• Les accidents du travail ne sont pas des faits divers
    https://www.revue-ballast.fr/les-accidents-du-travail-ne-sont-pas-des-faits-divers

    On dénom­brait récem­ment, en France, plus de 800 000 acci­dents du tra­vail dans l’an­née, entraî­nant la mort de plus de 700 tra­vailleurs et tra­vailleuses. Ce fait social mas­sif conti­nue pour­tant d’être trai­té sous l’angle du fait divers et local. Entretien avec Matthieu Lépine, pro­fes­seur d’his­toire et auteur du blog Une Histoire popu­laire, qui tient le compte Twitter « Accidents du tra­vail : silence des ouvriers meurent ». Source : Ballast

  • Subappalti e decenza. Lavoro, cosa insegna l’indagine su Dhl

    La presunzione d’innocenza vale anche per le imprese e i loro vertici. Tanto più quando un’indagine si incentra su questioni fiscali, economiche e organizzative, che presentano sempre qualche margine di interpretazione delle norme. Dunque nessuna sentenza anticipata di colpevolezza nei confronti di Dhl, accusata ieri dai pm di Milano di frode fiscale operata tramite cooperative e consorzi che, secondo i sospetti dei magistrati, fungono da «meri serbatoi di manodopera». Tuttavia, l’importanza della multinazionale sotto inchiesta e il ricorrere di alcuni tratti ’tipici’ della somministrazione irregolare di lavoratori, con il loro presumibile sfruttamento, non possono essere ignorati e anzi offrono l’occasione per cercare di illuminare meglio un tratto buio del nostro mercato del lavoro.

    Dhl, infatti, non è una società qualsiasi ma il leader mondiale della logistica, come orgogliosamente ricorda nel suo sito web. Soprattutto è particolare il suo azionariato, controllato dal 2002 dal colosso Deutsche Post, le Poste tedesche, a loro volta sotto il controllo del governo di Berlino. E, come ogni grande azienda tedesca che rispetta la legge sulla cogestione, la Mitbestimmungsgesetz, Dhl ha un Consiglio di gestione (come il nostro Cda) e un Consiglio di sorveglianza, nel quale siedono in numero paritario azionisti e rappresentanti dei lavoratori, con il compito di sorvegliare e indirizzare appunto le attività gestionali. Insomma, un gruppo ’blasonato’ di uno Stato fratello, dal quale tutto ci si potrebbe attendere tranne che anche solo il sospetto di una frode fiscale e un utilizzo illecito della manodopera in un altro Paese dell’Unione Europea. Pur in attesa del giudizio che non spetta a noi anticipare, si può dire che non si tratta semplicemente dell’’incidente’ di un’inchiesta penale, quanto di un imbarazzante caso diplomatico, proprio all’indomani dell’intesa al G7 sulla tassazione minima delle multinazionali.

    C’è però dell’altro, oltre alla presunta frode fiscale. Per dirlo con le parole dell’accusa: «La società committente (Dhl appunto) abusa dei benefici offerti dal sistema illecito, neutralizzando il proprio cuneo fiscale mediante l’esternalizzazione della manodopera e di tutti gli oneri connessi. Ciò comporta l’utilizzo di fittizi contratti d’appalto per prestazioni di servizi che, invero, dissimulano l’unico, reale oggetto del negozio posto in essere tra le parti, ossia la mera somministrazione di personale effettuata in violazione delle norme che ne regolamentano la disciplina».

    Tradotto, significa che il gruppo tedesco, per elevare il suo margine di profitto, avrebbe utilizzato nei propri magazzini lavoratori formalmente assunti da consorzi in appalto – «uno schermo di ben 23 cooperative, 20 delle quali con la medesima sede fiscale » – ma in realtà eterodiretti dalla stessa Dhl. Che avrebbe imposto tariffe irrealistiche a tali cooperative, alle quali non restava altro che frodare lo Stato non versando l’Iva dovuta e parte dei contributi previdenziali di lavoratori sottopagati rispetto ai contratti nazionali, sottraendosi infine ai controlli grazie a cambi di denominazione e trasferendo il personale da una società all’altra. Dhl ha dichiarato che «fornirà agli inquirenti tutta la collaborazione necessaria per chiarire in modo tempestivo e soddisfacente la propria posizione, ritenendo di aver sempre operato nel pieno rispetto della normativa fiscale italiana».

    Ma – sempre in attesa del giudizio – la vicenda mostra comunque quanto sia diffuso (e pericoloso) il subappalto a cooperative spurie – come recentemente il clamoroso caso della #Ceva – rispetto alle quali neppure le novità legislative e i tavoli aperti con aziende e prefetti sembrano aver scongiurato gli illeciti e lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi che ancora si discute di come regolamentare la materia nel Pnrr, questa indagine offre allora due indicazioni preliminari importanti. La prima: vanno rafforzati e non allentati i meccanismi che rendono responsabili i committenti di quanto avviene nelle società appaltatrici. La seconda: l’appalto esterno andrebbe sempre proibito per le attività core, tipiche e centrali, di un’azienda. Per non arrendersi alla logica del profitto illecito e della sotto-tutela dei lavoratori.

    https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/subappalti-e-decenza

    #DHL #travail #conditions_de_travail #fraude_fiscale #fiscalité #sous-traitance

  • Precarity means top students quitting academia, warns OECD expert

    Report author says increasing funding would only lead to more insecurity, and culture shift is needed instead.

    Academic precarity is a wide-ranging threat to the quality of research globally, with the brightest students now eschewing a career in academia because of poor working conditions, the Organisation for Economic Cooperation and Development has warned.

    While the problem of short-term, high-pressure and insecure jobs for early career researchers is well known, the Paris-based thinktank, which recently conducted interviews with some 100 policymakers and scientists, has concluded that it is one of the most serious problems facing the research enterprise.

    “It clearly is the case that the best people aren’t going into academia any more,” said Carthage Smith, a senior policy analyst at the OECD who contributed to a report on the issue. This conclusion came through “no matter what type of stakeholder we spoke to”, he added.

    “It’s really serious for science if many of these brightest young people are choosing not to go into science or are dropping out early,” he said. “It’s a fundamental issue.”

    The OECD report, Reducing the Precarity of Academic Research Careers, characterises academia as a “shrinking protected research elite and a large precarious research class that now represents the majority in most academic systems”.

    Several factors have contributed to precarious working conditions. A switch away from core funding to competitive grant systems has meant more pressure for

    “flexibility in staffing”. Meanwhile, there has been a “staggering” increase in the number of PhD holders, growing by 25 per cent among the working-age population in OECD countries in the five years to 2019.

    Just 52 per cent of corresponding authors have a permanent contract, the report warns. For authors under 34, three-quarters are in fixed-term positions.

    According to interviewees, “many positions are filled with what they consider as less able national students and/or international students. They are concerned that this will ultimately affect the quality of the research being produced.”

    “Bright people see what happens in an academic career, and they can go elsewhere,” said Dr Smith.

    While differences between countries exist, the problem is now globally endemic, the report makes clear.

    “It’s almost as though the precarity is viral; it’s spread from country to country,” Dr Smith said. Countries need precarious, flexible academic labour to remain competitive in research, and what results is a global race to the bottom, he explained.

    “There’s a bit of passing the buck to some extent,” with universities blaming research funders, and vice versa, Dr Smith added. Precarious researchers were hidden “off the books”, meaning some university authorities “are not even aware they are there”, he said.

    As for solutions, “I actually don’t think money is the issue,” he said, and added that interviewees had backed this up.

    The problem is that with a glut of new funding, universities tend to recruit a handful of “overseas top professors” who in turn hire an army of temporary PhDs and postdocs below them. “The net effect is that the university gets more people on precarious positions,” he said.

    Instead, precarity would be better eased by an end to the “almost complete dependence” on bibliometric indicators and “obsession with lots of short-term outputs that have a high profile”, which encourages short-term, insecure working conditions, Dr Smith said.

    Training early career researchers for jobs outside academia would also ease job market pressure, he said, as fewer scholars would apply for limited early-stage jobs.

    https://www.timeshighereducation.com/news/precarity-means-top-students-quitting-academia-warns-oecd-expe

    #précarité #université #enseignement_supérieur #ESR #facs #OCDE #rapport #précarité_académique #science #recherche #travail #conditions_de_travail #compétition #flexibilité #bibliométrie

    ping @_kg_

  • #Arrêt_maladie_collectif des #précaires de la section de science politique de l’#Université_de_Lille

    Bonjour,

    Par le présent mail, nous vous informons que 16 arrêts maladie ont été déclarés parmi les précaires du département de science politique de l’Université de Lille (soit 38 jours cumulés) pour la journée du 31 mai 2021, jour du rendu des notes du second semestre dans notre faculté. Ces arrêts maladie illustrent l’état physique et psychologique des précaires du département de science politique de l’Université de Lille après une année de surcharge globale de travail, d’un manque de prise en compte de la dégradation des #conditions_de_travail et des multiples réorganisations du passage du présentiel au distanciel.

    À cela s’est ajoutée la charge induite par les corrections des examens du second semestre aboutissant à des situations intenables (allant jusqu’à plus de 400 copies à corriger pour certain·e·s). L’accumulation subie par les doctorant·e·s, docteur·e·s sans postes, vacataires, post-doc et ATER depuis plusieurs années (austérité, LPR, pandémie, manque de postes, absence totale d’horizons professionnels et bas salaires) ont provoqué la #détresse dans laquelle nous nous trouvons. Nous nous mettons en #arrêt aujourd’hui en pensant aussi à tout.es celles et ceux qui mènent leurs recherches sans contrat de travail et ne peuvent pas faire reconnaître leur #souffrance_au_travail, ainsi qu’à toutes les fois où nous nous sommes retrouvé.es dans cette situation.

    Cet arrêt maladie collectif ne fait que signaler la situation globale que connait l’Université aujourd’hui. Nous appelons nos collègues précaires d’autres composantes et universités à se joindre à notre ras le bol. En guise d’avertissement, nous prévenons nos collègues titulaires mais surtout le ministère de l’Enseignement supérieur et de la Recherche que si la situation n’évolue pas, ce mode d’action est appelé à se répéter.

    Ça y est : l’université craque.

    Le collectif des précaires du département de science politique de l’Université de Lille

    Reçu via la mailing-list Facs et labos en lutte, 01.06.2021.

    #précarité #précarisation #université #facs #France #Lille #collectif_des_précaires #arrêt_maladie #santé_mentale

    • « C’est la joie ! »

      Rachel Kéké et Sylvie Kimissa, femmes de chambre de l’Hôtel Ibis Batignolles : « Je vais reprendre le travail la tête haute, j’ai eu mes droits »

      Après vingt-deux longs mois de mobilisation, elles ont obtenu un accord améliorant leurs salaires et leurs conditions de travail.

      Pousser le chariot, enlever le linge sale, changer les poubelles, laver la salle de bains, les toilettes, faire la poussière, refaire le lit entièrement, passer l’aspirateur, la serpillière… « On devait faire ça en dix-sept minutes, trente fois de suite ! », explique Rachel Kéké.
      « Y a pas de mots pour décrire la souffrance qu’on endurait, l’interrompt Sylvie Kimissa. Et c’était impossible de refuser quoi que ce soit parce qu’on avait peur d’être licenciée. » « Dur dur ménage » , chantait à l’automne 2020 dans un clip en forme d’hommage le mari de Rachel Kéké, l’artiste ivoirien Bobbyodet.

      Arrive ce jour où, pour la première fois, elles entendent parler de syndicalisme dans la bouche d’un délégué CFDT. « Tout de suite, ça m’a intéressée » , raconte Rachel Kéké. Mais ce sera d’abord beaucoup de désillusions. « On a connu des délégués du personnel qui ne faisaient pas grand-chose pour que ça change. » Alors elles commencent à s’impliquer, sans mandat.
      Devenue gouvernante, Rachel peut passer dans les étages pour mobiliser autour d’elle. D’abord pour de petits débrayages. Comme ce jour où elles n’avaient pas été payées double pour leur travail du 1er mai. « On a toutes arrêté de travailler. Le directeur n’en croyait pas ses yeux. Le lendemain, à 7 heures, il nous signait des chèques pour payer ce qu’il devait ! » , se rappelle fièrement Rachel Kéké. Sylvie Kimissa en rit encore, complices. « Rachel, c’est devenu plus qu’une sœur. On s’appelle cinq fois par jour ! »

      Les sous-traitants se succèdent. Le dernier, STN, reprend le contrat en 2016. « Les cadences étaient infernales. Si une copine était arrêtée, ils n’embauchaient pas : je me retrouvais avec quarante chambres à faire en six heures , explique Sylvie Kimissa. C’était impossible, donc on débordait tout le temps, sans être payées plus. » Un jour, elles constatent que des collègues victimes de troubles musculo-squelettiques sont mutées dans des 5-étoiles – où le travail est encore plus difficile. C’est « la goutte d’eau ».

      Estimant que ni la CFDT, ni FO, ni la CGT propreté ne sont à même de les défendre comme elles l’entendent – « sans les infantiliser » –, elles tapent à la porte de Claude Lévy, secrétaire général de la CGT-HPE (Hôtels de prestige et économiques). « Il nous a dit : “Vous savez que vous devez être payées à l’heure, pas à la chambre ?” Comment est-ce possible qu’aucun syndicat avant lui ne nous ait jamais dévoilé ce secret ?, s’indigne Rachel Kéké. On s’est dit : lui, il va nous aider. Et on s’est syndiquées ! »

      https://justpaste.it/7pqby

      Le clip « Dur dur ménage »https://seenthis.net/messages/885325

      Vidéo sur la lutte, il y a quatre mois https://seenthis.net/messages/899091

      Texte de Tiziri Kandi CGT–HPE (Hôtel de Prestige et Économique) https://seenthis.net/messages/819486

      #travail #Femmes #mères #migrantes #grève #solidarité #hôtellerie #Accor #Ibis #nettoyage #syndicalisme #sous-traitance #cadences #conditions_de_travail #précarité en #CDI #salaire

  • Plus d’une centaine de livreurs licenciés du jour au lendemain à Genève Delphine Gianora et Céline Brichet/aes
    https://www.rts.ch/info/regions/geneve/12149924-plus-dune-centaine-de-livreurs-licencies-du-jour-au-lendemain-a-geneve.

    Suite à un litige entre deux sociétés, plus d’une centaine de livreurs viennent d’être licenciés à Genève, un épisode qui démontre la vulnérabilité de ce type d’emplois en ces temps de pandémie.

    Pour répondre à la demande qui explose depuis le début de la pandémie, plusieurs centaines de livreurs ont été engagés en masse, avec des contrats souvent temporaires.

    Mais il y a trois semaines, une centaine d’entre eux ont été licenciés du jour au lendemain, victimes d’un litige entre les sociétés qui les emploient. Ils étaient en effet engagés par le sous-traitant AlloService pour le compte de la plateforme Smood.

    Interrogé au 19h30, l’un d’entre eux témoigne des conditions précaires rencontrées dans cet emploi : « Il y a beaucoup de questions sans réponses, au niveau des heures travaillées, du paiement des pourboires. On a essayé de faire des retours, mais sans avoir reçu de réponse ».

