skingraftrecords.bandcamp.com/album/autofuck-single-and-comic-book-set

      https://skingraftrecords.bandcamp.com/album/sides-1-4-double-single-comic-book-set

      https://skingraftrecords.bandcamp.com/album/brother-in-the-wind-gwodhunqa-single-and-comic-book-set

      Released in conjunction with Relapse Records, HIGH ON FIRE present “Brother In The Wind”, recorded by Steve Albini, and featuring Matt Pike (ex-Sleep), Des Kensel, and Joe Preston (Ex-Melvins).

    • The evolution of Steve Albini
      https://www.theguardian.com/music/2023/aug/15/the-evolution-of-steve-albini-if-the-dumbest-person-is-on-your-side-you
      Albini était connu pour son éthique punk : refus de signer dans un gros label, autogestion de ses groupes, paye au forfait sans toucher de commission, bosser pour des petits groupes aussi bien que des gros, intransigeance sur ses choix musicaux, etc. Il était aussi connu pour être un type infect : insultes faciles, noms de groupes horribles, provocations gratuites (misogynes, homophobes, racistes...).
      Cet article raconte sa progressive évolution pour devenir quelqu’un de conscient de ses fautes, ne se trouvant aucune excuse, cherchant à comprendre ce qui l’avait mené à ça, et apprecié de tous les gens avec qui il a travaillé.

      So there was the music, much of which was exceptionally good. But Albini also stood out for acting like the biggest jerk in a milieu that was not exactly inhospitable to jerks. In his public capacity as “Steve Albini”, he often came off like the resident wiseass who thinks he’s smarter than everyone else and thus spends his time getting a rise out of anyone who isn’t clever enough to get the joke.

      [...]

      So when Albini expressed public contrition in late 2021, it surprised a lot of people who mostly remembered him as an incendiary jerkoff and assumed that he – like many public figures who are pushed to admit wrongdoing – would rather chalk all of that up to “well, it was a long time ago”. But those who knew him intimately were less bewildered. Over the years, they had observed the slow evolution of Steve Albini, as he shed some of his abrasive and adversarial habits while holding fast to the sturdy principles that have always anchored him. He has not exactly become mild-mannered with age – “However you define ‘woke,’ anti-woke means being a cunt who wants to indulge bigots,” he wrote recently – but these days he also says things like: “Life is hard on everybody and there’s no excuse for making it harder. I’ve got the easiest job on earth, I’m a straight white dude, fuck me if I can’t make space for everybody else.

      When I spoke to the folk singer Nina Nastasia, who has made every one of her records with Albini, she called him a “gentleman”. Joanna Newsom has described him as “a pure joy to work with”. Kim Deal told me: “I could just break into tears, the human he’s become.” These are not sentiments typically associated with an individual who once called Courtney Love a “psycho hose-beast” in print and told an interviewer from GQ: “I hope GQ as a magazine fails.” How did this happen?

      [...]

      As the years wore on, his perspective started to shift. “I can’t defend any of it,” he told me. “It was all coming from a privileged position of someone who would never have to suffer any of the hatred that’s embodied in any of that language.” For years, Albini had always believed himself to have airtight artistic and political motivations behind his offensive music and public statements. But as he observed others in the scene who seemed to luxuriate in being crass and offensive, who seemed to really believe the stuff they were saying, he began to reconsider. “That was the beginning of a sort of awakening in me,” he said. “When you realise that the dumbest person in the argument is on your side, that means you’re on the wrong side.

      Kim Deal told me that Albini’s wife, the filmmaker Heather Whinna, whom he met in the 1990s, was a crucial influence. “She told him specifically: ‘I don’t think you know the power that you have when you just dismiss people. They really respect you, Steve, and why would you do that to them?’ I don’t think he understood that people were actually listening to him.

      Now whenever any public figure is made to answer for their former bad self, they go on an apology tour where they say all the right things about being a work in progress, and learning and listening, and so on. Rarely do they break down the actual specifics of what they said, why it was wrong and why they regret it. But Albini, when I asked him about his public reassessment of his past sins, was pretty no nonsense. “I thought it was important to explain how some of the uglier and more confrontational aspects of my speech and behaviour came about,” he said.

      It would be naive to claim that someone like Albini might serve as a “model” for how others might revisit their past failures. He didn’t have a tidy series of epiphanies fit for a TED talk; instead he slowly changed his mind over a long period of time. Still, it was instructive to hear him connect the dots about why he had felt entitled to talk the way he once did. “It’s exhilarating to feel like there’s this forbidden area that you’re not allowed to participate in, and when you go in it, you feel like you’ve discovered a tropical island: ‘They told me there was nothing here, and look, there’s something here,’” he said. “I understand that exhilaration.” But, he added, “I also know that we’re not as safe from historical evil as I believed we were when I was playing with evil imagery.

      In 1985, for instance, Big Black released a single called “Il Duce”, whose cover featured a stylised rendition of Benito Mussolini, and which was dedicated, in tongue-in-cheek fashion, to the Italian dictator. “We gave ourselves licence to play with this language because we felt no threat from it,” he told me. “We thought [the far right] was a historical anomaly, a joke for lonely losers. Even as the right wing became more openly fascist, we were still safe – and that’s where my sense of responsibility kicks in, like: ‘Oh yeah, I get it now. I was never going to be the one that they targeted.’

      [...] “It’s not about being liked,” he said, as we sat at Electrical Audio. “It’s me owning up to my role in a shift in culture that directly caused harm to people I’m sympathetic with, and people I want to be a comrade to."

      The one thing I don’t want to do is say: ‘The culture shifted – excuse my behaviour.’ It provides a context for why I was wrong at the time, but I was wrong at the time.

      It was a clear and honest apology, and it was the truth. And with that, we both fell silent for what felt like the first time since we’d met.

    • En écoute : « To All Trains », l’ultime album de Shellac avec Steve Albini
      https://www.radiofrance.fr/fip/en-ecoute-to-all-trains-l-ultime-album-de-shellac-avec-steve-albini-5794

      Même mort, Steve Albini ferraille encore. Le légendaire musicien et producteur américain, qui s’est éteint brutalement le 7 mai dernier à l’âge de 61 ans, lève ainsi aujourd’hui le voile, et depuis les cieux, sur l’ultime album de son trio Shellac, cette formation mystérieuse qui réunissait autour de lui, et depuis le début des années 90, le bassiste Bob Weston et le batteur Todd Trainer. Ensemble, ces trois-là n’ont jamais recherché le succès ni la moindre facilité, cultivant leur image de sorciers du son sans jamais s’en soucier le moins du monde, et concoctant un math-rock surréaliste propulsé en live par des concerts totalement cultes dans le petit monde du rock le plus indépendant qui soit.

    • Tiens, il y a une chanson qui s’appelle « How I wrote how I wrote elastic man (cock & bull) » qui fait référence à la chanson « How I wrote elastic man » de The Fall. Et ça me rappelle que dans « 50 year old man », Mark Smith dit un truc sans queue ni tête (cock and bull) sur Steve Albini :

      Steve Albini, he’s in collusion with Virgin trains... against me

  • Le roquefort et le camembert en voie d’extinction ? | CNRS Le journal
    https://lejournal.cnrs.fr/articles/le-roquefort-et-le-camembert-en-voie-dextinction

    Les fromages hébergent une multitude de micro-organismes capables de transformer le lait. Sélectionnés par l’humain, ces ferments ne sont pas épargnés par les standards de l’industrie agro-alimentaire, au point que les fromages bleus ou le camembert pourraient disparaître.

    Pour produire des fromages en grande quantité, les industriels ont sélectionné des souches de champignons correspondant aux cahiers des charges qu’ils se sont imposés. Les fromages doivent être attrayants, avoir bon goût, ne pas arborer de couleurs déroutantes, ne pas produire de mycotoxines, ces toxines sécrétées par les champignons, et surtout pousser rapidement sur le fromage qu’ils se doivent de coloniser. Ce faisant, le secteur de l’agro-alimentaire a exercé une pression de sélection sur les champignons si grande que les fromages, non fermiers et non protégés par une AOP, présentent aujourd’hui une diversité de micro-organismes extrêmement pauvre.
    Des bleus à bout de souffle

    « On a réussi à domestiquer ces organismes invisibles comme on l’a fait pour le chien, ou le chou, explique Jeanne Ropars. Mais il s’est produit pour les micro-organismes ce qu’il se produit à chaque fois qu’on sélectionne trop drastiquement des organismes, gros ou petits : cela a entraîné une très forte réduction de leur diversité génétique. En particulier chez les micro-organismes, les producteurs n’ont pas réalisé qu’ils avaient sélectionné un seul individu et que ça n’était pas durable à long terme. » Les micro-organismes sont capables de se reproduire de manière sexuée et asexuée, mais c’est le plus souvent la voie asexuée, via la production de lignées clonales, qui a été privilégiée par les industriels pour les multiplier. Résultat : ils ne peuvent plus se reproduire avec d’autres souches qui pourraient leur apporter du matériel génétique neuf, ce qui au bout d’un certain temps induit la dégénérescence de la souche en question.

    Les fromages bleus sont certes menacés mais leur situation est encore bien loin de celle du camembert, qui lui est au bord de l’extinction. Car cet autre symbole du terroir français n’est inoculé que par une seule et même souche de Penicillium camemberti et ce partout sur Terre. Cette souche est un mutant blanc sélectionné en 1898 pour inoculer les bries puis les camemberts dès 1902.
    Jusque dans les années 1950, les camemberts présentaient encore à leur surface des moisissures grises, vertes, ou parfois orangées.

    Problème, cette souche est depuis uniquement répliquée par multiplication végétative. Jusque dans les années 1950, les camemberts présentaient encore à leur surface des moisissures grises, vertes, ou parfois orangées. Mais les industriels peu friands de ces couleurs jugées peu attractives ont tout misé sur l’utilisation de la souche de P. camemberti albinos, complètement blanche et de surcroît duveteuse. C’est ainsi que le camembert a acquis sa croûte immaculée caractéristique.