    Litige lié à l’introduction du salaire minimum.
    AlloService adapte alors ses contrats, mais aucun accord n’est trouvé avec Smood. Le sous-traitant paie donc la différence. Estimant ses pertes à plus de 120’000 francs, il rompt alors le contrat qui le lie à Smood. Une procédure de licenciement collectif est lancée.

    Smood dément toutefois l’existence de tout litige. L’entreprise a répondu par écrit à la RTS : « AlloService est un prestataire de transport qui semble connaître des difficultés. Des discussions sont en cours et Smood est dans l’attente d’un retour de ce prestataire. S’agissant des pourboires, ceux-ci sont intégralement reversés aux livreurs et une clarification est en cours ».

    Les syndicats inquiets
    Ce cas de licenciement collectif est symptomatique des problèmes de la branche. Les syndicats s’inquiètent de cette précarisation du monde du travail.

    « Notre crainte, c’est qu’en sortant de la pandémie, on ait tout une catégorie d’emplois précaires qui se soient créés au détriment d’emplois protégés par des CCT. Si c’est ça le bilan de la pandémie, il y a des catastrophes sociales qui se préparent pour l’avenir », regrette ainsi le responsable communication de l’Union syndicale suisse Benoît Gaillard.

    Dans le cas de ce licenciement collectif, les syndicats SIT et UNIA ont prévu d’ouvrir une consultation du personnel pour tenter de préserver les emplois.

    En octobre dernier, Genève adopte une nouvelle législation qui oblige tout employeur à verser un salaire minimum de 23,14 francs de l’heure.

    #deliveroo #travail #salaire #salaire_minimum #sous-traitance #licenciements #prestataire #uber #gigeconomy #ubereats #foodtech #amazon #précarité #conditions #livreurs #ubérisation #conditions_de_travail #exploitation #alloService #smood

  • Au ministère de l’#Écologie, les #fonctionnaires souffrent et constatent leur impuissance
    https://reporterre.net/Au-ministere-de-l-Ecologie-les-fonctionnaires-souffrent-et-constatent-le

    Les fonctionnaires du ministère de la #Transition_écologique n’en peuvent plus : surcharge de travail, services désorganisés, sous-effectif durable, hiérarchie aux abonnés absents, efforts vains quand #Bercy remporte tous les arbitrages... Beaucoup s’interrogent sur le sens de leur emploi lorsque les politiques menées sont totalement en deçà de ce qu’exige l’urgence climatique.

    #climat #Fonction_publique_d'État #conditions_de_travail

  • La garantie d’emploi, un outil au potentiel révolutionnaire | Romaric Godin
    http://www.contretemps.eu/chomage-economie-garantie-emploi-depassement-capitalisme

    L’ouvrage de Pavlina Tcherneva qui inaugure la collection « Économie politique » avance une proposition qui peut paraître a priori insensée : fournir à tous les citoyens qui le souhaitent un travail rémunéré, permettant de vivre décemment. Tout l’intérêt de son propos est de montrer que, précisément, cette proposition n’a rien d’insensé, mais qu’elle est parfaitement réalisable pour peu que l’on se libère de certaines certitudes qui ne sont que des constructions politiques. L’idée que le chômage soit le mode d’ajustement « normal » de l’économie est déjà un choix politique remarquablement déconstruit par l’autrice. Source : (...)

  • Working conditions in essential occupations and the role of migrants

    Following a national #lockdown in response to the Covid-19 pandemic, state governments in Germany published lists of “essential” occupations that were considered necessary to maintain basic services such as health care, social care, food production and transport. Against this background, this paper examines working conditions and identifies clusters of similar jobs in these essential occupations. Differences across clusters are highlighted using detailed data on job characteristics, including tasks, educational requirements and working conditions. Two clusters with favourable or average working conditions account for more than three-quarters of jobs in essential occupations. Another two clusters, comprising 20% of jobs in essential occupations, are associated with unfavourable working conditions such as low pay, job insecurity, poor prospects for advancement and low autonomy. These latter clusters exhibit high shares of migrants. Further evidence suggests that this pattern is linked to educational requirements and how recent migrants evaluate job characteristics. It is argued that poor working conditions could affect the resilience of basic services during crises, notably by causing high turnover. Policies towards essential occupations should therefore pay close attention to working conditions, the role of migrant labour and their long-term implications for resilience.

    https://cadmus.eui.eu//handle/1814/70541

    #migrations #travail #covid-19 #essentiel #crise_sanitaire #coronavirus #conditions_de_travail #rapport #Migration_Policy_Centre (#MPC) #confinement #Allemagne #statistiques #chiffres

    ping @isskein @karine4

  • Beyond gratitude : lessons learned from migrants’ contribution to the Covid-19 response

    This report recognises and values the fundamental contribution of migrant workers to our societies and economies throughout the Covid-19 pandemic. Over the past year we have leaned heavily on ‘key workers’. Migrants account for a large share of these frontline workers and figure heavily amongst the multiple occupations we now classify as essential. Yet their jobs have often been labelled as ‘low-skilled’ and their work undervalued. As a result, many have risked their lives on the Covid-19 frontline while lacking the basic social protections enjoyed by other workers.

    A desire to capture the contribution of migrants during the pandemic inspired us to begin the systematic tracking of events across the globe over the past year. We wanted to make migrants’ essential work more visible, track the innovations and reforms that have enhanced their contribution during the emergency, and draw lessons from these experiences to inform long-term reforms and policies. We have observed many national and local governments relaxing migration regulations and creating new incentives for migrant workers in essential services, demonstrating that migration policies – regardless of today’s increasingly polarised debates – can and do change when necessary. This matters for the post-pandemic recovery, given that countries will continue to rely on migrant workers of all skill levels. We all must ensure that these changes are lasting.

    The following policy recommendations emerge from our research:

    - Enhance routes to regularisation, in recognition of migrants’ vital contribution to essential services.
    - Expand legal migration pathways, ensuring safe working conditions for all, to support post-Covid-19 global recovery, tackle shortages in essential workforces and fill skills gaps.
    - Ensure that migrants, whatever their status, have access to key basic services and social protection.
    - Detach immigration policies from inflexible ‘low’ and ‘high’ skills classifications. Workers of all skill levels will be essential in the long path to recovery.

    https://www.odi.org/publications/17963-beyond-gratitude-lessons-learned-migrants-contribution-covid-19-response

    #travail #covid-19 #coronavirus #travailleurs_étrangers #migrations #apport #bénéfices #économie #essentiel #politique_migratoire #recommandations #pandémie #odi #rapport #voies_légales #conditions_de_travail #accès_aux_droits #protection_sociale

    Pour télécharger le rapport :
    https://www.odi.org/sites/odi.org.uk/files/resource-documents/hmi-migrant_key_workers-working_paper-final_0.pdf

    #visualisation :


    https://www.odi.org/migrant-key-workers-covid-19

    ping @isskein @karine4

  • #Uber drivers are workers not self-employed, Supreme Court rules

    Uber drivers must be treated as workers rather than self-employed, the UK’s Supreme Court has ruled.

    The decision could mean thousands of Uber drivers are entitled to minimum wage and holiday pay.

    The ruling could leave the ride-hailing app facing a hefty compensation bill, and have wider consequences for the gig economy.

    Uber said the ruling centred on a small number of drivers and it had since made changes to its business.

    In a long-running legal battle, Uber had finally appealed to the Supreme Court after losing three earlier rounds.

    Uber’s share price dipped as US trading began on Friday as investors grappled with what impact the London ruling could have on the firm’s business model.

    It is being challenged by its drivers in multiple countries over whether they should be classed as workers or self-employed.
    What’s the background to the ruling?

    Former Uber drivers James Farrar and Yaseen Aslam took Uber to an employment tribunal in 2016, arguing they worked for Uber. Uber said its drivers were self employed and it therefore was not responsible for paying any minimum wage nor holiday pay.

    The two, who originally won an employment tribunal against the ride hailing app giant in October 2016, told the BBC they were “thrilled and relieved” by the ruling.

    “I think it’s a massive achievement in a way that we were able to stand up against a giant,” said Mr Aslam, president of the App Drivers & Couriers Union (ADCU).

    “We didn’t give up and we were consistent - no matter what we went through emotionally or physically or financially, we stood our ground.”

    Uber appealed against the employment tribunal decision but the Employment Appeal Tribunal upheld the ruling in November 2017.

    The company then took the case to the Court of Appeal, which upheld the ruling in December 2018.

    The ruling on Friday was Uber’s last appeal, as the Supreme Court is Britain’s highest court, and it has the final say on legal matters.

    Delivering his judgement, Lord Leggatt said that the Supreme Court unanimously dismissed Uber’s appeal that it was an intermediary party and stated that drivers should be considered to be working not only when driving a passenger, but whenever logged in to the app.

    The court considered several elements in its judgement:

    - Uber set the fare which meant that they dictated how much drivers could earn
    - Uber set the contract terms and drivers had no say in them
    - Request for rides is constrained by Uber who can penalise drivers if they reject too many rides
    - Uber monitors a driver’s service through the star rating and has the capacity to terminate the relationship if after repeated warnings this does not improve

    Looking at these and other factors, the court determined that drivers were in a position of subordination to Uber where the only way they could increase their earnings would be to work longer hours.

    Jamie Heywood, Uber’s Regional General Manager for Northern and Eastern Europe, said: "We respect the Court’s decision which focussed on a small number of drivers who used the Uber app in 2016.

    "Since then we have made some significant changes to our business, guided by drivers every step of the way. These include giving even more control over how they earn and providing new protections like free insurance in case of sickness or injury.

    “We are committed to doing more and will now consult with every active driver across the UK to understand the changes they want to see.”
    What did Uber argue?

    Uber has long argued that it is a booking agent, which hires self-employed contractors that provide transport.

    By not being classified as a transport provider, Uber is not currently paying 20% VAT on fares.

    The Supreme Court ruled that Uber has to consider its drivers “workers” from the time they log on to the app, until they log off.

    This is a key point because Uber drivers typically spend time waiting for people to book rides on the app.

    Previously, the firm had said that if drivers were found to be workers, then it would only count the time during journeys when a passenger is in the car.

    “This is a win-win-win for drivers, passengers and cities. It means Uber now has the correct economic incentives not to oversupply the market with too many vehicles and too many drivers,” said James Farrar, ADCU’s general secretary.

    “The upshot of that oversupply has been poverty, pollution and congestion.”
    Why are some drivers unhappy with Uber?

    Mr Aslam, who claims Uber’s practices forced him to leave the trade as he couldn’t make ends meet, is considering becoming a driver for the app again. But he is upset that the ruling took so long.

    “It took us six years to establish what we should have got in 2015. Someone somewhere, in the government or the regulator, massively let down these workers, many of whom are in a precarious position,” he said.

    - Uber drivers launch legal battle over ’favouritism’
    - The Uber driver evicted from home and left to die of coronavirus

    Mr Farrar points out that with fares down 80% due to the pandemic, many drivers have been struggling financially and feel trapped in Uber’s system.

    “We’re seeing many of our members earning £30 gross a day right now,” he said, explaining that the self-employment grants issued by the government only cover 80% of a driver’s profits, which isn’t even enough to pay for their costs.

    “If we had these rights today, those drivers could at least earn a minimum wage to live on.”
    Will we pay more for Uber rides?

    That remains to be seen, but it could potentially happen.

    When Uber listed its shares in the United States in 2019, its filing with the US Securities and Exchange Commission (SEC) included a section on risks to its business.

    The company said in this section that if it had to classify drivers as workers, it would “incur significant additional expenses” in compensating the drivers for things such as the minimum wage and overtime.

    “Further, any such reclassification would require us to fundamentally change our business model, and consequently have an adverse effect on our business and financial condition,” it added.
    What is the VAT issue about?

    Uber also wrote in the filing that if Mr Farrar and Mr Aslam were to win their case, HM Revenue & Customs (HMRC) would then classify the firm as a transport provider, and Uber would need to pay VAT on fares.

    This relates to a judicial review filed by Jolyon Maugham QC in 2019.

    Mr Maugham, a barrister specialising in tax and employment law, applied to HMRC to ask for a judicial review and that HMRC demand that Uber pay VAT.

    “I tried to force the issue by suing Uber for a VAT receipt, because I thought that, that way, even if HMRC didn’t want to charge Uber, I would be able to force it to,” he told the BBC.

    “The Supreme Court has fundamentally answered two questions at the same time: one is whether drivers are workers for Uber, and the other is whether Uber is liable to pay VAT to HMRC,” said Mr Maugham, who also heads up campaign group The Good Law Project.

    “It makes it extremely difficult for Uber to continue to resist paying what I understand to be more than £1bn in VAT and interest.”

    HMRC and Uber are still in dispute about the firm’s VAT liability.
    What does this mean for the gig economy?

    Tom Vickers is a senior lecturer in sociology at Nottingham Trent University and head of the Work Futures Research Group, which studies the jobs that people do and how they change over time.

    He thinks the Supreme Court’s ruling has wider implications for a lot of other gig economy workers like other private hire drivers, couriers and delivery drivers.

    "The central point for me is that the ruling focuses on the control that companies exercise over people’s labour - this control also carries with it responsibilities for their conditions and wellbeing.

    “This is even more important in the context of the pandemic.”

    As for Uber, Rachel Mathieson, senior associate at Bates Wells, which represented Mr Farrar and Mr Aslam, said her firm’s position was that the ruling applies to all 90,000 drivers who have been active with Uber since and including 2016.

    “Our position is that the ruling applies to all of their drivers at large,” she said.

    Dr Alex Wood, an Internet Institute research associate on gig economy at Oxford University, disagrees.

    He told the BBC that because the UK doesn’t have a labour inspectorate, these “rules aren’t enforced and it falls to workers to bring subsequent tribunals”.

    This means that “in reality, it’s very easy for Uber to just ignore this until more tribunals come for the remaining 40,000 [drivers]”.

    https://www.bbc.com/news/business-56123668
    #travail #justice #UK #Angleterre #cour_suprême #travail #travailleurs_indépendants #vacances #salaire #salaire_minimum #conditions_de_travail #TVA

    ping @isskein @karine4

  • L’#excellence en temps de pandémie : chronique du #naufrage des Universités

    Entre mesures incohérentes des responsables politiques, #inaction des instances universitaires et #chaos_organisationnel dans les services, accompagner correctement les étudiants en pleine crise sanitaire sur fond de généralisation de l’#enseignement_à_distance devient une mission impossible... Petit aperçu du quotidien dans la « #Big_French_University ».

    Maîtresse de conférences depuis cinq ans dans une « grande » Université parisienne et responsable d’une L1 depuis septembre, je prends le temps aujourd’hui de décrire un peu ce à quoi ressemble la vie d’une universitaire d’un établissement qui se dit d’excellence en temps de #crise_sanitaire.

    Depuis peu, mon université a été fusionnée dans un énorme établissement, gros comme trois universités, qui désormais s’enorgueillit d’émarger au top 100 du #classement_de_Shanghai.