    L’espèce proche génétiquement de P. camemberti, nommée Penicillium biforme, est aussi présente sur nos fromages car naturellement présente dans le lait cru, et montre une diversité génétique et phénotypique incroyable. On pourrait donc imaginer inoculer nos camemberts et bries avec du P. biforme. Si les amateurs veulent pouvoir continuer à manger du fromage, ils vont devoir apprendre à aimer la diversité des goûts, des couleurs et des textures, parfois au sein d’une même production. Et si notre patrimoine gustatif avait tout à y gagner ? ♦

    #Industrialisation #Industrie_agroalimentaire #Camembert

  • La Volga dans la géopolitique russe
    https://laviedesidees.fr/Pascal-Marchand-Volga

    Le plus long fleuve d’Europe est marqué par l’histoire soviétique. Des barrages à la pêche en passant par l’industrialisation, il est au cœur des bouleversements continentaux qui se produisent sous nos yeux. À propos de : Pascal Marchand, Volga, l’héritage de la modernité, Éditions du CNRS

    #Histoire #Russie #environnement #aménagement_du_territoire #géographie #industrialisation
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202401_volga.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240124_volga.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20240124_volga.docx

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • Comment les arbres ont conquis les villes

    Nécessaires pour embellir et rafraîchir les villes, les arbres n’ont pas toujours été intégrés à l’urbanisme, explique l’historienne #Andrée_Corvol. Les révolutions sociales ont permis leur essor.

    Depuis son appartement en banlieue parisienne, l’auteur de cet article contemple tous les jours un univers essentiellement minéral, composé de grandes tours d’habitation et de quelques bâtiments publics. Parmi ces blocs de béton se distinguent quelques arbres, essentiellement des marronniers, qui apportent une touche de vert bienvenue dans ce monde gris et marron et, l’été, une fraîcheur indispensable dans cet îlot de chaleur urbaine. Aussi rares et chétifs soient-ils, ces arbres parviennent à rendre supportable la vie dans un quartier densément peuplé, d’où toute nature a disparu depuis l’industrialisation de la ville au XIXe siècle.

    Ces marronniers s’inscrivent dans une longue lignée d’#arbres_urbains, retracée par l’historienne Andrée Corvol, spécialiste du végétal, dans L’Arbre dans la cité (éd. Le Pommier). Depuis son apparition systématique dans les villes françaises à l’orée du XVIIe siècle, l’arbre a toujours tenu le même rôle : rendre humainement vivables des villes de plus en plus denses, à mesure que les campagnes et les espaces naturels s’en éloignaient.

    Si la prose touffue d’Andrée Corvol tend, telle la sylve, à s’égarer en branches et rameaux, on peut néanmoins résumer à grands traits cette intégration du végétal au panel des outils d’aménagement à destination des autorités locales en France. Car c’est bien d’un outil qu’il s’agit, et ce, dès l’époque moderne.

    Alors que la ville française médiévale comportait peu d’arbres — sinon quelques-uns sur le parvis de l’église et d’autres sur les remparts, pour gêner les tirs adverses en cas de siège —, les autorités municipales des XVIIe et XVIIIe siècles confrontées à l’essor démographique de leurs villes respectives décidèrent de les doter de nouveaux quartiers végétalisés.

    Outre le sentiment de #fraîcheur que procuraient ces arbres — ormes, noyers et tilleuls pour la plupart —, les #plantations_urbaines offraient aux citadins un espace de #loisirs, des #promenades en famille jusqu’au #sport, en particulier le jeu de paume pratiqué à l’#ombre des cours et des mails, à l’instar de ceux structurant le centre-ville d’Aix-en-Provence (Bouches-du-Rhône).
    Embellir... et maîtriser l’étalement urbain

    À l’ère de l’#industrialisation et de l’#exode_rural vers la ville, les métropoles du XIXe siècle reprirent ces principes en les systématisant. Pour verdir les nouveaux boulevards qu’il perçait au beau milieu de la capitale, Georges-Eugène Haussmann, préfet de Paris sous Napoléon III, réorganisa le service des Promenades — ancêtre des Jardins — pour favoriser des plantations homogènes, après des décennies d’essais erratiques et désordonnés, peuplant ainsi la métropole de platanes et #marronniers. Comme souvent, les capitales régionales imitèrent l’exemple parisien et se dotèrent à leur tour d’avenues et cours végétalisés.

    Mais le tournant eut cependant lieu entre 1919 et 1924, avec l’adoption des #lois dites « #Cornudet ». À la différence des initiatives municipales antérieures, ces textes législatifs, les premiers en matière d’urbanisme en France, proposaient un encadrement national à travers un #Plan_d’aménagement_d’embellissement_et_d’extension (#PAEE) obligatoire pour les villes de plus de 10 000 habitants.

    Comme le résume Andrée Corvol, ces lois répondaient à la contradiction engendrée par la croissance urbaine : « Laisser les cités se densifier, c’était condamner leur #verdure intramuros. Laisser les cités s’étaler, c’était la réduire extramuros. » En somme, le PAEE envisageait la maîtrise d’un étalement urbain anarchique à travers une #végétalisation programmée des nouveaux quartiers et non ajoutée après coup de manière à les embellir.

    Au demeurant, le PAEE n’empêcha pas la construction à la va-vite, tout au long des Trente Glorieuses, d’ensembles minéraux destinés à reloger en urgence les déplacés de la Seconde Guerre mondiale. Le végétal servait alors à procurer bien-être et bien-vivre à des citadins toujours plus nombreux, en leur camouflant les désagréments des villes industrielles. Ainsi, à Gennevilliers (Hauts-de-Seine), le parc des Chanteraines et ses 82 hectares dissimulent aux promeneurs les usines de béton qu’on verrait autrement depuis les immeubles d’habitation.

    L’arbre source de #conflits

    Toutefois, l’adoption des arbres en ville ne se fit pas sans heurts. Au contraire, la plantation, l’emplacement ou le type d’essence nourrirent durant quatre siècles un ensemble de contestations qui se déployèrent autour des arbres, pris comme emblèmes ou point de départ d’un conflit.

    Andrée Corvol parvient de la sorte à brosser une surprenante histoire de la #Révolution_française à travers ses arbres fétiches : aux « #arbres_de_mai » plantés spontanément en 1789 par des villageois enthousiastes succédèrent l’année suivante les arbres de la Fédération, impulsés par le marquis de La Fayette et les partisans de la monarchie constitutionnelle, puis, en 1792, les arbres de la liberté, destinés à enraciner, de manière physique et symbolique, la nouvelle République.

    Au cours de la période révolutionnaire, les arbres subirent tout autant que les humains les brusques changements de pouvoir. Ainsi, les peupliers plantés par les jacobins, qui rapprochaient naïvement populus et « petit peuple », furent souvent pris pour cible par les opposants à la Terreur, qui manifestaient au travers d’écorces mutilées ou brisées leur dissidence. Face à pareil conflit, le Directoire, le Consulat puis le Premier Empire tentèrent de finir la Révolution en aménageant des promenades urbaines pour calmer les esprits en offrant de nouveaux espaces de détente.

    Ces conflits politiques se doublaient en outre de conflits de classe. Dans le Paris haussmannien, les quartiers cossus réservaient « leurs » arbres aux nourrices et en chassaient les vagabonds, tandis que les quartiers ouvriers les gardaient pour leurs familles, au détriment des jeunes. En somme, « l’arbre était au centre de revendications territoriales. Il en supportait les conséquences sociétales, tout comme l’arbre de la liberté, les conséquences politiques ».

    Les investisseurs ont droit de vie ou de mort

    À ces combats s’ajoute une question cruciale : qui paye les plantations ? Les différents régimes issus de la Révolution, optimistes, crurent fidéliser les citoyens à leur cause en leur faisant financer eux-mêmes les nouvelles plantations urbaines. Peine perdue : versatile, seule une fraction de citoyens payait — et encore lorsque les fonctionnaires les y pressaient. Le volontarisme citoyen ne fonctionne qu’en de rares occasions et sur des points bien précis. En décembre 1999, une souscription populaire à la suite des tempêtes Lothar et Martin permit certes de financer la replantation des jardins du château de Versailles, mais les 2 millions d’arbres brisés en Seine-et-Marne ne connurent pas autant de succès.

    Au XIXe et XXe siècles, ce furent donc surtout les municipalités qui payèrent les plantations et leur entretien. Mais, hormis Paris et quelques grandes villes, beaucoup d’entre elles, par manque de fonds, privilégièrent des essences communes et connues de tous — le chêne, le marronnier, le platane, etc. — au détriment d’une réelle biodiversité végétale.

    En tant qu’investisseurs, les édiles se réservaient aussi le droit d’abattre les arbres lorsqu’ils les jugeaient vétustes ou faisant obstacle à de nouveaux projets d’aménagement, quitte à s’aliéner une partie de leurs administrés, témoin la bataille qui opposa plusieurs semaines en 2018 les habitants de la Plaine à la municipalité marseillaise.

    Ce dernier exemple illustre le peu de poids des arbres en ville. À peine mieux traités que du mobilier urbain par les services d’aménagement, ils furent forcés de s’acclimater, en dépit de leur métabolisme lent, au rythme de la ville moderne : tramway, métro, grands boulevards, éclairage nocturne, etc. Et, lorsqu’ils dérangeaient, on les abattait froidement.

    On mesure l’ampleur du désastre aux quelques chiffres que consigne l’historienne : si, en 1895, le réseau routier national français comptait 3 millions d’arbres, soit 49 % des routes plantées, un siècle plus tard il n’en dénombrait plus que 250 000, soit 12 % des routes. En cause : le caractère accidentogène des arbres en bord de route… Quelques défenseurs des arbres émergèrent bel et bien dès le milieu du XIXe siècle, mais se consacrèrent pour l’essentiel aux massifs forestiers ou aux trognes des campagnes en voie de disparition, rarement aux plantations urbaines, trop évanescentes.

    L’ouvrage achevé, une question se pose, à laquelle Corvol ne répond pas : qu’est-ce qu’une ville végétale digne de ce nom ? Si, comme le montre l’historienne, l’arbre a certes gagné sa place en ville, il s’agit d’une place strictement utilitaire, où la folie créatrice du sauvage n’a pas lieu d’être.

    https://reporterre.net/Comment-les-arbres-ont-conquis-les-villes

    #arbres #villes #urbanisme #urban_matter #végétation

    • L’arbre dans la cité : histoire d’une conquête (XVIIe-XXIe siècle)

      Autrefois, l’arbre en ville était cantonné aux enclos vivriers, il n’ombrageait pas nos routes ni nos fleuves et nos canaux. Vivant plutôt à la campagne, il procurait bois, fruits, fibres et feuilles. Aujourd’hui, le végétal entre en force dans nos cités par trop minérales ; il améliore nos conditions de vie, protège le sol, régule la température, purifie l’air et atténue les bruits.
      Comment l’arbre a-t-il conquis le pavé ? Cette histoire, moins utilitaire et monolithique qu’il n’y paraît, croise en fait celle de la modernité, et mérite d’être racontée. Car, bien avant la révolution industrielle et son introduction dans la cité pour assainir l’air, l’arbre s’y est fait une place dès la Révolution, comme symbole de la liberté.
      Récupéré dans le champ politique, il a depuis servi à commémorer un événement, à symboliser l’autorité, à améliorer l’aménagement urbain ou encore à satisfaire le besoin de nature des administrés. Ce faisant, il a suscité à la fois colères et affections. Une histoire qui est ainsi celle des hommes, de leurs revendications et de leurs aspirations. Mort ou vif, l’arbre fait partie du roman national.

      https://www.placedeslibraires.fr/livre/9782746527393-l-arbre-dans-la-cite-histoire-d-une-conquete-xviie-x
      #livre

  • Battle of Navarino
    https://en.m.wikipedia.org/wiki/Battle_of_Navarino


    Dans les pays capitalistes on ne nous apprend pas à l’école que les guerres et conflits actuels sont la continuation des conflits de l’ère de la montée de l’occident industrialisé capitaliste. Les nations qu’on connaît sont le produit des besoins de la restructuration du monde selon les exigences du capital industriel et financier moderne.