    Mais depuis septembre, étudiants, personnels administratifs et enseignants-chercheurs vivent un véritable #cauchemar au sein de cet établissement "d’excellence". Je ne pourrai pas retranscrire ici l’expérience des étudiants ni celle des personnels administratifs. Car je ne l’ai pas vécue de l’intérieur. Mais comme enseignante-chercheure et responsable pédagogique d’une promo de 250 étudiants de L1, j’ai un petit aperçu aussi de ce qu’elles et ils ont vécu. Si j’écris sur mon expérience personnelle en utilisant « je », ce n’est pas pour me singulariser, mais c’est pour rendre concret le quotidien actuel au sein des universités de toute une partie de celles et ceux qui y travaillent et y étudient. Ce texte se nourrit des échanges avec des collègues de mon université, enseignants-chercheurs et administratifs, et d’autres universités en France, il a été relu et amendé par plusieurs d’entre elles et eux – que je remercie.

    Depuis juillet, nous préparons une #rentrée dans des conditions d’#incertitude inégalée : crise sanitaire et #fusion. Quand je dis "nous", je parle du niveau le plus local : entre enseignants chercheurs, avec l’administration la plus proche de nous, les collègues de la logistique, de la scolarité, des ressources humaines. Car nous avons peu de nouvelles de notre Université…

    Sur la crise sanitaire

    Notre Université a acheté des licences #Zoom. Voilà à peu près tout ce qui a été fait pour anticiper la crise sanitaire qui s’annonçait pourtant. A part cela, rien n’a été fait. Rien.

    En septembre, aucune consigne claire à l’échelle de l’Université n’a été donnée : sur un site d’enseignement, il fallait respecter des #demies_jauges ; sur un autre campus du même établissement, pas de contrainte de demies jauges. Mais quelles jauges faut-il mettre en œuvre : diviser les effectifs par deux ? Mettre en place une distance d’un mètre ? Un mètre sur les côtés seulement ou devant/derrière aussi ? Les équipes logistiques s’arrachent les cheveux.

    L’université n’a rien fait pour rendre possible les #demi-groupes.

    Aucun système de semaine A/semaine B n’a été proposé et, chez nous, tout a été bricolé localement, par les enseignants-chercheurs, en faisant des simulations sur excel ("on découpe par ordre alphabétique ou par date de naissance ?"). Aucun #équipement des salles pour la captation vidéo et audio n’a été financé et mis en place, pour permettre des #cours_en_hybride : les expériences - que j’ai tentées personnellement - du "#bimodal" (faire cours à des étudiants présents et des étudiants absents en même temps) ont été faites sur l’équipement personnel de chacun.e, grâce à la caméra de mon ordinateur portable et mes propres oreillettes bluetooth. Et je ne parle pas des capteurs de CO2 ou des systèmes de #ventilation préconisés depuis des mois par des universitaires.

    Depuis, nous naviguons à vue.

    Au 1er semestre, nous avons changé trois fois de système d’organisation : jauges pleines pendant une semaine sur un site, puis demi jauge sur tous les sites, puis distanciel complet. Ce sont à chaque fois des programmes de cours qu’il faut refaire. Car sans équipement, quand on a des demi groupes, on doit dédoubler les séances, diviser le programme par deux, et faire deux fois le même cours pour chaque demi groupe. Tout en préparant des contenus et exercices pour les étudiants contraints de rester chez eux. Avec des groupes complets sur Zoom, l’#organisation change à nouveau.

    Alors même que le gouvernement annonçait la tenue des examens en présentiel en janvier, notre UFR a décidé de faire les examens à distance, pour des raisons compréhensibles d’anticipation sanitaire.

    Le gouvernement faisait de la communication, et localement on était obligé de réfléchir à ce qui était épidémiologiquement le plus réaliste. La période des #examens a été catastrophique pour les étudiants qui ont dû les passer en présentiel : des étudiants ont été entassés dans des amphis, terrorisés de ramener le virus à leurs parents déjà fragiles ; d’autres, atteints du Covid, se sont rendus en salle d’examen car ils n’étaient pas assurés sinon de pouvoir valider leur semestre. Les #examens_à_distance ne sont qu’un pis-aller, mais dans notre Licence, on a réussi à faire composer nos étudiants à distance, en bricolant encore des solutions pour éviter les serveurs surchargés de l’Université, sans grande catastrophe et sans abandon massif, on en était assez fiers.

    Le 2e semestre commence, et les #annonces_contradictoires et impossibles du gouvernement continuent.

    Le 14 janvier le gouvernement annonce que les cours reprendront en présentiel demie jauge le 25 janvier pour les étudiants de L1. Avec quels moyens ??? Les mêmes qu’en septembre, c’est-à-dire rien. Alors qu’en décembre, le président de la république avait annoncé une possible réouverture des universités 15 jours après le 20 janvier, c’est-à-dire le 10 février (au milieu d’une semaine, on voit déjà le réalisme d’une telle annonce...).

    A cette annonce, mes étudiants étrangers repartis dans leur famille en Égypte, en Turquie, ou ailleurs en France, s’affolent : ils avaient prévu de revenir pour le 8 février, conformément aux annonces du président. Mais là, ils doivent se rapatrier, et retrouver un #logement, en quelques jours ? Quant aux #équipes_pédagogiques, elles doivent encore bricoler : comment combiner #présentiel des demi groupes en TD avec le #distanciel des CM quand les étudiants sur site ne sont pas autorisés à occuper une salle de cours pour suivre un cours à distance s’il n’y a pas de prof avec eux ? Comment faire pour les créneaux qui terminent à 18h alors que les circulaires qui sortent quelques jours plus tard indiquent que les campus devront fermer à 18h, voire fermer pour permettre aux étudiants d’être chez eux à 18h ?

    Dans notre cursus de L1, 10 créneaux soit l’équivalent de 250 étudiants sont concernés par des créneaux terminant à 18h30. Dans mon université, les étudiants habitent souvent à plus d’une heure, parfois deux heures, du campus. Il faut donc qu’on passe tous les cours commençant après 16h en distanciel ? Mais si les étudiants sont dans les transports pour rentrer chez eux, comment font-ils pour suivre ces cours en distanciel ? Sur leur smartphone grâce au réseau téléphone disponible dans le métro et le RER ?

    Nous voulons revoir les étudiants. Mais les obstacles s’accumulent.

    On organise tout pour reprendre en présentiel, au moins deux semaines, et petit à petit, l’absence de cadrage, l’accumulation des #contraintes nous décourage. A quatre jours de la rentrée, sans information de nos instances ne serait-ce que sur l’heure de fermeture du campus, on se résout à faire une rentrée en distanciel. Les étudiants et nous sommes habitués à Zoom, le lien a été maintenu, peu d’abandons ont été constatés aux examens de fin de semestre.

    C’est une solution peu satisfaisante mais peut-être que c’est la seule valable... Et voilà que jeudi 21 janvier nous apprenons que les Présidences d’Université vont émettre des circulaires rendant ce retour au présentiel obligatoire. Alors même que partout dans les médias on parle de reconfinement strict et de fermeture des écoles ? Rendre le présentiel obligatoire sans moyen, sans organisation, de ces demis groupes. Je reçois aujourd’hui les jauges des salles, sans que personne ne puisse me dire s’il faudra faire des demi salles ou des salles avec distanciation de 1 mètre, ce qui ne fait pas les mêmes effectifs. Il faut prévenir d’une reprise en présentiel les 250 étudiants de notre L1 et les 37 collègues qui y enseignent deux jours avant ?

    Breaking news : à l’heure où j’écris Emmanuel Macron a annoncé une nouvelle idée brillante.

    Les étudiants devront venir un jour par semaine à la fac. Dans des jauges de 20% des capacités ? Sur la base du volontariat ? Est-ce qu’il a déjà regardé un planning de L1 ? 250 étudiants en L1 avec plusieurs Unités d’enseignement, divisés en CM et TD, c’est des dizaines et des dizaines de créneaux, de salles, d’enseignant.es. Une L1 c’est un lycée à elle toute seule dans beaucoup de filières. Un lycée sans les moyens humains pour les gérer.

    Derrière ces annonces en l’air qui donnent l’impression de prendre en compte la souffrance étudiante, ce sont des dizaines de contraintes impossibles à gérer. Les étudiants veulent de la considération, de l’argent pour payer leur loyer alors qu’ils ont perdu leurs jobs étudiants, des moyens matériels pour travailler alors que des dizaines d’entre eux suivent les cours en visio sur leur téléphone et ont dû composer aux examens sur leur smartphone !

    Les étudiants ne sont pas plus stupides ou irresponsables que le reste de la population : il y a une crise sanitaire, ils en ont conscience, certains sont à risque (oui, il y a des étudiants immuno-déprimés qui ne peuvent pas prendre le #risque de venir en cours en temps d’épidémie aiguë), ils vivent souvent avec des personnes à risque. Ils pourraient prendre leur parti du distanciel pour peu que des moyens leur soient donnés. Mais il est plus facile d’annoncer la #réouverture des universités par groupe de 7,5 étudiants, pendant 1h15, sur une jambe, avec un chapeau pointu, que de débloquer de réels moyens pour faire face à la #précarité structurelle des étudiants.

    Et dans ce contexte, que fait notre Présidence d’Université ? Quelles ont été les mesures prises pour la réouvrir correctement ? Je l’ai déjà dit, rien n’a changé depuis septembre, rien de plus n’a été mis en place.

    Sur la fusion et le fonctionnement, de l’intérieur, d’une Université d’excellence

    Mais sur cette crise sanitaire se greffe une autre crise, interne à mon Université, mais symptomatique de l’état des Universités en général.

    Donc oui, j’appartiens désormais à une Université entrée dans le top 100 des Universités du classement de Shanghai.

    Parlez-en aux étudiants qui y ont fait leur rentrée en septembre ou y ont passé leurs examens en janvier. Sur twitter, mon Université est devenu une vraie célébrité : en septembre-octobre, des tweets émanant d’étudiants et d’enseignants indiquaient l’ampleur des #dysfonctionnements. Le système informatique était totalement dysfonctionnel : dans le service informatique central, 45 emplois étaient vacants.

    Tant la fusion s’était faite dans des conditions désastreuses de gestion du personnel, tant le travail est ingrat, mal payé et mal reconnu.

    Cela a généré des semaines de problèmes d’inscriptions administratives, d’étudiants en attente de réponse des services centraux de scolarité pendant des jours et des jours, sans boîte mail universitaire et sans plateforme numérique de dépôt des cours (le fameux Moodle) pendant des semaines - les outils clés de l’enseignement à distance ou hybride.

    Pendant trois mois, en L1, nous avons fonctionné avec une liste de diffusion que j’ai dû créer moi-même avec les mails personnels des étudiants.

    Pendant des semaines, un seul informaticien a dû régler tous les dysfonctionnement de boîte mail des dizaines d’étudiants qui persistaient en novembre, décembre, janvier…

    En janvier, les médias ont relayé le désastre des examens de 2e année de médecine encore dans notre Université - avec un hashtag qui est entré dans le top 5 les plus relayés sur twitter France dans la 2e semaine de janvier, face à la catastrophe d’examens organisés en présentiel, sur des tablettes non chargées, mal configurées, des examens finalement reportés à la dernière minute. Les articles de presse ont mis en lumière plus largement la catastrophe de la fusion des études de médecine des Universités concernées : les étudiants de 2e année de cette fac de médecine fusionnée ont dû avaler le double du programme (fusion = addition) le tout en distanciel !

    Les problèmes de personnel ne concernent pas que le service informatique central.

    Ils existent aussi au niveau plus local : dans mon UFR, le poste de responsable "Apogée" est resté vacant 6 mois. Le responsable #Apogée c’est le nerf de la guerre d’une UFR : c’est lui qui permet les inscriptions en ligne de centaines d’étudiants dans des groupes de TD, qui fait les emplois du temps, qui compile les notes pour faire des jurys et donc les fameux bulletins de notes qui inquiètent tant les Ministères de l’Enseignement supérieur – et ce pour des dizaines de formations (plusieurs Licences, plusieurs Masters).

    Pendant six mois, personnels et enseignants chercheurs, nous avons essayé de pallier son absence en faisant les emplois du temps, les changements de groupe des étudiants, l’enregistrement des étudiants en situation de handicap non gérés par l’université centrale (encore une défaillance honteuse), l’organisation des jurys, etc. Mais personne n’a touché à la configuration des inscriptions, des maquettes, des notes, car il faut connaître le logiciel. Les inscriptions dans les groupes de TD du 2e semestre doivent se faire avant la rentrée du semestre 2 logiquement, idéalement dès le mois de décembre, ou début janvier.

    Mais le nouveau responsable n’arrive qu’en décembre et n’est que très peu accompagné par les services centraux de l’Université pour se familiariser aux réglages locaux du logiciel, par manque de personnel... Les inscriptions sont prévues le 18 janvier, une semaine avant la rentrée…

    Résultat : la catastrophe annoncée depuis des mois arrive, et s’ajoute à la #mauvaise_gestion de la crise sanitaire.

    Depuis lundi, les inscriptions dans les groupes de TD ne fonctionnent pas. Une fois, deux fois, trois fois les blocages se multiplient, les étudiants s’arrachent les cheveux face à un logiciel et un serveur saturés, ils inondent le secrétariat de mails inquiets, nous personnels administratifs et enseignants-chercheurs passons des heures à résoudre les problèmes. Le nouveau responsable reprend problème par problème, trouve des solutions, jusqu’à 1h du matin, tous les jours, depuis des jours, week-end compris.

    Maintenant nous voilà jeudi 21 janvier après-midi, à 3 jours de la rentrée. Sans liste d’étudiants par cours et par TD, sans informations claires sur les jauges et les horaires du campus, avec des annonces de dernière minute plus absurdes et irréalistes les unes que les autres, et on nous demande de ne pas craquer ? On nous dit que la présidence de l’Université, le ministère va nous obliger à reprendre en présentiel ? Nous renvoyant l’image de tire-au-flanc convertis au confort du distanciel ?

    L’an passé, un mouvement de grève sans précédent dans l’enseignement supérieur et la recherche a été arrêté net par le confinement de mars 2020.

    Ce mouvement de grève dénonçait l’ampleur de la précarité à l’université.

    La #précarité_étudiante, qui existait avant la crise sanitaire, nous nous rappelons de l’immolation de Anas, cet étudiant lyonnais, à l’automne 2019. La précarité des personnels de l’université : les #postes administratifs sont de plus en plus occupés par des #vacataires, formés à la va-vite, mal payés et mal considérés, qui vont voir ailleurs dès qu’ils en ont l’occasion tant les #conditions_de_travail sont mauvaises à l’université. La précarité des enseignants chercheurs : dans notre L1, dans l’équipe de 37 enseignants, 10 sont des titulaires de l’Université. 27 sont précaires, vacataires, avec des heures de cours payées des mois en retard, à un taux horaire en dessous du SMIC, qui attendent pendant des années avant de décrocher un poste de titulaire, pour les plus « chanceux » d’entre eux, tant les postes de titulaires se font rares alors que les besoins sont criants…

    Deux tiers des créneaux de cours de notre L1 sont assurés par des vacataires. Le mouvement de #grève a été arrêté par le #confinement mais la colère est restée intacte. En pleine crise sanitaire, le gouvernement a entériné une nouvelle #réforme de l’université, celle-là même contre laquelle la mobilisation dans les universités s’était construite, la fameuse #LPPR devenue #LPR, une loi qui augmente encore cette précarité, qui néglige encore les moyens nécessaires à un accueil décent des étudiants dans les universités. Le gouvernement a fait passer une loi sévèrement critiquée par une grande partie du monde universitaire au début du 2e confinement en novembre, et a fait passer ses décrets d’application le 24 décembre, la veille de Noël.

    Le gouvernement piétine le monde de l’enseignement supérieur et de la recherche et nous montre maintenant du doigt parce qu’on accueillerait pas correctement les étudiants ? Parce qu’on serait réticents à les revoir en présentiel ?

    Parce que finalement, pour nous enseignants à l’université, c’est bien confortable de faire cours au chaud depuis chez soi, dans sa résidence secondaire de Normandie ?

    J’enseigne depuis mon appartement depuis novembre.

    Mon ordinateur portable est posé sur la table à manger de mon salon, car le wifi passe mal dans ma chambre dans laquelle j’ai un bureau. J’ai acheté une imprimante à mes frais car de temps en temps, il est encore utile d’imprimer des documents, mais j’ai abandonné de corriger les devoirs de mes étudiants sur papier, je les corrige sur écran. Heureusement que je ne vis pas avec mon compagnon, lui aussi enseignant-chercheur, car matériellement, nous ne pourrions pas faire cours en même temps dans la même pièce : pas assez de connexion et difficile de faire cours à tue-tête côte à côte.

    A chaque repas, mon bureau devient ma table à manger, puis redevient mon bureau.

    En « cours », j’ai des écrans noirs face à moi, mais quand je demande gentiment à mes étudiants d’activer leur vidéo, ils font un effort, même s’ils ne sont pas toujours à l’aise de montrer le lit superposé qui leur sert de décor dans leur chambre partagée avec une sœur aide-soignante à l’hôpital qui a besoin de dormir dans l’obscurité quand elle rentre d’une garde de nuit, de voir leur mère, leur frère passer dans le champ de leur caméra derrière eux. Certains restent en écran noir, et c’est plus dur pour moi de leur faire la petite morale habituelle que j’administre, quand je fais cours dans une salle, aux étudiants endormis au fond de la classe. Je ne sais pas si mon cours les gonfle, s’ils sont déprimés ou si leur connexion ne permet pas d’activer la vidéo...

    Donc non, ce n’est pas confortable l’enseignement à distance. Ce n’est pas la belle vie. Ce n’est pas de gaieté de cœur que nous envisageons de ne pas revoir d’étudiants en vrai avant septembre prochain.

    Je suis enseignante-chercheure. Je dois donner des cours en L1, L3, Master.

    Depuis des jours, plutôt que de préparer des scénarios de rentrée intenables ou de résoudre les problèmes des inscriptions, j’aimerais pouvoir me consacrer à l’élaboration de ces cours, réfléchir aux moyens d’intéresser des étudiants bloqués derrière leurs ordinateurs en trouvant des supports adaptés, en préparant des petits QCM interactifs destinés à capter leur attention, en posant des questions qui visent à les faire réfléchir. Je dois leur parler d’immigration, de réfugiés, de la manière dont les États catégorisent les populations, des histoires de vie qui se cachent derrière les chiffres des migrants à la frontière.

    C’est cela mon métier.

    Je suis enseignante-chercheur mais à l’heure qu’il est, si je pouvais au moins être correctement enseignante, j’en serais déjà fortement soulagée.

    Il faut donc que nos responsables politiques et nos Présidences d’université se comportent de manière responsable. En arrêtant de faire de la com’ larmoyante sur l’avenir de notre jeunesse. Et en mettant vraiment les moyens pour diminuer la souffrance de toutes et tous.

    Il s’agit de notre jeunesse, de sa formation, de son avenir professionnel et citoyen.

    La mise en péril de cette jeunesse ne date pas de la crise sanitaire, ne nous faisons pas d’illusion là-dessus.

    La #crise_des_universités est plus ancienne, leur #sous-financement devenu structurel au moins depuis les années 2000. Alors arrêtez de vous cacher derrière l’imprévu de la crise sanitaire, arrêtez de vous faire passer pour des humanistes qui vous souciez de votre jeunesse alors que depuis mars dernier, rares ou marginaux ont été les discours et mesures prises pour maintenir l’enseignement en présentiel à l’Université.

    Cela fait cinq ans que j’enseigne à l’Université et déjà, je suis épuisée. De la même manière que nos soignant.es se retrouvent désemparé.es dans les hôpitaux face à l’impossibilité d’assurer correctement leur mission de service public de santé en raison des coupes budgétaires et des impératifs gestionnaires absurdes, je suis désespérée de voir à quel point, en raison des mêmes problèmes budgétaires et gestionnaires, nous finissons, dans les Universités, par assurer si mal notre #service_public d’#éducation...

    https://blogs.mediapart.fr/une-universitaire-parmi-dautres/blog/220121/l-excellence-en-temps-de-pandemie-chronique-du-naufrage-des-universi

    #université #facs #France #covid-19 #pandémie #coronavirus #épuisement

    signalé aussi dans ce fil de discussion initié par @marielle :
    https://seenthis.net/messages/896650

  • Droit du travail : un chauffeur Uber requalifié en « salarié »
    http://www.bonnes-nouvelles.be/site/index.php?iddet=2849&id_surf=&idcat=305&quellePage=999&surf_lang=fr

    Je me sens comme un esclave : je travaille de longues heures chaque jour, sous les ordres d’une application, mais je n’ai pas de quoi me payer un salaire à la fin du mois. » Guillaume* est chauffeur indépendant, ou « limousine » comme on dit chez Bruxelles Mobilité, où il a obtenu sa licence il y a un peu plus de deux ans. Depuis novembre 2018, il « collabore » avec Uber, qui organise le transport rémunéré de citadins dans la capitale et un peu partout dans le monde. À ce stade, il n’a « plus rien à (...)

    #Uber #procès #législation #conducteur·trice·s #GigEconomy #travail

    • Je me sens comme un esclave : je travaille de longues heures chaque jour, sous les ordres d’une application, mais je n’ai pas de quoi me payer un salaire à la fin du mois. »

      Guillaume* est chauffeur indépendant, ou « limousine » comme on dit chez Bruxelles Mobilité, où il a obtenu sa licence il y a un peu plus de deux ans. Depuis novembre 2018, il « collabore » avec Uber, qui organise le transport rémunéré de citadins dans la capitale et un peu partout dans le monde. À ce stade, il n’a « plus rien à perdre », nous explique-t-il. « Mais peut-être, quelque chose à gagner ». À savoir : devenir salarié de la multinationale.

      Début juillet, Guillaume a introduit une demande de qualification de sa relation avec la plateforme d’origine américaine auprès de la Commission administrative de règlement de la relation de travail (CRT). Quand la nature de votre relation avec votre donneur d’ordre ou votre employeur vous apparaît comme suspecte, cet organe est là pour analyser votre cas et décider, si au regard de la législation locale, vous êtes salarié ou indépendant.

      « Je ne gagne pas ma vie décemment »

      Guillaume, sur papier, appartient à la seconde catégorie de travailleurs (les deux seules existant en droit du travail belge). Il a enregistré une société en personne physique, son véhicule lui appartient, il a obtenu seul les autorisations nécessaires pour exercer son métier. « Avec Uber, je ne connais que les inconvénients de ce statut, en aucun cas les avantages. Je ne gagne de toute façon pas ma vie décemment, donc j’ai décidé d’aller jusqu’au bout », poursuit le trentenaire.

      Une démarche concluante puisque Le Soir a appris que la CRT lui avait donné raison à travers une décision longue de 12 pages rendue le 26 octobre dernier : Uber est bien, selon la Commission qui dépend du SPF Sécurité sociale, l’employeur de Guillaume. Précisément, la CRT conclut après un examen approfondi que « les modalités d’exécution de la relation de travail sont incompatibles avec la qualification de #travail_indépendant ».

      Pour aboutir à cette conclusion – la question est épineuse et fait débat dans bon nombre de pays européens ainsi qu’aux États-Unis (lire ci-contre) –, plusieurs éléments contractuels ont été analysés. Notamment ceux qui concernent la #liberté_d’organisation_du_travail et d’organisation du #temps_de_travail de Guillaume, deux démarches inhérentes au #statut_d’indépendant. Deux leitmotivs aussi utilisés par Uber depuis son lancement : l’entreprise estime, en effet, que la #flexibilité de ses chauffeurs ainsi que leur #liberté de prester quand ils le souhaitent et pour qui ils le souhaitent est à la base de sa « philosophie ».

      « Je ne peux pas refuser une course »

      « La réalité est bien différente », détaille Guillaume. « Uber capte quasi tout le marché à Bruxelles et, si je suis connecté à l’#application, je n’ai pas le #droit_de_refuser une course. Si je le fais, Uber abaisse ma “#cotation”. Si je le fais trois fois de suite, Uber me vire », détaille Guillaume. Qui précise qu’il lui est également impossible de jongler entre plusieurs plateformes. « Si je suis sur deux applications et que j’accepte une course pour un autre opérateur et qu’Uber me demande d’être disponible, je suis obligé de refuser la course. Au final, comme expliqué, cela me porte préjudice. »

      Guillaume, en outre, ne connaît pas son itinéraire avant d’accepter de prendre en charge un client. « On peut m’envoyer à 10 kilomètres. Soit un long trajet non rémunéré pour un trajet payé de 1.500 mètres. » S’il choisit de dévier du chemin imposé par la plateforme, par bon sens ou à la demande d’un client pressé, le chauffeur se dit également régulièrement pénalisé. Chez Uber, le client est roi. Quand ce dernier commande une course, l’application lui précise une fourchette de #prix. « Évidemment, si je prends le ring pour aller jusqu’à l’aéroport, le prix de la course augmente car le trajet est plus long, mais le client peut très facilement réclamer à Uber la différence tarifaire. Même s’il m’a demandé d’aller au plus vite. » Dans ce cas de figure, la différence en euros est immédiatement déduite de la #rémunération de Guillaume.

      La CRT estime que le chauffeur ne peut pas influer sur la manière dont Uber organise un #trajet, qu’il « n’a aucune marge de manœuvre quant à la façon dont la prestation est exercée. (…) En cas de non-respect de l’#itinéraire, si le prix de la course ne correspond pas à l’estimation, il peut être ajusté a posteriori par Uber, le passager peut alors obtenir un remboursement mais le chauffeur ne sera payé que sur base du prix annoncé à ce dernier. (…) A aucun moment, un dialogue direct entre le chauffeur et le passager n’est possible. (…) De telles modalités obligent le chauffeur à fournir une prestation totalement standardisée. »

      Un chantier dans le « pipe » du gouvernement

      Guillaume n’est pas naïf, ses représentants qui l’ont accompagné dans la démarche administrative – le syndicat CSC via sa branche dédiée aux indépendants #United_Freelancers et le collectif du secteur des taxis – ne le sont pas non plus. Il sait que l’avis de la CRT est « non contraignant » pour Uber mais qu’elle a de lourdes implications pour son cas personnel. À moins d’être requalifié comme « salarié » par l’entreprise elle-même (un recommandé a été envoyé à ce titre aux différentes filiales impliquées en Belgique), il ne peut désormais plus travailler pour Uber.

      De son côté, Uber explique qu’il « n’a pas encore pas encore reçu le point de la vue de la CRT » mais qu’il « estime que la justice bruxelloise a déjà tranché en 2019 le fait que ses chauffeurs étaient indépendants » (un procès a opposé l’entreprise au secteur des #taxis et lui a donné raison, mais ce dernier a fait appel et le jugement n’a pas encore été rendu). La société américaine pourrait d’ailleurs attaquer la décision en justice. L’anglaise #Deliveroo avait opté pour cette démarche en 2018 après que le même organe a acté en 2018 qu’un de ses #coursiers indépendants était en réalité salarié de la plateforme (l’audience aura lieu en septembre de cette année).

      « Notre priorité est de faire réagir les autorités. Uber, comme d’autres plateformes, doit occuper ses travailleurs selon une qualification conforme à la réalité du travail. Soit les #prestataires sont véritablement indépendants et devraient, dès lors, pouvoir fixer leurs prix, leurs conditions d’intervention, choisir leurs clients, organiser leur service comme ils l’entendent… Soit Uber continue à organiser le service, à fixer les prix et les règles, à surveiller et contrôler les chauffeurs, et ceux-ci sont alors des travailleurs salariés », cadrent Martin Willems, qui dirige United Freelancers et Lorenzo Marredda, secrétaire exécutif de la CSC Transcom.

      Au cabinet du ministre en charge du Travail Pierre-Yves Dermagne (PS), on confirme avoir déjà analysé les conclusions de la CRT et la volonté de débuter rapidement un chantier sur le sujet avec les partenaires sociaux. « Nous allons nous attaquer à la problématique des #faux_indépendants des #plateformes_numériques, comme décidé dans l’accord de gouvernement. L’idée est bien d’adapter la loi de 2006 sur la nature des #relations_de_travail. Cela pourrait passer par une évaluation des critères nécessaires à l’exercice d’une #activité_indépendante, par un renforcement des critères également. Mais il s’agit évidemment d’une matière qui doit être concertée », précise Nicolas Gillard, porte-parole.

      * Le prénom est d’emprunt, les décisions de la CRT sont anonymisées quand elles sont publiées.

      Des pratiques désormais similaires chez les taxis

      A.C.

      Selon le collectif des Travailleurs du taxi et la #CSC-Transcom, les problèmes constatés chez Uber sont actuellement également une réalité chez d’autres acteurs du secteur, en l’occurrence les #centrales_de_taxis. « Les taxis indépendants sont très dépendants des centrales. Et depuis leur #numérisation, il y a vraiment un glissement des pratiques. Les chauffeurs de taxi indépendants ne savent pas non plus où on les envoie avant d’accepter une course », explique Michaël Zylberberg, président du collectif. « La dernière version de l’application #Taxis_Verts est un clone de celle d’Uber. Au début, il y a cette idée de #concurrence_déloyale mais, comme le problème n’a pas été réglé, les centrales tendent à copier les mauvaises habitudes des plateformes. Cela est très inquiétant pour les travailleurs, qui perdent progressivement leur #autonomie », ajoute Lorenzo Marredda, secrétaire exécutif de la CSC-Transcom.

      Des décisions dans d’autres pays

      Mis en ligne le 13/01/2021 à 05:00

      Par A.C.

      Lors de son introduction en Bourse en 2019, Uber expliquait collaborer avec 3 millions de chauffeurs indépendants dans le monde. Fatalement, face à une telle masse de main-d’œuvre, qui se plaint souvent de #conditions_de_travail et de #rémunération indécentes, procès et interventions des législateurs ponctuent régulièrement l’actualité de l’entreprise. Ces derniers mois, trois décisions retiennent particulièrement l’attention.