    L’idée de l’état nation comme expression de la volonté d’un peuple est un leurre. Les idées nationalistes ne sont que l’expression sentimentale et idéologique des forces économiques au travail. En 1827 la volonté des Grecs de se libérer de la cruelle exploitation par l’empire féodal ottoman a servi de prétexte bienvenu aux maîtres des pays capitalistes pour se défaire des douanes et rançons ottomans gênant leur commerce. Leur alliance avec la Russie féodale ne contredit pas ce résultat d’analyse historique.

    La première guerre de l’opium de 1839 se passe dans le même contexte d’expansion capitaliste lancé par la multiplication des forces productives par l’industrialisation et élimine encore des limites aux échanges commerciales et financières.

    Encore aujourd’hui les luttes de libération nationales sont soumis au forces de gravitation exercées par les poids lourds économiques et militaires. Quand on regarde le conflit en Palestine entre le peuple palestinien à qui l’état d’Israël et ses citoyens les plus brutaux ont volé ses terres, on identifie facilement les forces de gravitation antagonistes à l’oeuvre. L’Ukraine est une autre preuve exemplaire pour l’existence des mécanismes impérialistes développés d’abord àl’époque de la bataille de Navarin.

    Ces observations conduisent la conclusion qu’il n’y aura pas de libération des peuples par la création d’états nation.Pour y arrver il faudra éliminer les capitalistes et exploiteurs au pouvoir et construire des états indépendants gouvernés par les peuples en lutte pour l’union mondiale.

    Grâce au technologies de production, de communication et de transport modernes nous sommes plus proches que jamais d’une société humaine. N’oublions jamais que par rapport aux capacités entièrement développés de notre espèce nous vivons toujours en Préhistoire.

    The Battle of Navarino was a naval battle fought on 20 October (O. S. 8 October) 1827, during the Greek War of Independence (1821–29), in Navarino Bay (modern Pylos), on the west coast of the Peloponnese peninsula, in the Ionian Sea. Allied forces from Britain, France, and Russia decisively defeated Ottoman and Egyptian forces which were trying to suppress the Greeks, thereby making Greek independence much more likely. An Ottoman armada which, in addition to Imperial warships, included squadrons from the eyalets of Egypt and Algiers, was destroyed by an Allied force of British, French and Russian warships. It was the last major naval battle in history to be fought entirely with sailing ships, although most ships fought at anchor. The Allies’ victory was achieved through superior firepower and gunnery.

    #Europe #Grèce #Turquie #USA #Russie #France #histoire #guerre_de_libération #nationalisme #capitalisme.#féodalisme #industrialisation #bataille_navale #voiliers

    • 1812
      https://de.m.wikipedia.org/wiki/1812

      27. Februar: Lord Byron äußert im britischen House of Lords Verständnis für den Luddismus und verteidigt die Maschinenstürmer seines heimatlichen Wahlkreises.

      11. März: Das Preußische Judenedikt von König Friedrich Wilhelm III. verfügt die Gleichstellung jüdischer Bürger in Preußen.

      13. Mai: Ludwig van Beethoven vollendet seine 7. Sinfonie.

      12. Juni jul. / 24. Juni greg.: Napoleon befiehlt bei Kaunas den Bau von drei Schiffsbrücken und den Übergang über die Memel. Damit überschreitet er die Grenze und greift Russland an. Der Russlandfeldzug 1812 beginnt. Bis zum 30. Juni folgt die Grande Armée mit rund 500.000 Soldaten.

      18. Juni: Die Vereinigten Staaten erklären Großbritannien den Krieg: Damit beginnt der so genannte Krieg von 1812 unter Präsident James Madison

      12. August: Mit der Middleton Railway nimmt die weltweit erste Zahnradbahn in England ihren regulären Betrieb auf. Sie verbindet zum Kohletransport eine Kohlenzeche in Middleton, West Yorkshire, mit Leeds. Seit dem 24. Juni fährt auf der Strecke die Salamanca, die erste wirtschaftlich erfolgreiche Dampflokomotive Englands.
      – Jean Baptiste Joseph Fourier legt seine Arbeit über Fourier-Reihen der Akademie der Wissenschaften in Paris vor.
      – Siméon Denis Poisson entwickelt seine Poisson-Gleichung für das elektrische Potential eines stromdurchflossenen Leiters.
      – Jean Louis Burckhardt beschreibt erstmals hethitische Inschriften (Hama-Steine).

      16. Dezember: Die geschlagenen Reste der Grande Armée überqueren die Memel und erreichen Ostpreußen. Nur 5.000 von ehemals 500.000 Soldaten haben die Flucht vor den nachrückenden russischen Verbänden überlebt.

      20. Dezember: Auslieferung der ersten Exemplare von Grimms Märchen (Erstauflage)

      30. Dezember: Konvention von Tauroggen. Der preußische General Yorck schließt einen lokalen Waffenstillstand mit Russland.

      1912

      29. Dezember: Geburt meiner polnischen Großmutter in Schlesien.

      https://www.youtube.com/watch?v=3i4f3NtLp5E

  • The reconquest of economic sovereignty in Africa - ROAPE
    https://roape.net/2023/04/25/the-re-conquest-of-economic-sovereignty-in-africa

    Caroline Cornier reflects on a conference held in Dakar that focused on the challenges facing the continent in the context of ecological, economic, and political crisis.

    #Afrique #Souveraineté_économique #Déconnexion #Industrialisation #Agriculture #Souveraineté_monétaire #Franc_CFA #Dette #Industrie_extractive

  • #Jean_Grave #machinisme #industrialisme #consumérisme #capitalisme #anarchisme #anticapitalisme

    ★ Jean Grave : Le Machinisme (1898) - Socialisme libertaire

    La révolution est fatale, avons-nous dit, et, pour celui qui étudie les phénomènes sociaux, ce n’est pas une affirmation en l’air, ce n’est que la constatation d’une vérité qui nous crèverait les yeux, si la complexité de ces mêmes phénomènes ne nous en cachait la marche réelle, en enchevêtrant leurs effets de telle sorte que, bien souvent, nous prenons les effets pour des causes, et les causes pour des effets.
    C’est ainsi que beaucoup de travailleurs, frappés de ce fait brutal : leur remplacement par le machinisme, ont pris celui-ci en haine, en sont arrivés à en désirer la suppression, ne s’apercevant pas qu’ils n’en restaient pas moins, eux, à l’état de machines à produire ; que la suppression des machines ne leur apportait qu’une amélioration relative et toute momentanée, qui ne tarderait pas à disparaître par la rapacité des exploiteurs.
    Dans la société actuelle, cela est de toute évidence, la machine porte un grand préjudice aux travailleurs, quoi qu’en disent les économistes qui font ressortir que l’outillage mécanique économise les forces de l’ouvrier, qu’en réduisant les frais de production elles amènent le bon marché des produits dont profitent les travailleurs en tant que consommateurs. Cela n’est que le beau côté de la chose, qui serait vrai entièrement si la société était mieux organisée ; mais, actuellement, de par l’exploitation du capital, cela est loin d’être exact (...)

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    ▶️ https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/01/jean-grave-le-machinisme.html

  • #luddisme #industrialisme #machinisme #capitalisme #productivisme... #anticapitalisme

    🛑 Faut-il casser les machines ? Quand la révolte luddite nous inspire - Frustration Magazine

    La révolte luddite (1811-1813, environ) prend place dans le contexte de « la révolution industrielle » britannique, qui fut bien plus qu’une transformation des techniques, mais bien « un changement idéologique et culturel radical ». En effet, au-delà de l’apparition des technologies à proprement parler, elle s’est traduite par la baisse du nombre de paysans, par l’urbanisation, le « démantèlement des communautés autonomes », l’aggravation des inégalités, par la « prédominance des valeurs de profit, de croissance, de propriété et de consommation » et l’imposition d’une idéologie positiviste. Le premier mérite de l’ouvrage est de casser l’idée selon laquelle cette révolution se serait déroulée de manière naturelle, poussée par la nécessité du « progrès » alors qu’elle est le fruit de « toute une série de lois, de réformes » et de répressions des résistances. En 1812, casser une machine est tout simplement passible de la peine de mort par pendaison (...)

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    ▶️ https://www.frustrationmagazine.fr/faut-il-casser-les-machines-quand-la-revolte-luddite-nous-inspir

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  • #luddisme #industrialisme #machinisme #capitalisme #productivisme...
    #anticapitalisme #anarchisme #autogestion

    ★ Des idées et des luttes : La révolte luddite – 🔴 Info Libertaire

    La révolte luddite, voilà un titre bien mystérieux relatif à un mouvement apparu au début du 19ème siècle en Angleterre et bien oublié de nos jours. Pourtant des points convergent avec certaines luttes actuelles et donnent à réfléchir grâce au travail méticuleux de l’auteur, Kirkpatrick Sale, et des éditions L’Echappée.

    Quelle est la cause du luddisme ? Selon l’auteur, l’industrialisme est inséparable de l’accaparement des ressources et de la perte des savoir-faire des professionnels. La révolution industrielle se traduit par une profonde misère et les tondeurs du Yorkshire, les tisserands des métiers à bras engagent une révolte contre les machines mais aussi et surtout contre les conséquences sociales du machinisme. Ils ont souvent été considérés comme des obscurantistes incapables d’apprécier le progrès. En réalité, ils protestaient contre la confiscation de la signification du travail. Cette approche se traduit aujourd’hui dans l’automatisation et le devenir d’un individu rouage de la machine. Chaplin l’a fort bien représenté dans Les temps modernes. Orwell en fera souvent état dans ses textes. « Si les machines industrielles rendent les ouvriers étrangers à la production, c’est parce que les machines de l’usine sont essentiellement conçues pour faire d’eux leur exécutants, privés de pensée et de parole (...) »

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    ▶️ https://www.infolibertaire.net/des-idees-et-des-luttes-la-revolte-luddite

  • 🛑 🌧 💥🌍 #écologie #environnement #climat #déforestation #pollution #air #productivisme #consumérisme #croissancisme #industrialisme #extractivisme #dérèglementclimatique #inondation #sécheresse #canicule...

    #Anticapitalisme #antiproductivisme #décroissance #anarchisme

    🛑 Promis à de brillantes carrières, des jeunes désertent pour « démanteler » le système - Basta !

    Des ingénieures et ingénieurs préfèrent quitter la voie toute tracée que leur promettaient leurs grandes écoles pour s’engager collectivement, amorcer un virage écologique radical et dessiner d’autres modalités d’existence. Témoignages (...)

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    ▶️ https://basta.media/promis-a-de-brillantes-carrieres-des-jeunes-desertent-pour-demanteler-le-sy

  • Nous jouons tou·tes à la roulette COVID. Sans air sain, la prochaine infection pourrait vous handicaper de manière permanente | George Monbiot
    https://cabrioles.substack.com/p/nous-jouons-toutes-a-la-roulette

    Vous pouvez voir le Covid-19 comme un test d’empathie. Qui était prêt·e à subir des perturbations et des désagréments pour le bien des autres, et qui ne l’était pas ?

    George Monbiot est un écrivain britannique connu pour son activisme environnemental et politique. Il écrit une chronique régulière pour The Guardian et est l’auteur de nombreux livres, dont récemment This Can’t Be Happening et Regenesis.

    Vous pouvez voir le #Covid-19 comme un test d’empathie. Qui était prêt·e à subir des perturbations et des désagréments pour le bien des autres, et qui ne l’était pas ? La réponse était souvent surprenante. Je pense, par exemple, à cinq écologistes de premier plan qui ont dénoncé les confinements, les vaccins et même les masques comme des intrusions intolérables dans nos libertés, tout en ne proposant aucune mesure significative pour empêcher la transmission du virus. Quatre d’entre eux sont devenus des propagateurs actifs de la désinformation.

    Si l’environnementalisme signifie quelque chose, c’est que nos gratifications nuisibles doivent passer après les intérêts des autres. Pourtant, ces personnes ont immédiatement échoué à ce test, plaçant leur propre confort au-dessus de la santé et de la vie des autres.

    Aujourd’hui, il y a encore moins d’excuses, car nous sommes devenus plus conscient·es du coût de l’inaction. L’une des justifications de l’égoïsme était que la libre circulation du virus renforcerait l’immunité collective. Mais nous disposons désormais de nombreuses preuves suggérant que l’exposition ne renforce pas notre système immunitaire, mais qu’elle peut l’affaiblir. Le virus attaque et épuise les cellules immunitaires, si bien que chez certaines personnes, le dysfonctionnement immunitaire persiste pendant des mois après l’infection.

    .... tout comme le choléra a été arrêté en assainissant l’eau, le Covid sera arrêté en assainissant l’air. Le virus prospère dans les espaces partagés mal ventilés, notamment les salles de classe, où les élèves restent assis·es ensemble pendant de longues périodes. Une étude a montré que les systèmes de ventilation mécanique dans les salles de classe réduisent le risque d’infection de 74 %.

    #air

  • WOBBLIES (BD) - recension

    On sait que les USA, leader auto-proclamé du « monde libre » et champion toutes catégories de la « démocratie » est un pays qui s’est construit sur le colonialisme, l’esclavagisme et le développement effréné d’une révolution industrielle capitaliste incontrôlable dont il reste encore le modèle d’une dégénérescence planétaire qui n’en finit plus de s’aggraver.

    N’en rester qu’à cette vision (déprimante) pourrait inciter à passer sous silence les différentes formes de résistance qui se sont construites pour s’opposer au pouvoir démesuré des gouvernants du pays de l’oncle Sam.

    Avec Wobblies (éditions Nada), récit historique en BD, on (re)découvre comment cette résistance s’est constituée sous la forme du syndicalisme d’action directe, au cœur même de l’empire. Même si l’ouvrage présente la continuité sur un siècle des Industrial Wokers of the World (IWW), force est de reconnaître que ce sont les 15 premières années de cette histoire sociale qui représentent le principal intérêt de cet ouvrage.

    IWW s’est créé en 1905 en tant qu’union de syndicats d’industries (organisations par branches entières), sans aucune discrimination - femmes, afro-américains ou autres « minorités » accueilli·es à bras ouverts- sur les principes de lutte de classe (antagonisme d’intérêts entre les travailleurs et les patrons), de l’action directe (indépendance vis à vis des partis et d’autres formes de délégation) et de l’internationalisme (contrairement aux syndicats européen – dont la CGT – les Wobblies se sont opposés à la boucherie de 14-18). Autant de points qui représentaient une opposition frontale vis à vis des autres syndicats corporatistes et réformistes existant alors aux USA.
    Ce livre retrace bien comment les patrons, aidés par les autorités locales ou fédérales, se sont opposés de la façon la plus brutale à cette force révolutionnaire mais aussi comment celle-ci s’est constituée pour organiser la résistance, la solidarité et parfois la victoire.

    Plusieurs personnalités marquantes des premiers Wobblies (nom donné aux syndicalistes des IWW) sont présentés : William Haywood, Lucy Parsons, Mary Harris Jones, Carlo Tesca, Joe Hill, Ben Fletcher, Frank H. Little, les frères Magón, etc.

    Plusieurs artistes ont contribué à la réalisation de ce recueil de bandes dessinées en noir et blanc. L’ouvrage est découpé en 6 principaux chapitres, chacun débutant avec une introduction purement textuelle. On est parfois désarçonné par quelques transitions difficiles entre les récits, à cause des différences stylistiques des bédéistes mais la lecture est passionnante, pour les esprits curieux en histoire sociale et la qualité graphique ne gâche rien au plaisir.

    https://www.nada-editions.fr/produit/wobblies

    #IWW #Wobblies #Industrial_workers_of_the_world #syndicalisme_révolutionnaire #syndicalisme_d_action_directe #anarcho_syndicalisme #recension #BD #bande_dessinée

  • Semences sous influences

    Une plongée dans l’univers des semences, enjeu de pouvoir et de contre-pouvoir entre les #multinationales et l’#agriculture paysanne.

    L’#alimentation figure en bonne position parmi les problématiques clés de notre société actuelle. De tout temps, le monde agricole a sélectionné ses semences pour améliorer sa production mais, depuis quelques décennies, des variétés sans cesse plus sophistiquées sont créées au service d’un #productivisme effréné. Les technologies mécaniques, chimiques, biologiques ou génétiques, alliées à l’#industrialisation, à la course perpétuelle au #rendement nous ont conduit à un désastre environnemental, alimentaire et sanitaire.

    Sans même parler des fameux #OGM, dont l’usage reste heureusement strictement encadré en Europe, l’#agriculture_intensive, la #surexploitation des #terres, l’usage de semences dites « hybrides » ont rendu l’agriculture dépendante de produits nocifs pour l’ensemble du vivant.

    Face à cette agriculture dominante, de petits agriculteurs développent, à l’échelle nationale et européenne, une alternative autour des semences anciennes. Mais le combat pour faire valoir leur droit à l’utilisation de semences non issues de laboratoires industriels est rude. En effet, la législation – et les critères de validation pour faire entrer les semences au « #Catalogue-officiel » – favorisent les produits industriels, et les agriculteurs agroécologiques ont été contraints d’opérer en toute illégalité durant des décennies.

    Avec « Semences », Renaud De Heyn nous invite à découvrir les coulisses d’un secteur au sein duquel les intérêts privés l’emportent trop souvent sur la préservation de l’environnement et la santé publique...

    https://www.la-boite-a-bulles.com/book/616
    #semences #graines #BD #livre
    #industrie_agro-alimentaire #semences_hybrides #dépendance #résistance #semences_anciennes #législation #loi #désobéissance_civile #bande_dessinée

    ping @odilon

  • Mietskasernenstadt Berlin: Als Wohnen todkrank machte
    https://www.berliner-zeitung.de/b-history/wohnen/mietskasernenstadt-berlin-als-wohnen-todkrank-machte-li.224536

    21.5.2022 von Dr. Michael Brettin - Ein Gefühl der Beklemmung beschleicht den Journalisten Albert Südekum, als er an einem Augusttag Mitte der 1890er-Jahre mit einem Arzt ein Hinterhaus in #Wedding betritt. Seine „erste Forschungsreise in das dunkle Land der Berliner Armenwohnungen“ – so umschreibt er den Besuch in dem „Massenmietshaus“ im Buch „Großstädtisches Wohnungselend“ 1908 – führt ihn in den dritten Stock, zu einer Familie, die das einzige Zimmer ihrer Wohnung notgedrungen untervermietet hat und in der Küche lebt.

    „Nur wenig ärmlicher Hausrat fand sich in dem unwohnlichen Raum“, schreibt Südekum. „Auf der kleinen eisernen Kochmaschine standen ein paar Töpfe, die nach dem letzten Gebrauch noch nicht gereinigt waren; den einzigen Tisch bedeckten ein paar Teller und Gläser, Zeitungsblätter, Kamm, Bürste und Seifenschale, eine Schachtel mit Salbe zum Einreiben, Teller mit Speiseresten und andere Gegenstände. Der geringe Kleidervorrat der Familie hing an den Wänden; ein paar halbverblaßte Familienbilder und ungerahmte Holzschnitte aus einer illustrierten Zeitung bildeten den einzigen Schmuck.“ Es gibt noch eine Kommode, einen Korblehnstuhl und zwei Holzschemel sowie ein Bett, „das eigentlich nur aus einem Haufen zerrissenen Zeuges auf einer knarrenden, buckligen Matratze bestand“.

    Es ist ein Urbedürfnis des Menschen: ein Dach über dem Kopf. Darunter findet sich Geborgenheit aber nicht von allein. „Ein Haus wird gebaut, aber ein Zuhause wird geformt“, wie das Sprichwort besagt. Ein Zuhause in Berlin war schon immer in vielerlei Hinsicht besonders.