      En #Suisse

      Plusieurs cantons sont en plein bras de fer avec la plateforme américaine. A #Genève et à #Zurich, les chauffeurs Uber sont désormais considérés comme des salariés. Les caisses d’#assurances_sociales réclament des sommes très importantes à l’entreprise, qui refuse jusqu’à présent de payer les #cotisations_sociales employeurs réclamées.

      En #France

      La# Cour_de_cassation a confirmé en mars dernier que le lien entre un conducteur et l’entreprise est bien un « #contrat_de_travail ». Les arguments utilisés se rapprochent de ceux de la CRT : la plus haute juridiction du pays a jugé que « le chauffeur qui a recours à l’application Uber ne se constitue pas sa propre clientèle, ne fixe pas librement ses tarifs et ne détermine pas les conditions d’exécution de sa prestation de transport ». Une #jurisprudence qui permet d’appuyer les demandes de #requalification des chauffeurs indépendants de l’Hexagone.

      En #Californie

      Une loi contraint, depuis le 1er janvier 2020, Uber et #Lyft à salarier ses collaborateurs. Les deux entreprises refusant de s’y plier ont investi environ 200 millions de dollars pour mener un référendum citoyen sur la question qu’ils ont remporté en novembre dernier, avec un texte baptisé « #proposition_22 ». Qui introduit pour les dizaines de milliers de chauffeurs concernés un #revenu_minimum_garanti et une contribution à l’#assurance_santé.

      #néo-esclavage #ordres #Bruxelles_Mobilité #sous-traitance #travailleur_indépendant #salariat #salaire #Commission_administrative_de_règlement_de_la_relation_de_travail (#CRT) #Belgique #droit_du_travail

  • On n’a pas signalé ces deux captations d’interventions d’Aude Vidal sur son livre sur Égologie, dont une très longue par @latelierpaysan ici présent !

    Aude VIDAL - ÉGOLOGIE : écologie, individualisme et course au bonheur
    https://www.youtube.com/watch?v=ouEdpD9w5x0

    L’Atelier paysan s’attaque à l’autonomie technique des paysan-nes en leur proposant une alternative concrète : les former à autoconstruire leur matériel agricole.
    Est-ce suffisant pour enrayer l’industrie de la machine, qui impose de remplacer les paysan- nes par des robots, des drones, des capteurs informatiques ?
    Quelles sont les conséquences de ces « solutions technologiques » pour les communautés paysannes, pour l’environnement, pour le modèle alimentaire ?

    Aude Vidal nous parle ici des « alternatives », dans la suite de son ouvrage Egologie : les
    expérimentations écologistes sont-elles le laboratoire d’innovations sociales plus
    respectueuses de l’être humain et de son milieu ? ou accompagnent-elle un recul sur soi et ce sur quoi il est encore possible d’avoir prise dans un contexte de dépossession démocratique et économique ?

    Une belle manière pour l’Atelier paysan de questionner la limite des alternatives : l’expansion de pratiques alternatives peut-elle provoquer de la transformation sociale ? Les pratiques sociales parviennent-elles à infléchir les rapports sociaux ?
    A l’Atelier paysan, dont l’activité centrale est de proposer des alternatives concrètes et immédiates aux paysannes et paysans, nous pensons que non. Nous avons l’intuition qu’il nous faut dans le même temps tenter d’exercer un rapport de force avec les dominants (pour nous l’industrie de la machine et la techno-science).

    Et une autre plus récente :
    https://www.youtube.com/watch?v=lxqPsK2mkAY

    #Aude_Vidal #écologie #politique #écologie_politique #individualisme #libéralisme #bien-être #développement_personnel

    • Égologie. Écologie, individualisme et course au bonheur

      #Développement_personnel, habitats groupés, jardins partagés... : face au désastre capitaliste, l’écologie se présente comme une réponse globale et positive, un changement de rapport au monde appuyé par des gestes au quotidien. Comme dans la fable du colibri, « chacun fait sa part ».
      Mais en considérant la société comme un agrégat d’individus, et le changement social comme une somme de gestes individuels, cette vision de l’écologie ne succombe-t-elle pas à la logique libérale dominante, signant le triomphe de l’individualisme ?

      http://www.lemondealenvers.lautre.net/livres/egologie.html

      #livre

      #souveraineté_alimentaire #liberté_individuelle #alternatives #Nicolas_Marquis #capitalisme #jardins_partagés #classes_sociales #jardinage #justice_environnementale #dépolitisation #égologie

    • Du bien-être au marché du malaise. La société du développement personnel

      Des ouvrages qui prétendent nous aider dans notre développement personnel, à « être nous-mêmes » ou à « bien communiquer », et des individus qui déclarent que ces lectures ont « changé leur vie » : voilà la source de l’étonnement dont ce livre est le résultat. Comment comprendre ce phénomène ? Comment est-il possible que tant de personnes puissent trouver du sens au monde si particulier du « développement personnel », au point d’en ressentir des effets concrets ?

      Nicolas Marquis prend au sérieux cette expérience de lecture, en cherchant à comprendre ce qui se passe très concrètement entre un lecteur qui veut que quelque chose change dans son existence et un ouvrage qui prétend l’aider en lui parlant de ce qu’il vit personnellement. En procédant à la première enquête sur les lecteurs, il montre en quoi le développement personnel est l’une des institutions les plus frappantes des sociétés individualistes : son succès permet de comprendre les façons dont nous donnons, au quotidien, du sens à notre existence.


      https://www.cairn.info/du-bien-etre-au-marche-du-malaise--9782130628262.htm

    • Le Syndrome du bien-être

      Vous êtes accro à la salle de sport ? Vous ne comptez plus les moutons mais vos calories pour vous endormir ? Vous vous sentez coupable de ne pas être suffisamment heureux, et ce malgré tous vos efforts ? Alors vous souffrez sûrement du #syndrome_du_bien-être. Tel est le diagnostic établi par Carl Cederström et André Spicer.
      Ils montrent dans ce livre comment la recherche du #bien-être_optimal, loin de produire les effets bénéfiques vantés tous azimuts, provoque un sentiment de #mal-être et participe du #repli_sur_soi. Ils analysent de multiples cas symptomatiques, comme ceux des fanatiques de la santé en quête du régime alimentaire idéal, des employés qui débutent leur journée par un footing ou par une séance de fitness, des adeptes du quantified self qui mesurent – gadgets et applis à l’appui – chacun de leurs faits et gestes, y compris les plus intimes... Dans ce monde inquiétant, la bonne santé devient un impératif moral, le désir de transformation de soi remplace la volonté de changement social, la culpabilisation des récalcitrants est un des grands axes des politiques publiques, et la pensée positive empêche tout véritable discours critique d’exister.
      Résolument à contre-courant, ce livre démonte avec une grande lucidité les fondements du culte du corps et de cette quête désespérée du bien-être et de la santé parfaite.

      https://www.lechappee.org/collections/pour-en-finir-avec/le-syndrome-du-bien-etre

      #André_Spicer
      #Carl_Cederström

    • Rigolez, vous êtes exploité

      « Vous êtes éreinté ? Votre activité professionnelle vous plonge dans la #dépression ? Vous songez à mettre fin à vos jours ? Nous avons la solution : ri-go-lez ! » Voilà en substance le message de la direction des #ressources_humaines (DRH) du centre hospitalier universitaire (CHU) de Toulouse au personnel de l’établissement. La solution arrive à point nommé, car la situation menaçait de devenir dramatique…

      Un peu comme France Télécom hier ou la Société nationale des chemins de fer français (SNCF) aujourd’hui, le #CHU toulousain est confronté à une recrudescence de #suicides de salariés. Le rapport d’un cabinet de conseil établi en 2016 est formel : les quatre personnes ayant mis fin à leurs jours en quelques semaines la même année (dont une dans les locaux du CHU) l’ont fait à cause de leurs #conditions_de_travail. L’année suivante, dans un des 26 000 documents internes révélés par la presse (1), une infirmière en gynécologie décrit ainsi son quotidien : « Mise en danger de la vie des patientes, mauvaise prise en charge de la douleur, dégradation de l’image des patientes (patientes laissées plusieurs minutes souillées de vomis) (…) mauvaise prise en charge psychologique (annonce de cancer faite récemment, pas le temps de discuter). (…) Une équipe épuisée physiquement (même pas cinq minutes de pause entre 13 h 30 et 23 heures) et moralement (sentiment de travail mal fait et de mettre en danger la vie des patients). »

      Les choses n’ont guère progressé depuis. En février 2019, un patient meurt d’une crise cardiaque dans le sas des urgences. L’infirmier de garde cette nuit-là, en poste depuis 10 heures du matin, avait la charge de plus de quinze patients. Il n’a pas eu le temps de faire les gestes de premiers secours (2). Début mai 2019, rebelote au service de soins intensifs digestifs, en pleine restructuration, où un problème informatique a mené à la mort d’un patient.

      Depuis 2015, une soixantaine de préavis de grève ont été envoyés à la direction par les syndicats. Au moins quatorze grèves ont eu lieu (cinq rien qu’en 2019), sans compter les quelque vingt mobilisations collectives, la douzaine d’actions d’envergure et les chorégraphies parodiques de soignants vues six millions de fois sur les réseaux sociaux. « À l’hôpital des enfants, le nombre d’arrêts-maladie des quatre premiers mois de 2019 est de 20 % supérieur à celui de la même période en 2018, nous explique Mme Sandra C., vingt ans d’hôpital public à son actif, dont dix-sept à l’hôpital des enfants de Toulouse. Nous avons l’impression d’être traités comme des numéros par une direction dont le seul but est de faire appliquer les réductions de coûts et la baisse du personnel. Nous avons besoin d’au moins six cents embauches dans tout le CHU, et vite. »

      Embaucher ? Impossible !, rétorque la direction, largement convertie au lean management, le « management sans gras », une doctrine d’optimisation du rendement élaborée par les ingénieurs japonais du groupe Toyota après la seconde guerre mondiale et peaufinée ensuite dans les éprouvettes néolibérales du Massachusetts Institute of Technology (MIT). L’objectif ? Faire produire plus avec moins de gens, quitte à pousser les équipes à bout.

      Des conditions de travail déplorables, des contraintes de rentabilité qui interdisent d’améliorer le sort du personnel, des salariés qui préfèrent mettre fin à leurs jours plutôt que d’endurer leur activité professionnelle ? Il fallait réagir. C’est chose faite grâce à une initiative de la DRH : des séances de rigologie, cette « approche globale permettant une harmonie entre le corps, l’esprit et les émotions », comme on peut le lire dans le « Plan d’actions 2018 pour la prévention des risques psychosociaux et la qualité de vie au travail » du pôle hôpital des enfants du CHU de Toulouse.

      Yoga du rire, méditation de pleine conscience, techniques variées de relaxation et de respiration, sophrologie ludique… la rigologie vise à « cultiver les sentiments positifs et sa joie de vivre ». Sur la page d’accueil du site de l’École internationale du rire (« Bonheur, joie de vivre, créativité »), l’internaute tombe sur la photographie d’un groupe de salariés hilares faisant le symbole de la victoire. S’ils sont heureux, suggère l’image, c’est qu’ils ont tous décroché leur diplôme de « rigologue » à la suite d’une formation de sept jours en psychologie positive, yoga du rire et autres techniques de « libération des émotions », facturée 1 400 euros. Un rigologue estampillé École du rire, le leader du marché, se fera rémunérer entre 1 000 et 3 000 euros la journée. Il pourra éventuellement devenir chief happiness officer, ces responsables du service bonheur dont les entreprises du CAC 40 raffolent (3).

      La souffrance au travail est devenue un marché, et le service public apparaît comme un nouveau terrain de jeu du développement personnel. Ainsi des policiers confrontés à une vague de suicides (vingt-huit en 2019), auxquels le directeur général de la police nationale a envoyé, fin mai, une circulaire incitant les encadrants à favoriser « les moments de convivialité et de partage » comme les barbecues, les sorties sportives ou les pique-niques en famille (4). Ainsi des agents de la SNCF, une entreprise qui compte depuis le début de l’année 2019 un suicide de salarié par semaine. La direction lilloise de la société ferroviaire en pleine restructuration a fait appel au cabinet Great Place to Work (« super endroit pour travailler »), qui lui a conseillé de… distribuer des bonbons aux agents en souffrance, de mettre en place des goûters-surprises ou encore des ateliers de maquillage (5).

      « Au départ, nous explique Mme Corinne Cosseron, directrice de l’École internationale du rire et importatrice du concept de rigologie en France, je me suis formée pour plaisanter, comme un gag, au yoga du rire, une technique mise au point par un médecin indien, qui s’est rendu compte que ses patients joyeux guérissaient mieux que les sinistres. Le rire permet de libérer des hormones euphorisantes qui luttent contre la douleur », explique cette ancienne psychanalyste qui évoque les endorphines (« un antidouleur naturel qui agit comme une morphine naturelle »), la sérotonine (« la molécule du bonheur »), la dopamine (celle de la motivation) ou encore l’ocytocine (« l’hormone de l’amour »). « C’est un grand shoot gratuit. Beaucoup de grandes entreprises ont commencé à faire appel à nous (SNCF, Total, Suez, Royal Canin, Danone, etc.), car le rire répare point par point tout ce que les effets du stress détruisent. Non seulement le salarié va aller mieux (il ne va pas se suicider, il n’ira pas voir chez le concurrent), mais, en plus, l’entreprise va gagner en productivité. Donc c’est du gagnant-gagnant. »

      Novateur, le CHU de Toulouse a vu se mettre en place des séances de « libération émotionnelle » et de « lâcher-prise » dans le service des soins palliatifs dès 2017. Dans le cadre de ses propositions d’actions 2018-2019 pour prévenir les risques psychosociaux et pour la qualité de vie au travail, la DRH propose désormais d’élargir son offre à d’autres unités sous tension, comme l’hôpital des enfants, où, au mois de mars dernier, deux grèves ont éclaté pour protester contre le projet de réduction du nombre de lits et d’intensification du travail des soignants.

      On soumet ce projet de lâcher-prise à M. Florent Fabre, 31 ans, infirmier au service des urgences psychiatriques. Sa première réaction est de laisser éclater un long rire, générant probablement un apport non négligeable en bêta-endorphines — ce qui lui permet de dire avec une voix parfaitement détendue : « C’est grotesque et indécent. » Pour ce soignant, qui a participé à la lutte victorieuse des salariés de son service, lesquels ont arraché deux postes supplémentaires d’infirmier à l’issue de deux mois de grève durant le printemps 2019, « le niveau du mépris social affiché par la direction du CHU ainsi que par les cadres régionaux de l’agence régionale de santé est totalement aberrant. Dès lors qu’il s’agit d’entendre qu’il y a un vrai manque de soignants, le dialogue se rompt. La santé des agents hospitaliers est le moindre de leurs soucis ». Contactée, la direction du CHU a refusé de répondre à cet appel à embaucher, qu’elle qualifie de « théories de la CGT [Confédération générale du travail] ». « On assume totalement ce document de proposition de rigologie », nous a précisé le directeur de la communication avant de nous raccrocher au nez. On ne rigole plus.

      « Mais, s’agace Mme Maguy Mettais, la pharmacienne chargée de la prévention des risques psychosociaux, avez-vous déjà testé la rigologie ? Ça serait peut-être intéressant que vous essayiez une séance, non ? C’est génial, vous verrez. » Adeptes du journalisme total, nous acceptons la proposition. « Alors, vous mettez les mains droit devant vous et vous expirez en faisant “chah” ! On le fait ensemble ? C’est parti ! Après on met les bras sur le côté et on fait “chou” ! Et un dernier, les bras levés vers le ciel et on va faire un grand “chiii” sur le temps d’expiration. » Docile, nous nous exécutons, pour la bonne cause. « Au final, ce qui est rigolo, c’est que ça fait chah-chou-chi… Comme si ça faisait “salsifis” [elle éclate de rire]. Voilà, j’avais envie de vous le faire découvrir, ça peut être bien avant d’écrire votre article. »

      https://www.monde-diplomatique.fr/2019/07/BRYGO/60014

      #rire #thérapie_du_rire

      –—

      Pour rappel, les #formations dédiées au personnel de l’#Université_Grenoble_Alpes :
      1. Gestion de #conflits (formation mise sous le thème « #efficacité_professionnelle »)
      2. Mieux vivre ses #émotions dans ses #relations_professionnelles (aussi mise sous le même thème : #efficacité_professionnelle)
      https://seenthis.net/messages/882135

      #QVT #qualité_de_vie_au_travail

    • La démocratie aux champs. Du jardin d’Éden aux jardins partagés, comment l’agriculture cultive les valeurs

      On a l’habitude de penser que la démocratie moderne vient des Lumières, de l’usine, du commerce, de la ville. Opposé au citadin et même au citoyen, le paysan serait au mieux primitif et proche de la nature, au pire arriéré et réactionnaire.
      À l’opposé de cette vision, ce livre examine ce qui, dans les relations entre les cultivateurs et la terre cultivée, favorise l’essor des valeurs démocratiques et la formation de la citoyenneté. Défi le alors sous nos yeux un cortège étonnant d’expériences agricoles, les unes antiques, les autres actuelles ; du jardin d’Éden qu’Adam doit « cultiver » et aussi « garder » à la « petite république » que fut la ferme pour Jefferson ; des chambrées et foyers médiévaux au lopin de terre russe ; du jardin ouvrier au jardin thérapeutique ; des « guérillas vertes » aux jardins partagés australiens.
      Cultiver la terre n’est pas un travail comme un autre. Ce n’est pas suer, souffrir ni arracher, arraisonner. C’est dialoguer, être attentif, prendre une initiative et écouter la réponse, anticiper, sachant qu’on ne peut calculer à coup sûr, et aussi participer, apprendre des autres, coopérer, partager. L’agriculture peut donc, sous certaines conditions, représenter une puissance de changement considérable et un véritable espoir pour l’écologie démocratique.

      https://www.editionsladecouverte.fr/la_democratie_aux_champs-9782359251012démocratiques

    • La #durabilité en pratique(s) : gestion et appropriation des #principes_durabilistes véhiculés par les #écoquartiers

      Dans cette contribution, il est question de la durabilité comme objet, dans sa dimension heuristique, en tant que moyen de compréhension voire d’explication des initiatives individuelles, collectives et politiques ainsi que des dynamiques. Il s’agit tout d’abord de se pencher sur la manière dont la durabilité est mobilisée et signifiée, aussi bien sur l’horizon du pensable qui l’accompagne que sur les « manières de faire » qu’elle véhicule, parmi des acteurs divers, pris dans des jeux d’échelles, d’intérêts et dans des engagements parfois contradictoires. Politiquement, la mise en œuvre de la durabilité se décline dans des contextes, pour des raisons et à des finalités diverses que peuvent être la transformation des comportements individuels, la modification de la législation et des cadres réglementaires nationaux et locaux, la redéfinition des stratégies communautaires, etc. Entre pratiques, éthique, fiscalité individuelle d’un côté et enjeux techniques, politiques et sociétaux de l’autre, ces multiples mobilisations de la durabilité rendent cette notion évasive, voire équivoque. Au-delà d’un recensement et d’une classification de cette multiplicité d’usage et de traduction « en pratiques » de la durabilité, c’est sur la base des multiples tensions qui caractérisent ces manières de voir, comprendre, mobiliser et opérationnaliser la durabilité que nous cherchons à venir éclairer les pratiques leurs implications mais aussi leurs conséquences. Pour ce faire nous nous appuyons sur les 37 entretiens (15 avec les concepteurs, 22 avec les habitants) réalisés lors d’une enquête menée en 2012 et 2013 sur l’écoquartier de Lyon Confluence dans le cadre de la thèse de doctorat de Matthieu Adam. Nous analysons les discours portant sur la durabilité. Ceux-ci ont toujours une portée normative et performative mais peuvent aussi être considérés en tant qu’embrayeur de sens permettant de saisir les modalités de réactions, passives (acceptation) et/ou actives (refus, adaptation, contre-proposition, etc.) face à cette quête de durabilité. En analysant les pratiques, les manières d’être, les attitudes ainsi que les représentations d’une part liées à l’injonction de durabilité et d’autre part à sa mise en pratique, nous mettrons au débat des éléments portant tant sur les décalages entre intentions et actions que sur les moyens utilisés pour tenter de les lever. De plus, en changeant de focale, l’analyse fine des discours permet de tirer des enseignements sur le développement durable en tant que valeur et idéologie dominante du projet urbain mais aussi en tant que modalités pratiques quotidiennes.

      https://books.openedition.org/cse/124

      #Georges-Henry_Laffont #Matthieu_Adam

  • Ikea : grève et débrayages dans plusieurs magasins français
    « Localement, il y a des tracts partout. On a davantage l’impression d’avoir affaire aux “Gilets jaunes” »
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2020/12/18/greve-et-debrayages-dans-certains-magasins-ikea_6063841_3234.html

    Depuis le 10 décembre, plusieurs magasins du géant suédois de l’ameublement enregistrent des débrayages ponctuels un peu partout en France. Les salariés protestent contre la suppression de leur prime de fin d’année.

    Chez Ikea en France, même la grève est en kit. Avignon, Metz, Caen, Vénissieux, Vitrolles…. Depuis jeudi 10 décembre, plusieurs magasins du géant suédois de l’ameublement enregistrent des #débrayages ponctuels un peu partout dans l’Hexagone. Certains avec des piquets de grève de quelques salariés, d’autres obligeant le magasin à fermer ses portes, comme à Franconville (Val-d’Oise), samedi 12 décembre.

    En désorganisant ainsi le bon fonctionnement des magasins, les salariés veulent protester contre la suppression de leur #prime_de_fin_d’année – partie intégrante de la composante variable de leur #salaire − et ce, pour la première fois depuis qu’Ikea est installé en France. Les résultats « ne permettent pas de redistribuer de la participation aux collaborateurs. Il n’y a pas d’alternative », explique-t-on chez Ikea France. A la place, dans les magasins, les salariés ont reçu « un sapin et une carte-cadeau de 15 euros valable uniquement à l’épicerie suédoise », ironise Roger Pouilly, délégué syndical central CGT.

    Lundi, une cinquantaine de grévistes accueillaient les clients devant l’entrée du magasin Ikea du centre commercial de Tourville-la-Rivière (Seine-Maritime), avec une pancarte arborant des carottes et portant l’inscription « Merci pour tout, voici votre récompense », rapportait Paris Normandie, lundi. Ils étaient également une cinquantaine devant l’Ikea Buld’air à Vedène dans le Vaucluse, samedi, selon Le Dauphiné, et autant à Mulhouse, mardi, d’après L’Alsace.

    « Chacun fait à sa sauce », reconnaît M. Pouilly. Ces débrayages auraient touché près de 15 magasins depuis une semaine, selon la CGT, sur les 34 que compte le groupe dans le pays. Les uns à l’appel de la CGT, les autres de la CFDT, de FO, de l’UNSA… « On est dans la totale improvisation », reconnaît un syndicaliste. Certaines organisations demandant une revalorisation des salaires, les autres une prime. « Localement, il y a des tracts partout. On a davantage l’impression d’avoir affaire aux “gilets jaunes” », reconnaît un salarié.

    « Beaucoup de contrats de 25 heures, rémunérés 900 euros net par mois »

    Réduite au fil des ans, cette prime de participation pouvait « représenter, ces dernières années, autour de 1 000 euros, ajoute M. Pouilly. C’était le double quand je suis entré dans l’entreprise en 2005, alors qu’on faisait moins de chiffre d’affaires ». Un complément financier qui, aux dires des organisations syndicales, compensait jusqu’à présent des rémunérations peu élevées dans l’entreprise. Le salaire moyen des employés « est environ 8 à 10 % plus élevé que le smic, quand celui des directeurs avoisine les 9 000 euros brut par mois », indique M. Pouilly, précisant qu’il y a « beaucoup de contrats de 25 heures chez Ikea, rémunérés 900 euros net par mois. Des gens dont c’est le seul travail ».

    Les syndicats dénoncent le manque de rétribution pour les efforts déployés pendant les deux confinements par les salariés, qui ont basculé dans la préparation des commandes pour la vente en ligne, alors que les magasins étaient fermés au public. « Les vendeurs sont venus renforcer l’organisation logistique en restant dans le magasin », raconte Jean-Paul Barbosa, délégué syndical central pour la CFDT, le syndicat majoritaire chez Ikea France. « La cadence était infernale. On n’est pas Amazon, on n’a pas ce genre de rythme. Les salariés pouvaient aller chercher un meuble en zone libre-service, puis récupérer de la vaisselle en rayon et remonter à l’étage prendre un luminaire. Ils en ont fait, des kilomètres. Aujourd’hui, les salariés sont dégoûtés », ajoute-t-il.

    La direction se félicite néanmoins d’avoir « maintenu 100 % des emplois et 100 % des salaires », alors que « le site Internet a dû fermer pendant quatre semaines lors du premier confinement ». Elle assure que « le dialogue est maintenu avec les organisations syndicales ». A la demande des syndicats, une réunion a été organisée vendredi 11 décembre avec la direction générale, qui « nous a expliqué qu’Ikea gère son entreprise comme un bon père de famille, raconte M.Barbosa. On a répondu qu’un bon père de famille fait des cadeaux à ses enfants ! »

    L’entreprise avait connu une grève historique, en 2010

    Un comité central extraordinaire s’est tenu dans la foulée, lundi 14 décembre. « Mais la réunion n’a servi à rien, relate M. Pouilly. Ils nous ont expliqué qu’ils ne pouvaient pas verser la prime de participation car ils ont fait moins de chiffre d’affaires que l’an dernier », mais aussi « qu’ils avaient provisionné 3,5 millions d’euros en vue de l’affaire d’espionnage de 2012 qui sera jugée en avril 2021 ». Le chiffre d’affaires de l’enseigne en France a baissé de 7 % sur l’année fiscale de septembre 2019 à août 2020, à 2,790 milliards d’euros, dont 15,4 % réalisés par l’e-commerce.

    Longtemps réputée pour son climat social apaisé, l’entreprise avait connu une #grève historique, en 2010, qui avait touché 23 de ses 26 magasins français. « Cela avait duré un mois, se souvient M. Barbosa. Le mouvement avait commencé par un magasin, puis deux, puis trois, et il avait fait boule de neige, avec les mêmes problématiques sur les conditions de travail et de rémunération ». Sans pour autant, à l’époque, que les salariés parviennent à leurs fins.

    #Ikea France avait été renvoyé en correctionnelle dans une affaire d’espionnage de ses #salariés
    https://seenthis.net/messages/853189
    https://seenthis.net/messages/854304

    #travail #conditions_de_travail #emploi #temps_partiel #bas_salaires

    • J’aime particulièrement :

      A la demande des syndicats, une réunion a été organisée vendredi 11 décembre avec la direction générale, qui « nous a expliqué qu’Ikea gère son entreprise comme un bon père de famille, raconte M.Barbosa. On a répondu qu’un bon père de famille fait des cadeaux à ses enfants ! »

  • A Genève, Uber eats s’approprie les pourboires des livreurs RTS
    https://www.rts.ch/info/economie/11827985-a-geneve-uber-eats-sapproprie-les-pourboires-des-livreurs.html

    Depuis l’introduction d’un salaire minimum à Genève de 23 francs de l’heure voté en septembre dernier, les livreurs Uber eats voient leurs pourboires leur passer sous le nez.

    Cette période de pandémie a rendu la livraison des repas à domicile particulièrement populaire. Parmi ces livreurs, ceux d’Uber eats n’ont pas chômé. Pour souligner leur travail, l’application insiste : « Votre pourboire pour Mathieu : sans eux, pas de livraison possible. »

    Le client généreux pense au froid hivernal, aux temps difficiles pour ces travailleurs souvent précaires et verse un pourboire via l’appli. Ce d’autant plus que le livreur est invité à déposer le repas devant la porte, afin d’éviter tout contact en raison des mesures sanitaires.

    Sauf que, depuis le 1er novembre, le livreur Uber eats ne touche pas un centime du pourboire laissé en ligne.

    Livreurs en colère
    « Quand on nous donne un pourboire, c’est de la bonne volonté, c’est pour notre travail. Pourquoi ils nous enlèvent cette partie de notre revenu ? C’est un cadeau du client », s’indigne un livreur mardi devant la caméra du 19h30.

    Pourtant, l’application précise le contraire : « Les pourboires sont facultatifs et constituent une autre façon de dire merci. Votre pourboire est intégralement reversé au coursier », lit-on après avoir passé une commande.

    « Le client croit qu’il donne quelque chose au livreur et au final, c’est quelqu’un d’autre qui vient le prendre. Même le client se fait avoir dans l’histoire », relève un deuxième livreur.

    Le seuil de rentabilité invoqué
    A Genève, la situation des livreurs a totalement changé en deux mois. Sur décision judiciaire, leur statut est passé d’indépendant à employé. Et après la votation cantonale de septembre dernier, ils se sont vus attribuer un salaire minimum à 23 francs de l’heure.

    Chaskis, la société qui salarie les livreurs Uber eats, a refusé de répondre à nos questions. Dans une prise de position, elle écrit : « Ce sujet est lié à notre seuil de rentabilité (...). Notre entreprise ne peut évidemment poursuivre ses activités et maintenir ses nombreux emplois que si chacun y met du sien ».

    Pour les 600 livreurs Uber eats à Genève, cette décision représente un gros manque à gagner. « Pour un temps plein, on reçoit chaque mois entre 250 et 400 francs de pourboires. Il y a un petit goût amer maintenant quand on remercie un client pour son pourboire, parce qu’on ne les touche plus. Cela correspond juste à des frais de livraisons supplémentaires, qu’on imagine être pour couvrir le passage à 23 francs », déplore un troisième livreur.

    Une démarche illégale
    Selon le syndicat Unia, cette décision unilatérale est illégale : « Nous avons formellement contesté cette démarche et avons demandé de l’arrêter immédiatement. J’attends toujours une réponse de leurs avocats pour nous rencontrer et pouvoir donner une résolution correcte à toutes cette problématique », souligne Umberto Bandiera, secrétaire syndical.

    La situation des livreurs Uber eats est unique. Les services de livraisons concurrents eux reversent les pourboires à leurs coursiers.