    Fünf Menschen leben in dieser Küche: ein Ehepaar, seine 14-jährige Tochter und seine etwa sieben und vier Jahre alten Söhne. Die Frau liegt in dem Bett; sie ist, als sie Zeitungen austrug, auf einer Treppe umgeknickt, hat sich dabei einen Fuß verstaucht und eine Sehne gezerrt. Bettruhe kann sie sich nicht leisten. Ihre Familie ist auf das Geld, das sie als Zeitungsausträgerin verdient, angewiesen. Ihr Mann ist Gelegenheitsarbeiter und derzeit als Flaschenspüler bei einem Bierverlag (Getränkegroßhandel) tätig, sein Lohn ist dürftig. Der Unfall ist für die Eheleute ein Schicksalsschlag.

    „Jedesmal, wenn es schien, als ob es ihnen dauernd etwas besser gehe“, schreibt Südekum, „waren sie durch eine Krankheit oder durch ein, manchmal verfrühtes, Wochenbett – die Frau hatte im ganzen deren sechs durchgemacht – oder einen Todesfall wieder zurückgeworfen worden.“

    Berlin war zu jener Zeit dem Stadtbauexperten Werner Hegemann zufolge die größte „Mietskasernenstadt“ der Welt. Sie erwuchs aus dem „Bebauungsplan der Umgebungen Berlins“ vom 18. Juli 1862. Der aus der Feder von Regierungsbaumeister James Hobrecht stammende Plan sollte die stetig größer werdende #Wohnungsnot lindern. Die #Industrialisierung lockte immer mehr Menschen vom Land in die Stadt. Die Bevölkerung Berlins vergrößerte sich von etwas mehr als 170.000 im Jahr 1801 auf fast 550.000 im Jahr 1861. Über 15 Prozent der Bewohner mussten sich mit acht, neun oder gar zehn Personen ein Zimmer teilen.

    Der „#Hobrecht-Plan“ sah ein weitmaschiges Straßennetz und große Baublöcke vor. Die Grundstücke zogen sich tief in das Blockinnere; die Bauordnung erlaubte es, die fünfgeschossigen Häuser sehr nah beieinander zu errichten. Innenhöfe mussten nur 5,34 mal 5,34 Meter groß sein. Das entsprach der Fläche, die ein von Pferden gezogenes Feuerlöschfahrzeug zum Wenden benötigte.

    Die dichte Bauweise glich der einer Kaserne. Die Mietskaserne wiederum entsprach der Klassengesellschaft. Im Vorderhaus lockten großzügig angelegte und gut ausgestattete Wohnungen. Ihre Fläche erstreckte sich in den #Seitenflügel, ein Durchgangszimmer (#Berliner_Zimmer) führte dorthin. Im Hinterhaus (#Quergebäude) versteckten sich kleine, minderwertig gefertigte, sonnenlichtarme bis -lose Bleiben, die in der Regel aus einer Stube, einer Küche und einer Kammer bestanden.

    Die Wohnqualität nahm nach oben und unten sowie nach hinten ab. „An den beiden Endpunkten der räumlichen Einheit #Mietskaserne, im Keller und unterm Dach, finden wir die Ärmsten der Armen, die nur die geringstmögliche Miete bezahlen konnten“, schreibt die Historikerin Rosmarie Beier, „chronisch Kranke und Invalide, Tagelöhner, den schon sprichwörtlich gewordenen armen Schuster, abgearbeitete, verhärmte Näherinnen, Lumpensammlerinnen und Zeitungsfrauen, Witwen, die sich mit ihren Kindern mühselig durchs Leben schlugen.“
    Der Tod lauerte im Hinterhaus

    Eine Extremform des Wohnungselends war das „#Trockenwohnen“. Neubauten mussten etwa drei Monate lang austrocknen, bevor sie bezugsfertig waren. Die zeitweilige Vermietung der feucht-kalten Wohnungen an besonders arme Haushalte beschleunigte den Vorgang. „Trockenwohner“ umgingen die Obdachlosigkeit, ruinierten jedoch ihre Gesundheit.

    Wobei: Die Mietskaserne machte auch spätere Bewohner krank. Die Wohndichte, Licht- und Luftmangel, Feuchtigkeit und Schimmelbefall förderten Infektionskrankheiten wie #Tuberkulose und #Ruhr. Frauen, die hausindustriell beschäftigt waren, litten unter Augenbeschwerden, Kopfschmerzen, Durchblutungsstörungen, Bleichsucht (Blutarmut), Magenbeschwerden durch Stress. Und das täglich stundenlange Treten einer Nähmaschine führte zu Früh- und Fehlgeburten.

    Eine Statistik aus dem Jahr 1905 legt nahe, dass der Krankheitsverlauf eines Menschen davon abhing, ob er in einem Vorder- oder einem Hinterhaus wohnte. Demnach starben Mieter in einem Hinterhaus öfter an Diphtherie oder auch Kindbettfieber. Die Gefahr einer tödlich verlaufenden Masernerkrankung war dort dreimal so. Die Säuglingssterblichkeit lag in jenem Jahr im armen Wedding bei 42 Prozent, im wohlhabenden Tiergarten bei 5,2 Prozent.

    Nachteile seines Bebauungsplans sah James Hobrecht selbst schon 1868. „Mehr Raum für die Höfe!“, forderte er. „Das Vierfache der Dimensionen, welche die Berliner Baupolizeiordnung verlangt, ist nicht zu viel, ist kaum genug, wenn wir für unsere Hinterzimmer noch Sonne, Licht und Luft in genügender Qualität und Güte behalten wollen.“ Seine Forderung fand kein Gehör, die Wohnungsbauwirtschaft, komplett in privater Hand, stellte sich taub, allen voran die „Terraingesellschaften“: Deren Geschäft bestand darin, große Grundstücke zu kaufen, sie zu parzellieren und zu erschließen und die Parzellen gewinnträchtig zu verkaufen.

    Wohnungsnot und -elend nahmen mit der Hauptstadtwerdung Berlins infolge der Gründung des Deutschen Reichs zu. Die Stadt entwickelte sich zum Industrie- und Finanzzentrum Mitteleuropas. Die Zahl ihrer Bewohner wuchs von 825.000 im Jahr 1871 auf eine Million 1877 und auf 1,7 Millionen 1895. Mietskaserne auf Mietskaserne entstand.

    Die neuen Viertel zogen sich sichelförmig um die Innenstadt: vom Nordwesten bis in den Süden – von #Moabit über #Gesundbrunnen und #Wedding, Oranienburger und #Rosenthaler_Vorstadt, #Königsviertel und #Stralauer_Viertel bis #Luisenstadt. „Die Hauptmasse der Stadt macht den Eindruck, als wäre sie erst vorige Woche erbaut worden“, schrieb der Schriftsteller #Mark_Twain nach einem Besuch im Winter 1891/92. Berlin sei „das Chicago Europas“.

    Mitte der 1890er-Jahre bewohnten 43,7 Prozent der Berliner nur ein beheizbares Zimmer. Eine Gemeinschaftstoilette auf dem Treppenhauspodest (halbe Treppe) oder im Hof nutzten mitunter 40 Personen. Zahlen seien wenig aussagekräftig, schreibt Albert Südekum. Außenstehende könnten nicht ermessen, was es bedeute, wenn bis zu zehn Menschen zugleich „in sogenannten ,Wohnungen‘ hausen müssen, die nur aus einem jammervollen Loche bestehen, zu schlecht, als daß ein weichherziger Tierhalter seinen Gaul oder seine Kuh, ja seine Schweine hineinsperren möchte.“

    Meyers Hof in der #Ackerstraße 132/133 in Wedding gilt als Inbegriff der Mietskaserne: sechs Hinterhöfe, in denen auch mal Musiker aufspielen (hier 1932), 257 Wohnungen, in denen zeitweise 2100 Menschen lebten. Der letzte Block wurde 1972 gesprengt.

    Das Ehepaar, das der Journalist Südekum an jenem Augusttag aufsucht, kam Mitte der 1880er-Jahre aus einem Dorf in Pommern nach Berlin. Es ist seitdem durchschnittlich alle sechs Monate umgezogen, wegen der häufig wechselnden Gelegenheitsarbeitsstellen, bei denen der Mann mal mehr, mal weniger verdient. Dieses Schicksal teilt die Familie mit ungezählten anderen. Der Volksmund spottet: „Zehnmal umziehen ist wie einmal abgebrannt.“

    Das einzige Bett der Familie ist zu klein, als dass alle fünf darin schlafen könnten. Die drei Kinder nächtigen auf dem Küchenfußboden, auf ausgebreiteter Kleidung. Die Tochter kümmert sich tagsüber um den Haushalt und verdient als „Ausläuferin“ (Botengängerin) etwas Geld.

    Der Mann weilt nach Feierabend selten zu Hause. Es ist nicht bekannt, ob er sich in einer der zahlreichen Kneipen herumdrückt, wie so viele andere Männer, denen die leidende Familie auf die Nerven geht. Seine Frau hat wie alle Frauen, die Ehe- und Hausfrau, Mutter und Erwerbstätige in einer Person sind, nie Zeit für sich. Sie ist mit ihren Kräften am Ende, körperlich wie seelisch. Der Herr Doktor möge sie, fleht sie, in ein Krankenhaus schaffen und ihre Kinder in ein Waisenhaus bringen; sie fürchte, „den Verstand zu verlieren und sich aus dem Fenster zu stürzen“.
    Eine Familie haust zu elft im Keller

    Die Not der Arbeiterfamilien rückte in den 1890er-Jahren in das Blickfeld der Öffentlichkeit. Der Vorwärts, die #SPD-Zeitung, bei der Albert Südekum 1895 volontierte, veröffentlichte bis in das Jahr 1903 hinein fast wöchentlich Mitteilungen der Arbeiter-Sanitätskommission über menschenunwürdige und gesundheitswidrige Wohnungszustände.

    Und die „Wohnungs-Enquete“ der Ortskrankenkasse für den Gewerbebetrieb der Kaufleute, Handelsleute und Apotheker (ab 1914 hieß sie Allgemeine Ortskrankenkasse/AOK) dokumentierte von 1901 bis 1920 den Zusammenhang zwischen Wohnelend und Erkrankungen. Die Ortskrankenkasse wollte Politiker und andere Verantwortliche aufrütteln, wollte, dass sie gegen das Wohnungselend vorgehen, im Interesse der „#Volksgesundheit“, aber auch aus Eigennutz, bedeuteten doch mehr Kranke mehr Ausgaben.

    Die Enquete sammelte Daten über Bodenflächen, Höhenmaße und Kubikmeter Luftraum, über die Anzahl der Personen pro Raum und Bett sowie der Fenster, den Zustand der Zimmer, die Verfügbarkeit von Heizung und Toilette. Die fotografische Dokumentation durch die Firma Heinrich Lichte & Co. setzte 1903 ein; der erste Jahrgang erschien 1904, der letzte 1922.