    Delphine Gianora/fme

     #uber #vol #escroquerie #Suisse #travail #salaire #gigeconomy #conditions_de_travail #travailleurs_indépendants #revenu

  • En France, un système qui fait perdre l’envie de #recherche

    Alternance de #contrats_courts et de périodes de #chômage, vacations payées aléatoirement, difficulté à être titularisé… « Libération » a recueilli les témoignages de nombreux jeunes chercheurs lessivés par le fonctionnement de l’université.

    La France perd ses jeunes chercheurs, dégoûtés du système. En 2018, le nombre de doctorats délivrés était en baisse de 4 %. Les carrières universitaires n’attirent plus. Ou du moins, elles font fuir une partie de ceux qui s’y aventurent quand ils découvrent la galère promise. Une journée de mobilisation a lieu ce jeudi contre la politique de recherche du gouvernement. Les jeunes chercheurs sont à la pointe du mouvement.

    « Il y avait treize doctorants dans mon laboratoire, seulement deux ont continué en post-doctorat. Tous les six mois, je me dis que je vais arrêter, et en fait non », témoigne Mélissa, post-doctorante en éthologie. Elle vit avec son compagnon, Geoffrey, lui aussi chercheur et âgé de 29 ans. Ils sont réunis « pour la première fois en six ans » dans le même appartement. La faute à leur boulot, qui les pousse à bouger dans tous les sens quitte à s’asseoir sur leur vie personnelle. Cette parenthèse à deux s’arrêtera dans trois mois. Mélissa sera alors à Zurich et Geoffrey à Niort. « On ne se plaint pas, on est déjà sur le même continent… »

    Etienne (1), lui, va changer de continent. Ce docteur en intelligence artificielle (IA) a vu de près les dégâts de la recherche à la française. La pression pour publier le plus possible d’articles scientifiques dans des revues, condition sine qua non pour remplir son CV et espérer être titularisé, a fini par le dégoûter : « On dit que c’est "publier ou périr", mais maintenant c’est plutôt "publier et périr" puisqu’il n’y a plus de postes. » Pour ce trentenaire, la désillusion grandit depuis plusieurs années : quand il était doctorant, il a dû finir sa thèse grâce aux indemnités chômage, se contentant de 900 euros mensuels pour vivre. « Mon encadrant principal a fait deux burn-out car il travaillait trop, ça ne donnait pas envie de continuer. » Mais il s’accroche.

    Après sa thèse, Etienne signe un contrat de deux ans de post-doc dans un labo de recherche, malgré les sirènes du privé qui lui promettent d’au moins doubler son salaire. Le déclic, pour changer de cap, il l’a eu en 2019. Il participe alors à une réunion de présentation de la politique française en IA, durant laquelle deux hauts fonctionnaires disent avoir pour projet de propulser la France dans le top 5 mondial. « Ils ne parlaient de recruter que des contrats précaires, des doctorants. Je suis allé leur poser la question : qu’en est-il pour les post-docs qui souhaitent rester en France ? Leur réponse a été assez surprenante : "Non, pas de création de postes fixes, monsieur, allez aux Etats-Unis." » Message reçu, mais pas de gaieté de cœur. Etienne entend bien partir travailler sur l’IA outre-Atlantique.
    « Très dévalorisant »

    Un grand gâchis humain. Quelques mots pour résumer ce à quoi ressemble la politique française en recherche. Libération a reçu plus de 200 témoignages de jeunes chercheurs déçus du système. Comme François (1), qui nous écrit : « La loi de programmation de la recherche m’a définitivement décidé, je ne vais même pas essayer de faire de la recherche dans le public. C’est d’autant plus dommage que, comme normalien, l’Etat a essentiellement payé pour que je le fasse. »

    La pression exercée sur le système conduit à de mauvaises pratiques. Xavier (1), ex-doctorant en astronomie, a vu la réputation du laboratoire passer avant l’éthique scientifique. « Le jour où on m’a demandé de cacher des résultats qui n’allaient pas dans le sens des promesses faites à l’Agence nationale de la recherche devant un public international, j’ai décidé de ne pas continuer dans la recherche, explique celui qui prépare l’agrégation de physique. J’adore la recherche, mais obtenir un poste est un parcours du combattant. Enchaîner les post-docs pendant six, huit, peut-être dix ans, qui veut ça ? »

    C’est exactement la situation que vit Alain (1). Depuis sa thèse de biologie soutenue en 2013, il alterne entre les contrats courts et les périodes de chômage. « Pour l’instant, l’objectif c’est de profiter du chômage pour écrire mes publications en retard, continuer à postuler pour des contrats et prier pour obtenir quelque chose. Ce serait très dévalorisant de me dire que j’ai autant persévéré pour au final abandonner. » Le problème du secteur n’est ni l’attractivité - il y a encore plus de dix candidats par poste ouvert - ni le manque de travail - les recherches et les étudiants continuent d’affluer. « Le premier problème, c’est le manque de financements », lâche Alain. De fait, dans les universités notamment, le besoin en enseignants-chercheurs est criant. Selon le Syndicat national de l’enseignement supérieur, les 150 000 vacataires recensés assurent, au moins, l’équivalent des heures d’enseignement de plus de 15 000 titulaires.

    A 34 ans, Maxime (1), docteur en sciences politiques, vit tantôt chez sa mère, tantôt chez sa compagne. Il a réalisé sa thèse « grâce à deux postes d’attaché temporaire d’enseignement et de recherche, et du chômage ». Depuis cinq ans, il jongle entre RSA et vacations à l’université. En théorie, il ne pourrait pas être employé de manière précaire par l’université sans avoir un travail fixe ailleurs. Alors il s’arrange. « Dans certains cas, un collègue me sert de prête-nom et je travaille au noir. Parfois, je me fais payer en autoentrepreneur. C’est assez dingue comme situation », explique-t-il. L’an dernier, Maxime estime avoir effectué plus de 277 heures d’enseignement, « plus qu’un service d’un titulaire ». Tout ça pour toucher à peine le smic : « Comme on est payé de manière aléatoire, certains mois c’est le RSA qui me permet de vivre. »
    « On m’avait prévenue »

    La situation est claire : les départements dans lesquels il travaille ne tiendraient pas sans des personnes comme lui. Il a bien essayé de quitter le milieu, mais faute de retours positifs, « la routine de l’université a repris le dessus. J’ai été sollicité pour des cours et des articles. Je tente encore, mais je ne sais pas pour combien de temps. J’ai été classé deuxième à un concours de maître de conférences, ça prouve bien que mon dossier n’est pas si nul… »

    Quadragénaire, Tiphaine se retrouve dans la même situation. Si elle a pu trouver un CDD de recherche pour une association nationale, elle a dû prendre une charge d’enseignement pour compléter son CV. Le système est si tendu qu’elle se retrouve à créer « un enseignement annuel de 80 heures » sans savoir où elle sera l’an prochain. « Je suis atterrée par l’ampleur de la précarité et l’exploitation des vacataires. […] On m’avait prévenue. Mais ça n’a pas suffi, car c’est un métier de passion, j’ai voulu aller jusqu’au bout. Maintenant, la désillusion se matérialise. »

    https://www.liberation.fr/france/2020/12/09/en-france-un-systeme-qui-fait-perdre-l-envie-de-recherche_1808191
    #ESR #recherche #France #précarité #université #titularisation #carrière_universitaire #travail #conditions_de_travail #mobilité #publish_or_perish #désillusion #indemnités_chômage #burn-out #contrats_précaires #gâchis #dévalorisation #LPPR #LPR #éthique #post-doc

  • Crise au ministère de la Recherche : « Cette #démission a été pour moi une décision douloureuse »

    Le directeur général de la recherche et de l’innovation balance sec contre la ministre, #Frédérique_Vidal, dans sa lettre de départ que « Libé » s’est procurée.
    La ministre de l’Enseignement supérieur, Frédérique #Vidal, semble avoir réussi à se mettre un sacré paquet de personnes à dos. Certes, elle est parvenue à faire voter sa #loi_de_programmation_de_la_recherche (#LPR), mais pour le reste… les #critiques fusent de partout : des flopées d’universitaires et de chercheurs sont en #colère. Et désormais, ça tangue aussi à l’intérieur de son ministère, au sein même de son administration.

    #Bernard_Larrouturou, à la tête de la #Direction_générale_de_la_recherche_et_de_l’innovation (#DGRI) que l’on savait sur le départ, a décidé de quitter ses fonctions ce mardi. La décision a été confirmée en Conseil des ministres ce mercredi. Dans une #lettre adressée à son équipe, que Libération s’est procurée, il balance sec sur la ministre, et son cabinet, pour expliquer sa #démission. « Je ne m’y suis résolu que parce que l’#isolement – entretenu par la direction du cabinet – de la ministre, avec laquelle les directeurs généraux n’ont eu aucun échange depuis plus de six mois, et les difficultés aiguës qui persistent depuis un an et demi en matière de relations de travail entre le cabinet et les services ont installé un véritable #empêchement – voire une #impossibilité – pour la conduite d’une partie des actions que la DGRI doit porter. »

    « Avec mépris »

    Il assure avoir demandé « de façon répétée » ces derniers mois que « les services cessent d’être tenus à l’écart de certaines réflexions clés ou de la préparation de certains arbitrages majeurs, et qu’à tout le moins ils aient les informations minimales leur permettant de ne pas être en porte-à-faux vis-à-vis des interlocuteurs externes ». Bonne ambiance.

    Bernard Larrouturou brosse le portrait d’une ministre autoritaire, qui « a traité avec #mépris et humilié des personnes de la DGRI », ou « exigé arbitrairement la mise à pied de tel cadre de nos équipes ». Il avait été nommé à ce poste par Frédérique Vidal en août 2018.

    « De grands #regrets »

    Dans sa lettre, le directeur général de la recherche reconnaît aussi ne pas avoir suffisamment travaillé certains sujets. « J’ai eu de grands regrets depuis l’été 2019 du fait que, n’ayant pas vu d’autre voie pour mener le chantier d’élaboration de la LPR qu’en m’impliquant très fortement, j’ai manqué de disponibilité pour beaucoup d’autres tâches importantes. » Il cite « le #management_interne », « les #conditions_de_travail », le lien avec les rectorats et « plusieurs autres registres de notre action qui ont souffert de mon implication insuffisante ». Est-ce là une façon de souligner, sans le dire, le manque d’anticipation et d’accompagnement des équipes dans la gestion de la crise sanitaire ? En juin, un rapport sénatorial pointait « le manque de stratégie nationale de recherche sur la Covid-19 et l’absence de structure de pilotage unique ».

    https://www.liberation.fr/france/2020/11/25/crise-au-ministere-de-la-recherche-cette-demission-a-ete-pour-moi-une-dec
    #humiliation #MESRI #France #université #facs #recherche #Larrouturou

  • #En_découdre - paroles ouvrières en roannais

    Après la deuxième guerre mondiale, l’industrie textile emploie des milliers d’ouvrières sur le territoire Roannais. Elles produisent des vêtements de luxe dont la qualité est reconnue dans la France entière. A travers une série d’entretiens, ce film retrace l’histoire de ces femmes rentrant souvent jeunes à l’usine. Elles y découvrent des conditions de travail difficiles, le paternalisme patronal, mais également la solidarité ouvrière. Relatant les inégalités qui se jouent entre ouvriers et ouvrières, elles décrivent surtout la rencontre avec la culture syndicale et leur volonté d’en découdre avec l’exploitation. Des promesses d’émancipation de « mai 1968 » jusqu’aux combats contre la fermeture des usines et les destructions de leurs emplois à partir des années 1980, ces paroles ouvrières livrent une mémoire à la fois personnelle et politique des grandes mutations du monde contemporain.

    https://vimeo.com/330751537


    #ouvrières #femmes #industrie #femmes_ouvrières #France #industrie #histoire #industrie_textile #textile #témoignages #histoire_ouvrière #CGT #syndicat #syndicalisme #usines #bruit #paternalisme
    #film #film_documentaire #salaires #sainte_Catherine #cadeaux #droit_de_cuissage #inégalités_salariales #émancipation #premier_salaire #désindustrialisation #métallurgie #conditions_de_travail #horaire #horaire_libre #grève #occupation #Rhônes-Alpes #délocalisation #toilettes #incendies #chantage #treizième_salaire #plans_sociaux #outils_de_travail #Comité_national_de_la_Résistance (#CNR) #chronométrage #maladie_du_travail #prêt-à-porter #minutage #primes #prime_au_rendement #solidarité #compétition #rendement_personnel #esprit_de_camaraderie #luttes #mai_68 #1968 #licenciement #ARCT #financiarisation #industrie_textile

  • Les grévistes de l’IBIS Batignolles lancent leur clip musical ! (par mel)

    https://www.youtube.com/watch?v=okqQnJvTbgE&feature=youtu.be

    Les femmes de chambre de l’IBIS Batignolles sont en lutte depuis plus de 15 mois pour exiger l’embauche directe par l’établissement où elles travaillent, la baisse de leurs cadences et l’augmentation de leurs salaires. Leur lutte est devenue en quelques mois, un symbole de résistance pour des milliers de femmes et d’hommes qui font le ménage en France. 19 femmes de chambres et un équipier font face au géant hôtelier, le multimilliardaire groupe #ACCOR.

    Dans le secteur du nettoyage, les salarié-e-s sont soumis à des conditions de travail extrêmement difficiles, des harcèlements, voire même des agressions par les directions voyous des entreprises de « la propreté ». Des dizaines de milliers de travailleurs et travailleuses souvent étrangers sont réduits au silence. Cette chanson ce veut être un hymne pour celles et ceux qui choisissent de résister, elle reprend le principal slogan de manifestation du personnel de nettoyage dans l’hôtellerie depuis des années : « Frotter, frotter, il faut payer » .

    La chanson et le clip sont interprétés par Bobbyodet, le mari d’une des leadeuses (Rachel Keke) des femmes de chambre de l’hôtel #IBIS Batignolles. Chanteur, chorégraphe, compositeur, Bobbyodet a mis ses talents à contribution pour soutenir sa femme et ses collègues de travail, pour parler de leur quotidien et des difficultés qu’elles traversent. Le clip a été réalisé grâce à un financement collaboratif sur la plateforme Kickstarter et réalisé par « Sébastien » un syndicaliste de la CGT HPE.

    CAISSE DE SOUTIEN À LA LUTTE IBIS BATIGNOLLES
    https://www.papayoux-solidarite.com/fr/collecte/caisse-de-soutien-a-la-lutte-ibis-batignolles

    #femmes_de_chambre #nettoyage #grève #salaire #conditions_de_travail #travailleurs_étrangers #travailleuses_étrangères #caisse_de_grève

  • ’We pick your food’ : migrant workers speak out from Spain’s ’Plastic Sea’

    In #Almería’s vast farms, migrants pick food destined for UK supermarkets. But these ‘essential workers’ live in shantytowns and lack PPE as Covid cases soar.

    It is the end of another day for Hassan, a migrant worker from Morocco who has spent the past 12 hours under a sweltering late summer sun harvesting vegetables in one of the vast greenhouses of Almería, southern Spain.