    Die Aufnahmen sollten nicht Mitleid erregen, sondern Veränderung hervorrufen. Da ist das unter Blutarmut leidende 16-jährige Mädchen in der #Große_Hamburger_Straße: Die Wände ihrer Bleibe sind so feucht, dass Tapete von der Wand lappt und Holz der Fensterbretter fault. Oder der von Ekzemen geplagte 65-jährige Mann in der #Britzer_Straße: Das Klo über seiner Wohnung ist oft verstopft; wird das Rohr durchstoßen, sickern Fäkalien durch die Decke. Oder die elfköpfige Familie in einer Kellerwohnung in der #Friedrichsberger_S#traße: Der Vater ist an Tuberkulose gestorben; ein Mädchen, 15, ist wegen eines Lungenleidens erwerbsunfähig, ein anderes Mädchen und ein Junge sind ebenfalls lungenkrank.

    „Es ist nur ein ganz geringer Teil dessen, was wir an Wohnungselend kennen lernen“, schreibt Albert Kohn, Geschäftsführer der Ortskrankenkasse. Besonders bemerkenswert sei, dass „unsere Erhebungen bei Leuten gemacht wurden, welche zum grösseren Teile noch keine Armenunterstützung bezogen haben, sie erstrecken sich auch nicht auf die Arbeiterviertel allein.“ Zahlreiche Menschen würden „förmlich vegetieren“.

    Das Wohnungselend hielt an. Die 1895 einsetzende Hochkonjunktur, die bis 1913 die Reallöhne verdoppelte, kam un- und angelernten Arbeitern nicht zugute, auch weil sich die Lebensmittelkosten in jener Zeitspanne verdreifachten. „Sparsamkeit, das Rechnen mit dem Pfennig, selten eine Möglichkeit, finanzielle Rücklagen zu bilden, Verpfändung, Verschuldung und Mietrückstände im Falle von Krankheit und Erwerbslosigkeit – kurzum, Einschränkung, Entbehrung und Not kennzeichnen das Leben der Unterschichtsfamilien“, schreibt die Historikerin Rosmarie Beier. Die Mitarbeit von Frauen und Kindern sowie die Aufnahme von Untermietern („Schlafburschen“) habe das Leben „in vielen Fällen nicht wesentlich“ verbessert.

    Der Beginn der Weltwirtschaftskrise führte zu einer extremen Verelendung vieler Berliner Arbeiterhaushalte. Die Not trieb Familien 1932 in einen #Mietstreik. Es war nach 1919 der zweite in der Stadt. Ein Symbol für die hauptsächlich von Frauen getragene Streikbewegung wurde das zu einem Mietshaus umfunktionierte ehemalige Stadtgefängnis am #Molkenmarkt, genannt „Wanzenburg“. Die Monatsmiete für eine verwanzte Wohnzelle, knapp zwei Meter breit und viereinhalb Meter lang, betrug 21,50 Mark. Das entsprach etwa einem Drittel des Einkommens der dort Hausenden.

    Die Bewohner vieler Mietskasernen organisierten sich in Hausgemeinschaften, gaben die Parole „Erst Essen, dann Miete!“ aus und forderten, Mieten zu senken, Mietrückstände zu streichen, Klagen auf Exmission (Zwangsräumung) aufzuheben, Gebäude zu renovieren. Einige Proteste hatten Erfolg.

    Das Gefühl der Beklemmung beim Betreten der Mietskaserne in Wedding lässt Albert Südekum nicht los. Als Kommunalpolitiker und Reichstagsabgeordneter der SPD widmet er sich der #Wohnungspolitik. Er wünsche sich, schreibt er 1908, „eine helle Empörung über das furchtbare Wohnungselend der Großstadt mit all seinen Neben- und Folgeerscheinungen auszulösen“. Ein Vorwort zu seinem Buch soll dabei helfen, ein Spruch, der irrtümlich dem sozialkritischen Zeichner, Maler und Fotografen Heinrich Zille zugeschrieben wird: „Man kann einen Menschen mit einer Wohnung geradeso gut töten wie mit einer Axt.“

    Der Bau von Mietskasernen kam erst zu Beginn des Ersten Weltkrieges zum Erliegen. Die Weimarer Republik anerkannte die Wohnungs- und Krankenfürsorge als staatliche und kommunale Aufgabe. Berlin verbot 1925 den Bau von Mietskasernen mit Seitenflügeln und Quergebäuden in den Randbezirken.

    Das weitere Schicksal der fünfköpfigen Familie, die Albert Südekum an jenem Augusttag besucht hatte, ist nicht bekannt.

    #Berlin #Geschichte #Wohnen #Stadtentwicklumg #Kaiserzeit #Gründerzeit

  • Quand l’industrie rachète la terre
    Par Lucile Leclair

    https://aoc.media/opinion/2022/05/11/quand-lindustrie-rachete-la-terre

    Les #terres_agricoles recouvrent la moitié du territoire français. Ressources convoitées depuis toujours, elles font l’objet de luttes entre agriculteurs, mais pas seulement : elles sont aujourd’hui menacées par des #industries désireuses de maîtriser les matières agricoles. Avançant à bas bruit, elles posent une nouvelle question pour la campagne : assiste-t-on à un #accaparement qu’on croyait réservé aux pays de l’hémisphère Sud ?

    Depuis le début de la guerre opposant deux gros producteurs de céréales, les cours de l’huile, colza, blé ou maïs ont atteint des taux record. Des droits exceptionnels pourraient être accordés aux agriculteurs français, pour leur permettre d’utiliser les terres obligatoirement au repos. « La Commission va proposer d’adopter une suspension (des règles), afin qu’on puisse utiliser ces #terres pour la production protéinique, car il y a évidemment un manque de nourriture pour les #élevages » a indiqué à l’AFP le commissaire européen à l’agriculture Janusz Wojciechowski.
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    Il faut se représenter la terre comme le réservoir alimentaire du pays. Lorsque les incertitudes politiques se multiplient, le #foncier_agricole apparaît sous une lumière un peu plus crue. La terre, essentielle et stratégique, est gouvernée d’un peu plus près. Mais à qui revient-elle ? Depuis une dizaine d’années, la terre attire les grandes entreprises. Après avoir avalé la transformation des produits agricoles et la #distribution, elles investissent la production agricole elle-même. Enseignes de la grande distribution, leaders de l’#agroalimentaire, du secteur pharmaceutique ou du secteur cosmétique : ils sont de plus en plus nombreux à convoiter le patrimoine agricole.

    Au sud d’Orléans, Fleury Michon possède un élevage où naissent six-mille porcelets par an. À la ferme, des ouvriers font les travaux agricoles. À des centaines de kilomètres, les dirigeants de Fleury Michon surveillent sur leurs écrans les cours des matières premières. Ayant fondé sa croissance à l’origine dans le secteur commercial, cette entreprise fait à présent du contrôle de l’activité agricole un élément clé de sa stratégie.

    Posséder la terre présente trois atouts majeurs. D’abord, l’industriel assure lui-même son approvisionnement sans passer par les producteurs. Ensuite, ce contrôle direct des matières premières apporte plus de flexibilité pour répondre aux attentes changeantes du consommateur. Enfin, l’exploitation directe lui permet de se passer d’intermédiaires coûteux : agriculteurs, coopératives, négociants, etc.

    Mais le modèle de l’#agriculture de firme signifie la disparition du savoir-faire et de l’authenticité du métier agricole. Le paysan se transforme en exécutant au service d’un groupe industriel. En quoi est-ce un problème ? Le sol est un organe vivant, seul un agriculteur connaît sa terre. Une fois gérée à distance, la connaissance de la terre se perd.

    Ainsi, l’agriculture de firme contraint à une standardisation du vivant. Car organiser une ferme en fonction de schémas tout faits oblige à conformer le vivant. L’industrie a besoin de produits tous identiques, sa chaîne de production est conçue pour des poulets ou des cochons d’une taille adéquate, pour du riz ou des pommes de terre d’une variété donnée et d’un calibre unique. Le contraire d’une agriculture de proximité approvisionnant des marchés locaux.

    Déjà, les agriculteurs n’étaient plus entièrement maîtres de leurs décisions. Les industriels étaient souvent accusés de faire la pluie et le beau temps en matière de prix. Mais un autre glissement s’opère, un saut de plus dans l’histoire de l’#industrialisation de l’agriculture. À l’image d’autres secteurs de l’économie – la production de voitures ou l’industrie numérique avec les GAFAM –, il en découle une concentration des sociétés sans précédent. On avait déjà vu le remplacement de la supérette de quartier par une grande chaîne. Les petites et moyennes entreprises (PME) disparaissent, au profit des plus grandes. Ce mouvement gagne à présent l’agriculture.

    Mais pourquoi la terre voit-elle arriver des investisseurs auxquels elle avait échappé jusque-là ? Le monde rural, tout bucolique qu’il semble être, n’est pas simple. Un agriculteur sur cinq vit sous le seuil de pauvreté. À force de travailler soixante heures par semaine pour quelques centaines d’euros, avec des montagnes de crédit dont on ne voit pas le bout, l’amertume des agriculteurs grandit. Dans ce contexte, il n’est pas surprenant que les fortunes de l’industrie soient bienvenues là où l’argent manque.

    Les autorités de leur côté, ont de moins en moins de moyens pour faire garde-fou. Pour le comprendre, il faut se pencher sur les Sociétés d’aménagement foncier et d’établissement rural (Safer). Il en existe une par département. Placées sous tutelle du ministère de l’Agriculture et du ministère de l’Économie et des Finances, les Safer sont des sociétés anonymes sans but lucratif. Leur création en 1960 devait permettre à la puissance publique d’intervenir sur le marché des terres pour exercer une mission d’intérêt général, celle de redistribuer le foncier agricole en faveur des agriculteurs.

    Chaque Safer locale se voit obligatoirement informée lorsqu’une transaction est en vue, notamment quand un agriculteur vend ses terres au moment de partir à la retraite. Le code rural leur confère un pouvoir important avec un droit de préemption, qui leur permet d’acquérir le bien avant tout autre acheteur afin de fixer un nouveau prix et de faire un appel à candidature.

    Mais, en pratique, les exemples d’écarts abondent. Pourquoi les Safer acceptent-elles de vendre des terres à Fleury Michon ? Contacté au sujet de ce type d’opérations, Emmanuel Hyest, le président de la Fédération nationale des Safer, ne souhaite pas s’exprimer. Comment comprendre le dévoiement d’un organe d’État ? Déjà en 2014, la Cour des comptes critiquait une gestion « peu transparente » et recommandait un « meilleur encadrement ». Un écrit fut publié, il s’intitulait : « Les dérives d’un outil de politique d’aménagement agricole et rural ». Dans ce rapport, les magistrats reprochaient aux Safer de perdre de vue leur mission initiale : elles n’installent plus suffisamment de jeunes agriculteurs.

    La baisse drastique des moyens accordés aux Safer y est-elle pour quelque chose ? À leur création, elles étaient financées à 80% par des fonds publics. Mais ces subventions de l’État n’ont cessé de fondre et, depuis 2017, l’État ne finance plus du tout les Safer, sauf en Outre-mer. Le peu d’argent public qui reste – 2 % du budget en moyenne – provient essentiellement des régions. Aujourd’hui, 90 % du budget des Safer viennent des commissions qu’elles touchent sur les ventes. Et les 8 % restants sont issus d’études et de conseils, principalement à destination des collectivités territoriales.

    Quand le prix de la terre atteint de tels sommets, les jeunes agriculteurs ne peuvent pas suivre.

    Ainsi, la plupart de leurs recettes est désormais apportée par les transactions qu’elles réalisent pour vivre. Aujourd’hui sous-équipées, elles peinent à remplir leur mission. Pour maintenir leurs finances en bonne santé, elles ont intérêt à enchaîner les transactions et peuvent parfois mettre de côté leur objectif premier.

    En théorie, il est prévu que les Safer facilitent l’installation des jeunes agriculteurs. Mais lorsqu’un gros industriel se présente, elles ont du mal à dire non. À côté de Grasse, Chanel achète l’hectare à un million d’euros pour cultiver les fleurs qui entrent dans la composition de ses parfums. En proposant de tels prix, la société Chanel était sûre d’emporter le marché. À moins que la Safer locale ne s’y oppose : le code rural lui attribue la faculté d’utiliser son droit de préemption « avec révision de prix ».

    Si le tarif est surévalué, elle peut exiger une baisse. La Safer diffère alors la transaction, le temps de proposer au vendeur de nouvelles conditions conformes au prix local de la terre, fixé chaque année dans un document officiel, « Le Prix des terres ». Mais Chanel ne semble pas soumis aux mêmes lois que tous. La Safer locale autorise la vente. À ce sujet Emmanuel Hyest, le président national des Safer, ne souhaite pas non plus s’exprimer.

    Les perturbations pour le marché foncier sont pourtant réelles. La terre agricole voit s’affronter des prétendants à armes inégales. Quand le prix de la terre atteint de tels sommets, les jeunes agriculteurs ne peuvent pas suivre. Florian Duchemin se dit écœuré par cette « bagarre de l’hectare ». Après avoir recherché pendant quatre ans une parcelle pour s’installer en maraîchage dans la Drôme, il a dû trouver un travail dans l’informatique : « Vu le prix, bientôt il sera plus facile d’acquérir un trois-pièces à Paris qu’un hectare de terre arable. » « La concurrence est déloyale », conclut ce trentenaire en pointant des acheteurs qui viennent du monde industriel.

    Leur arrivée remonte au début des années 2010. Cette évolution survient au mauvais moment : un agriculteur sur quatre a plus de 60 ans. Dans les trois années à venir, 160 000 exploitations devront trouver un successeur. Qui seront les prochains paysans ?

    À l’origine de la création des Safer, le ministre du général de Gaulle puis de François Mitterrand, Edgard Pisani, avait imaginé cet outil comme des « offices fonciers » pour extraire les terres agricoles des logiques de marché : « J’ai longtemps cru que le problème foncier était de nature juridique, technique, économique et qu’une bonne dose d’ingéniosité suffirait à le résoudre. J’ai lentement découvert qu’il était le problème politique le plus significatif qui soit[1]. » Les Safer ne remplissent plus guère leur mission.

    En témoigne une autre transaction emblématique. En avril 2016, le groupe pékinois Reward, spécialisé dans l’agroalimentaire, faisait la « une » des médias. Ses achats mettaient au jour les failles du système français de protection des ressources agricoles. La société du milliardaire Hu Keqin venait d’acquérir 1 700 hectares de terre céréalière dans l’Indre et l’Allier – soit plus de vingt fois la surface moyenne d’une exploitation. À quoi étaient destinées les farines françaises ? À alimenter la chaîne chinoise de boulangeries Chez Blandine.

    Si l’affaire a choqué l’opinion publique, elle n’est pourtant que la partie émergée de l’iceberg. Et les industries acquéreuses de terre agricole sont aussi celles qui nous sont familières. Sur le marché des terres en France, on ne compte que peu d’acheteurs étrangers (2%). La médiatisation des acheteurs chinois masque les vrais enjeux. Il semble facile de regarder ailleurs, quand les entreprises nationales ou régionales jouent les premiers rôles.

    L’opération de la firme Reward a au moins amené une prise de conscience : les Safer manquent aussi de moyens juridiques, il faut les moderniser. Au milieu des années 2010, le monde agricole réclame une grande loi foncière pour adapter l’arbitre du marché foncier aux dernières évolutions. Un combat qui portera finalement ses fruits : le 14 décembre 2021, le Parlement français a adopté une loi « portant mesures d’urgence pour assurer la régulation de l’accès au foncier agricole au travers de structures sociétaires ». Le texte prévoit la mise en place de nouveaux contrôles par les Safer, sous l’autorité du préfet qui devra donner son accord lorsqu’une entreprise (ou un groupe industriel) cherche à acquérir du foncier.

    Mais cette loi autorise de nombreuses « dérogations » qui la rendent en partie inefficace. Les Safer devront notamment apprécier également le « développement du territoire » au regard « des emplois créés et des performances économiques, sociales et environnementales ». Présentée comme une « étape », cette loi ne peut remplacer la grande loi foncière que les organisations agricoles appellent de leurs vœux.

    Sans réelle opposition pour les freiner, les firmes avancent dans l’espace rural.

    Première organisation de la profession, la FNSEA (Fédération nationale des syndicats d’exploitants agricoles) indique poursuivre la « réflexion en interne » pour protéger plus durablement les agriculteurs. « Il faut un changement de politique publique pour répartir autrement la terre », affirme la Confédération paysanne. Tandis que le Mouvement de défense des exploitants familiaux (Modef) demande, lui, qu’une loi « encadre les prix des terres agricoles de sorte qu’ils soient en corrélation avec le revenu agricole qui peut être dégagé sur ces terres ».

    La mission d’information parlementaire créée en décembre 2018 avait évoqué la création d’un outil centralisé de régulation du foncier agricole confié à une autorité administrative indépendante. La Commission européenne a d’ores et déjà autorisé des mesures de régulations fortes comme le droit de préemption en faveur des agriculteurs, un plafonnement de la taille des propriétés foncières, voire des mesures contre la spéculation. Il manque encore une volonté plus largement partagée, afin que la terre demeure un « espace politique », comme le définissait le sociologue et philosophe Henri Lefebvre. Autrement dit, un espace façonné́ par les décisions de tous et non de quelques-uns.

    Sans réelle opposition pour les freiner, les firmes avancent dans l’espace rural. Leurs fermes passent souvent inaperçues. À qui appartient la terre ? Il n’y a aucune marque dans le paysage. Toute une cohorte d’entreprises prend du pouvoir à la campagne : elles achètent ou louent les terres, les cultivent et organisent les récoltes à l’insu du plus grand nombre. À l’heure où l’agriculture paysanne a la cote, cette mutation discrète est en cours.

    Il faut contribuer à révéler cette dynamique qui échappe à l’appareil statistique. Sur les 26,7 millions d’hectares que compte la France, les grandes entreprises en possèdent-elles 100 000 ou 1 million ? Personne ne peut le dire aujourd’hui. Il est temps que les décideurs politiques s’emparent du sujet pour que l’on puisse mesurer sa valeur statistique exacte.

    Au fil des mois d’enquête, je me suis souvent confrontée à la difficulté d’accéder à l’information. Lorsque les portes sont fermées, il semble d’autant plus urgent de s’immiscer dans les rouages des transactions foncières. Car les nouveaux propriétaires fonciers font l’agriculture de demain. Qui sont-ils ? Dans quel intérêt investissent-ils ? À qui doivent-ils rendre des comptes ? Nous avons le droit de connaître les ressorts de ce que nous achetons.

    Quand une terre est cultivée par un groupe industriel, où est l’intérêt de la population ? La question devrait pouvoir être posée dans l’instance de la Safer. Problème, les commissions où se déroulent les ventes de terre se déroulent à huis-clos. Ainsi, les instances en charge des affaires foncières ne sont pas ouvertes au public.

    Les Safer ont tous les attributs d’un parlement pour partager le foncier – sauf la transparence. « Nous ne connaissons pas la teneur des échanges, nous n’avons aucun renseignement sur les débats, mais seulement sur la décision prise », explique Thomas, agriculteur en Loire-Atlantique. Pour lui, la démocratie pratiquée à la Safer ne devrait pas se passer à huis clos. « Pourquoi ne peut-on pas s’inscrire pour assister à un comité technique comme on peut le faire dans un conseil municipal ? »

    Dans les années à venir, les hectares qui se vendront vont-ils conforter l’agriculture de firme ou un autre modèle agricole ? C’est le rôle de nos Safer d’en décider. L’arbitrage des autorités sur un acte aussi primordial pour la vie, celui de manger, doit être davantage compris et mis en lumière.

    NDLR : Lucile Leclair a publié en novembre dernier Hold-up sur la terre aux éditions du Seuil.

  • #Gluten, l’ennemi public ?

    En abordant le sujet de l’explosion contemporaine d’#intolérance au gluten, ce film raconte en fait d’une bataille menée par certaines des sociétés les plus puissantes de la planète contre la science libre et notre #santé à nous tous. En jeu, en plus, est la survie de millions de petits agriculteurs, tout autour de la planète, qui risquent d’être chassés du marché. Comment ces choses peuvent être liées entre elles ?

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/62747_1
    #industrie_agro-alimentaire #gluten #film #documentaire #film_documentaire #blé #céréales #alimentation #gluten-free #allergie #intolérances_alimentaires #business #alimentation #blé #coeliaquie #industrie_chimique #CIMMYT #Fondation_Rockfeller #engrais #engrais_chimiques #Norman_Borlaug #Sonora_64 #révolution_verte #agriculture #industrialisation #glyphosate #ABCD (#Archer_Daniels_Midland, #Bunge, #Cargill, #Louis_Dreyfus_Company) #agriculture_intensive #OGM #Monsanto #herbicide #microbiome #roundup #OMC #barrières_non-tarifaires #protectionnisme #capitalisme

    voir aussi, via @odilon :
    https://seenthis.net/messages/911865

  • Comment #Julius_Maggi a conquis les cuisines

    Arôme liquide, cubes de #bouillon ou soupes en poudre : la marque Maggi est une success story qui a débuté il y a plus de 150 ans dans le canton de Zurich. L’aromate a révolutionné les habitudes culinaires dans le monde entier.

    Quand, en 1869, Julius Maggi, alors âgé de 23 ans, reprend la minoterie de son père à Kemptthal, dans le canton de Zurich, la branche de la meunerie est en crise. Avec l’#industrialisation, les bateaux à vapeur et les chemins de fer, de plus en plus de céréales étrangères bon marché arrivent en Suisse. Julius Maggi doit imaginer quelque chose de neuf.


    Il invente d’abord la « #Leguminose » : une #farine_de_soupe à base de légumineuses riches en protéines, censée améliorer l’#alimentation du peuple et offrir des repas nourrissants aux ouvriers. Ces nouvelles « #soupes_artificielles » trouvent cependant peu d’écho auprès du public cible. Pour l’heure, les classes inférieures en restent aux patates et à la chicorée. La bourgeoisie, quant à elle, boude ce fade repas de pauvres au drôle de nom.

    La percée a lieu en 1886, avec l’invention d’un #extrait_de_bouillon qui deviendra célèbre dans le monde entier sous le nom d’#Arôme_Maggi. Grâce à cet #arôme au goût de viande mais à base végétale, les soupes se vendent aussi nettement mieux. Julius Maggi n’est pas seulement un inventeur passionné : « Il comprend en outre l’importance du #marketing », souligne l’historienne Annatina Tam-Seifert, qui a étudié les débuts de l’industrie alimentaire suisse. « Comme on ne peut ni toucher, ni sentir les produits finis, l’emballage joue un rôle essentiel dans leur diffusion. » Julius Maggi est un pionnier à cet égard. Il conçoit lui-même la bouteille de l’arôme liquide avec son étiquette jaune et rouge. Un design qui n’a pas beaucoup changé depuis.

    Un poète chargé de la #publicité

    Julius Maggi est l’un des premiers à créer un service de publicité et à utiliser de nouveaux formats – affiches, pancartes, systèmes de cumul de points avec primes à la clé, images à collectionner ou dégustations. Au début, le chef d’entreprise rédige lui-même les textes des réclames. À la fin de l’année 1886, il engage pour ce faire le poète #Frank_Wedekind, alors encore inconnu. Celui-ci crée les rimes qu’on lui demande, par exemple : Das wissen selbst die Kinderlein : Mit Würze wird die Suppe fein. Darum holt das Gretchen munter, die Maggi-Flasche runter [Même les enfants le savent : grâce à l’Arôme, la soupe est bonne. Gretchen, ainsi, n’hésite pas, à tenir la bouteille Maggi la tête en bas.] Mais le jeune poète salarié démissionne après huit mois, car il a l’impression « de s’être vendu corps et âme », comme il l’écrit dans une lettre à sa mère. Les manuscrits originaux des textes publicitaires Maggi rédigés par Frank Wedekind sont aujourd’hui conservés à la bibliothèque cantonale d’Argovie.

    À l’époque déjà, des « influenceurs » participent à la publicité : bientôt, des recettes de cuisine recommandent l’Arôme Maggi pour épicer les plats, notamment celles de l’icône allemande des livres de cuisine, Henriette Davidis. La recette de l’Arôme, elle, reste un secret bien gardé jusqu’à ce jour. Ses ingrédients de base sont des protéines végétales, de l’eau, du sel et du sucre, plus des arômes et de l’extrait de levure. Il ne contient pas de livèche, que beaucoup associent pourtant à son goût. Au point que cette herbe aromatique est communément appelée « #herbe_à_Maggi ».

    Maggi inspire aussi les artistes : ainsi, Joseph Beuys utilise la bouteille d’arôme liquide en 1972 dans son œuvre « Ich kenne kein Weekend » [Je ne connais pas de week-end]. Pablo Picasso immortalise quant à lui le cube de bouillon iconique en 1912 dans son tableau « Paysage aux affiches ». Maggi commercialise ce cube en 1908, qui devient lui aussi un best-seller mondial.

    Le plus grand propriétaire foncier

    Julius Maggi doit convaincre non seulement les consommatrices des atouts de ses produits finis, mais aussi les paysans, fournisseurs des matières premières. « Il a de la peine à trouver assez de légumes pour ses produits dans la région », raconte l’historienne. Les paysans doivent d’abord se faire aux nouvelles méthodes mécanisées de culture, et ils sont sceptiques vis-à-vis de l’industrie alimentaire. Finalement, Julius Maggi prend lui-même en main la culture des matières premières.

    Il achète du terrain à de petits agriculteurs, en leur offrant souvent un emploi au sein de la ville-usine de #Kemptthal, qui s’agrandit rapidement. Riche de plus de 400 hectares de surface agricole, Julius Maggi est même, au début du XXe siècle, le plus grand propriétaire foncier privé de Suisse. En même temps, il ouvre des usines et des réseaux de distribution en Allemagne, en Autriche, en Italie et en France.

    Julius Maggi meurt en 1912, à 66 ans. Après sa mort, l’entreprise devient une holding, avec des filiales dans différents pays. Pendant la Seconde Guerre mondiale, sa filiale allemande est le plus grand producteur de produits alimentaires du Reich et un fournisseur majeur de l’armée d’Hitler. L’usine de Singen, « entreprise modèle national-socialiste », emploie également des travailleurs forcés.

    Depuis 1947, Maggi appartient au groupe alimentaire #Nestlé. L’Arôme Maggi s’exporte dans 21 pays du monde. Des sites de production ont même été créés en Chine, en Pologne, au Cameroun, en Côte d’Ivoire et au Mexique.

    https://www.swisscommunity.org/fr/nouvelles-et-medias/revue-suisse/article/comment-julius-maggi-a-conquis-les-cuisines

    #Maggi #cuisine (well...) #mondialisation #globalisation

  • Un max de blé
    https://laviedesidees.fr/Un-max-de-ble.html

    À propos de : Alessandro Stanziani, Capital Terre, une #Histoire longue du monde d’après (XIIe-XXIe siècle), Payot. Des baguettes à 29 cts ? C’est la conclusion de la longue histoire de l’agriculture devenue productiviste et capitaliste, depuis les transformations des semences et espèces jusqu’à l’exploitation des producteurs, en passant par l’expropriation des paysans et la chimie des engrais et des pesticides.

    #environnement #agriculture #alimentation #exploitation #industrialisation
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20220202_stanziani.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20220202_stanziani.docx

  • Commission d’enquête sur la situation de l’hôpital

    #Industrialisation des soins, #bureaucratie et perte de sens

    Edouard Piely a retranscrit la 1ère partie de l’audition du professeur #Michaël_Peyromaure (chef de service à l’hôpital Cochin) devant la commission d’enquête sur la situation de l’#hôpital.

    [Sénat, 4 janvier 2022].

    « Pour moi, la plus grande évolution de l’hôpital public ces vingt dernières années a été la montée en puissance du pouvoir administratif, à la fois sur le plan quantitatif et sur le plan qualitatif. J’ai connu l’époque où les soignants étaient entièrement dédiés aux patients, qui étaient la préoccupation numéro un de l’hôpital dans son ensemble. Et les gestionnaires de l’hôpital assistaient, aidaient, soutenaient les soignants dans un but commun : aider les malades.

    En vingt ans, ce qui est très court, c’est exactement l’inverse qui s’est produit. Les soignants sont désormais à la merci, même si le terme est un peu fort, des gestionnaires qui imposent toutes les règles. Je dis bien toutes les règles, jusqu’à s’immiscer même dans les types de soins. Et donc, il y a vingt ans, les gestionnaires, l’administration étaient, d’une certaine manière, au service des soignants. Aujourd’hui c’est l’inverse, ce sont les soignants qui font ce que les directeurs d’hôpitaux leur demandent. La loi HPST [hôpital, patients, santé, territoires] a considérablement aggravé cette tendance. Mais c’était déjà le cas, de mon point de vue, quelques années avant.

    Il découle de tout ça d’énormes dysfonctionnements, des coupes massives dans les effectifs, dans le nombre de lits, dans les moyens attribués aux équipes soignantes, et effectivement un désespoir, un écœurement des soignants qui ont perdu tout le sens de leur métier, étant eux soumis à des injonctions contradictoires. En haut, on leur demande d’industrialiser les soins, de tout recenser par informatique, de tout coder, de faire des actes ; mais en même temps les moyens dont ils disposent fondent comme neige au soleil, et surtout, ils n’ont plus voix au chapitre.

    Des dizaines, voire des centaines de fois, ces cinq, six dernières années, j’ai alerté ma hiérarchie administrative sur des dysfonctionnements qu’on pourrait éviter ou facilement régler, parfois même sans engager de frais. Et je n’ai jamais été entendu.

    On est arrivé à un stade où nous ne sommes, non seulement plus considérés par notre hiérarchie administrative, mais même plus écoutés. C’est-à-dire que les directives tombent parfois par un simple mail, parfois par un courrier. De temps à autre, à l’occasion d’une réunion collective, et on n’a pas forcément été prévenu. Et lorsqu’on tente d’opposer une résistance à ce que l’on considère comme étant un projet néfaste pour les patients, et bien l’administration sait comment s’y prendre, parce que elle s’entoure très souvent de collègues, malheureusement. Et là, je voudrais mettre le doigt aussi sur une faille du système qu’on a créé, de collègues qui, hélas, prennent le parti de l’administration pour vous acculer et vous forcer à l’obéissance. Notre système est totalement déshumanisé, il est caporalisé, il est soviétisé. Et je dirais même que la fuite de personnel qu’on a aujourd’hui, la démission des médecins, est liée davantage encore à ce problème qualitatif de perte de sens qu’aux problèmes quantitatifs de perte des moyens. Nous avons l’habitude de travailler avec peu de moyens, mais en revanche, nous ne pouvons plus supporter d’être traités de cette manière. »

    A partir de 14:55 https://www.dailymotion.com/video/x86ut9u

    https://www.publicsenat.fr/emission/les-matins-du-senat/commission-d-enquete-sur-la-situation-de-l-hopital-trois-medecins