    The vegetables he has dug from the red dirt are destined for dinner plates all over Europe. UK supermarkets including Tesco, Sainsbury’s, Asda, Lidl and Aldi all source fruit and vegetables from Almería. The tens of thousands of migrant workers working in the province are vital to the Spanish economy and pan-European food supply chains. Throughout the pandemic, they have held essential worker status, labouring in the fields while millions across the world sheltered inside.

    Yet tonight, Hassan will return to the squalor and rubbish piles of El Barranquete, one of the poorest of 92 informal worker slums that have sprung up around the vast farms of Almería and which are now home to an estimated 7,000-10,000 people.

    Here, in the middle of Spain’s Mar del Plastico (Plastic Sea), the 31,000 hectares (76,600 acres) of farms and greenhouses in the region of Andalucía known as “Europe’s garden”, many of El Barranquete’s inhabitants don’t have electricity, running water or sanitation.

    Hassan’s house, like all the others in El Barranquete, is constructed from whatever he could find on rubbish dumps or the side of the road; pieces of plastic foraged from the greenhouses, flaps of cardboard and old hosing tied around lumps of wood. Under Spain’s blazing sun, the temperature can reach 50C – at night the plastic sheeting releases toxic carcinogenic fumes while he sleeps.

    When he first arrived in Spain, Hassan was stunned by how the workers were treated on the farms. Like other workers in El Barranquete, Hassan says he earns only about €5 (£4.50) an hour, well under the legal minimum wage. “The working conditions are terrible,” he says. “Sometimes we work from sunup to sundown in extreme heat, with only a 30-minute break in the whole day.”

    Now, as Almería faces a wave of Covid-19 infections, workers say they have been left completely unprotected. “We pick your food,” says Hassan. “But our health doesn’t matter to anyone.”

    In August, the Observer interviewed more than 45 migrants employed as farm workers in Almería. A joint supply chain investigation by Ethical Consumer magazine has linked many of these workers to the supply chains of UK supermarkets including Tesco, Sainsbury’s, Asda, Lidl and Aldi.

    All claimed to be facing systemic labour exploitation before and throughout the pandemic such as non-payment of wages and being kept on illegal temporary contracts. Many described being forced to work in a culture of fear and intimidation. Some of those who complained about conditions said they had been sacked or blacklisted.

    Workers employed by Spanish food companies linked to UK supermarkets also claimed that throughout the pandemic they have been denied access to adequate personal protective equipment (PPE) that under Spanish law they are entitled to as essential workers. Many said they were not given enough face masks, gloves or hand sanitiser and have been unable to socially distance at work.

    One man employed at a big food company supplying the UK says that he has only been given two face masks in six months.

    In response to the investigation, the British Retail Consortium – members of which include Sainsbury’s, Asda, Lidl and Aldi – released a statement calling on the Spanish government to launch an inquiry.

    Commenting on the Observer’s findings, Olivier De Schutter, the United Nations special rapporteur on extreme poverty, says the situation facing migrant workers in southern Spain is a human tragedy.

    “The pandemic has exacerbated the unacceptable conditions facing migrant workers and the Spanish government must urgently act. But two-thirds of all fruit and vegetables consumed across Europe and the UK come from these greenhouses and all the companies and retailers up these supply chains have a responsibility to these workers as well,” he says.

    Spain is experiencing the highest numbers of new Covid-19 infections in Europe, with the province of Almería recording more than 100 new cases a day.

    Despite the local government in Almería claiming that the virus has not reached the plastic settlements, there have been multiple outbreaks on farms across the province and in the cortijos, the dilapidated housing blocks near the farms in which workers live.

    As Covid-19 infections rise, medical charities such as as Médicos del Mundo are supplying masks, gloves and temperature checks in the settlements in scenes more reminiscent of a disaster zone than one of the richest countries in the world.

    “People want to protect themselves, but they cannot”, says Almudena Puertas from the NGO Cáritas. “They are here because there is work and we need them.”

    In the past month, the local government in Andalucía has allocated €1.1m to create better health and safety conditions, but critics say they have yet to see any significant improvements.

    “I do not understand why these people are not being rehoused in better accommodation. Do we have to wait for them to get Covid instead of looking for a much more dignified place, with adequate hygienic conditions?” says, Diego Crespo, a Forward Andalucía party MP.

    Hassan knows that his work and living conditions make him vulnerable to becoming infected with Covid-19. When asked whether he is supplied with PPE at work, Hassan laughs. “Gloves and face masks in the greenhouse? Temperature checks?” he says. “They don’t give you anything.”

    Like many of the people living in the settlements, he say he is more scared of not being able to work than they of becoming ill. If he can’t send money home, his children don’t eat.

    One groups of workers say that they lost their jobs after testing positive for Covid-19 and quarantining at home. Muhammad, a farm worker from Morocco, said that when he and others had recovered and returned to work, some of them were told there was no work for them.

    “When I contracted Covid-19, I’d already spent two years working for this company without papers and two years on a temporary contract, but when I came back they said there is nothing for me here,” he says. He says he and the other workers who did not get their jobs back also did not receive the sick pay they were entitled to as essential workers.

    The Soc-Sat union, which represents agricultural workers across Almería, says the failure to provide farm workers with basic PPE speaks to the culture of impunity that surrounds the mistreatment of Spain’s migrant workforce.

    “Around 80% of fruit companies in Almería are breaking the law,” says José García Cuevas, a Soc-Sat union leader. The union says that across the region, widespread fraud is being perpetrated on the farm workers. “People will work 25 days but their employers will only count 10,” he says. “Or when you look at the payslips, it says €58 a day, which is minimum wage but that’s not what the worker is receiving.” He says that according to figures from the General Union of Workers, workers lose out on up to €50m of wages every year.

    For decades, the exploitation and abuse of migrant workers in Spain has been widely condemned by UN officials and human rights campaigners, but to little effect.

    Soc-Sat says that in 2019 it dealt with more than 1,000 complaints from migrant workers about exploitation and working conditions. This year it also says it has helped workers file legal complaints against food companies in Almería for breaching labour laws and not providing adequate PPE.

    “If, under normal conditions, health and safety regulations are not followed, you can imagine what’s happening in the current situation with a pandemic,” says García Cuevas.

    In its statement, the British Retail Consortium (BRC) says its members have zero tolerance for labour exploitation: “Many grocery members have funded and supported the Spain Ethical Trade Supplier Forums ... We call on the Spanish government to launch an investigation into labour conditions in the Almería region to help our members stamp out any exploitative practices.”

    In a separate statement, Tesco says it was aware of the issues surrounding migrant workers in Southern Spain and that the company worked closely with growers, suppliers and Spanish ethical trade forums to ensure good standards.

    The Andalucían Ministry for Labour, Training and Self-Employment in Andalucía said that it had delivered training for businesses on how to protect workers against Covid-19. In a statement it says, “You cannot criminalise an entire sector that is subject to all kinds of controls by the labour, health and other authorities and that must also abide by strict regulations regarding the protection of workers’ rights and prevention and occupational health.”

    In two weeks, the greenhouses of Almería will be at their busiest as the high season for tomatoes, peppers and salad begins. Ali, a farm worker who has been in Spain for more than 15 years, doesn’t expect his situation to improve.

    “If you complain, they will say: ‘If you don’t want to work here then go home,’” he says. “Every worker here has a family, a wife and children, but the only thing that matters is that we work to get the vegetables to Germany or the UK. It’s like they have forgotten we are also human beings.”

    https://www.theguardian.com/global-development/2020/sep/20/we-pick-your-food-migrant-workers-speak-out-from-spains-plastic-sea
    #Espagne #agriculture #exploitation #asile #migrations #travail #alimentation #plastique #supermarchés #grande_distribution #migrants_marocains #serres #légumes #Tesco #Sainsbury’s #Asda #Lidl #Aldi #El_Barranquete #Mar_del_Plastico #Andalucía #Andalucia #travail #conditions_de_travail #esclavage_moderne #covid-19 #coronavirus #logement #hébergement #Soc-Sat #British_Retail_Consortium (#BRC) #Spain_Ethical_Trade_Supplier_Forums

    ping @isskein @karine4 @thomas_lacroix

  • Recherche : la majorité adopte une loi rejetée par le monde universitaire

    Les députés ont adopté jeudi la loi de programmation de la recherche voulue par le gouvernement. Le monde universitaire, qui doit organiser une rentrée en pleine pandémie, est très hostile à un projet qui ne répond en rien aux besoins pressants.

    « Scandaleux, difficile, déprimant. » Voilà comment Marie Sonnette, sociologue à l’université d’Angers et membre active du collectif « Facs et labos en lutte », a vécu le vote par les députés de la loi de programmation pluriannuelle de la recherche, dite LPPR.

    Présenté en juillet devant le conseil des ministres après plusieurs reports, le texte a en effet été adopté jeudi à l’Assemblée nationale en première lecture. Depuis son annonce jusqu’au début de l’actuelle navette parlementaire, il a suscité de vives oppositions, dont l’expression a notamment été favorisée par la mobilisation plus vaste contre la réforme des retraites.

    Cette dernière semaine, un avis quasi unanime et « au vitriol » du Conseil économique, social et environnemental (Cese) a conforté l’hostilité au texte d’une large majorité de l’enseignement supérieur et de la recherche, dont avaient déjà témoigné les prises de position de centaines de directeurs de laboratoires, ou les grèves ayant affecté des dizaines d’universités ainsi que de nombreuses revues académiques. Par contraste, il ne s’est récemment trouvé que cinq professeurs au Collège de France – une des institutions les plus privilégiées – pour défendre explicitement la loi dans une tribune au Monde.

    Pour la maîtresse de conférences contactée par Mediapart, le spectacle est logiquement pénible de voir le même projet adopté « par 68 personnes dans une salle [les députés qui siégeaient – ndlr], en prétendant que la recherche sera géniale sur les dix prochaines années, alors qu’on sait que les financements restent sous-dimensionnés et la précarité toujours aussi massive. Ce dont on a besoin, on le crie depuis longtemps et rien dans la loi n’apporte de réponse. »

    Du côté de la majorité, on reconnaît d’ailleurs la portée limitée du texte. « On ne va pas faire la révolution, mais nous allons quand même lever des blocages », concédait Danièle Hérin, députée LREM et rapporteuse générale du texte cette semaine à l’Assemblée. Une posture sobre en comparaison de l’emphase de Frédérique Vidal, ministre de l’enseignement supérieur et de la recherche, qui a évoqué dans l’hémicycle des « moyens massifs », censés rattraper une « décennie perdue ».

    À première vue, les chiffres peuvent effectivement impressionner. Il s’agit d’engager 25 milliards d’euros de crédits supplémentaires au cours des dix prochaines années. Une perspective cependant très incertaine, ce que n’a pas manqué de relever le Conseil d’État dans son examen préalable. « Avec un tel horizon, la portée de la programmation des crédits budgétaires ne peut être que limitée, spécialement en fin de période », écrit le Conseil, avant de souligner le risque d’insincérité d’un tel engagement.

    « Pourquoi 10 ans ?, renchérit la députée communiste Elsa Faucillon. On ne voit pas la couleur de l’investissement à court terme. Les députés de la majorité entretiennent ce leurre entre engagements pérennes et engagements lointains. » Car pour 2021, seuls 400 millions d’euros supplémentaires sont prévus, et 800 millions en 2022, soit 5 % de l’enveloppe globale.

    « J’étais favorable à mettre davantage d’argent dès la première année, répond Danièle Hérin, mais comme le plan de relance va permettre d’investir 2 milliards par an supplémentaires, et que des sources de financement régionales et européennes vont arriver, je pense que cela reste raisonnable. » Mais là encore, l’addition est brouillonne puisque les six milliards sur trois ans du plan de relance ne sont pas uniquement dédiés à la recherche mais aussi à l’innovation, en sachant qu’au sein même de la recherche, le privé est concerné autant que le public.

    « On pilote à vue », s’inquiètent également les parlementaires socialistes, qui regrettent l’absence de « trajectoire budgétaire » dans celui adopté jeudi. L’objectif officiel d’investir 1 % du PIB dans la recherche publique ne serait selon eux pas tenu, en raison de simulations budgétaires trop faibles et calculés hors inflation. « On veut construire une belle maison, mais on prend le risque de se retrouver avec un appartement un peu minable à la fin », résume la présidente du groupe des députés PS, Valérie Rabault.

    La majorité n’en démord pas et vante les augmentations salariales concrètes à venir, pour des professions notoirement sous-payées au regard de leur niveau de diplôme. « Plus aucun chercheur ne pourra démarrer sa carrière à moins de deux fois le Smic, contre 1,4 fois le Smic aujourd’hui, soutient la députée LREM Valérie Gomez-Bassac, également rapporteuse du texte. Nous allons aussi verser des primes, entre 1000 et 1300 euros par an pour les titulaires en poste. Les doctorants verront leur allocation de recherche augmenter de 30 % d’ici 2023. Et nous financerons 20 % de thèses en plus. »

    Des salaires légèrement améliorés, par la voie de primes majoritairement, contre un statut encore un peu plus détricoté ? La méthode n’est pas nouvelle, elle guide la transformation de la fonction publique depuis plusieurs décennies, créant des formes nouvelles d’emploi public à tour de bras. « Ces dispositifs sont facultatifs, précise Danièle Hérin. Chacun des établissements sera libre de choisir les outils qui lui conviennent pour remplir ses objectifs. » Libre, mais dans un cadre budgétaire qui restera contraint...

    De nouvelles voies sont donc au programme pour retenir les talents en France, selon le gouvernement. D’une part les « chaires juniors », sur lesquelles pourront postuler les jeunes chercheurs, sur le modèle des « tenure track » du système anglo-américain. Soit un contrat de six ans maximum, parallèle au processus d’intégration comme maître de conférences, et qui pourra, sans obligation, déboucher sur une titularisation comme professeur d’université. « Une procédure de titularisation dérogatoire au droit de la fonction publique », a estimé le CESE, qui risque de mettre encore plus les chercheurs en concurrence.

    D’autre part, les CDI de mission, qui permettront de recruter un chercheur sur la durée d’un projet de recherche. L’exemple souvent brandi par la majorité est celui des études spatiales, où une équipe pourrait recruter quelqu’un sur les vingt années que pourrait durer la mission… si celle-ci est bien financée. Joli tour de passe-passe rhétorique, ce CDI pouvant s’arrêter à tout moment, a glosé l’opposition. « Vous pouvez continuer à nous expliquer qu’il est sécurisant et qu’il n’est pas précaire, a remarqué la députée France insoumise Muriel Ressiguier lors de l’examen de ce point en commission. Ça ne change pas le sens de ce qu’il est réellement : un contrat précaire dont personne ne veut. »

    Sans bouleverser totalement les équilibres, la loi entérine surtout le principe d’une recherche « par projet », où il faut constamment se saisir de son bâton de pèlerin afin de trouver des ressources financières, auprès de l’Agence nationale de la recherche (ANR), de l’Europe, des régions, ou des contributeurs privés. « Nous augmentons aussi la part du soutien de base aux structures de 10 % », plaident les défenseurs du texte au Parlement, sans démentir le fait que l’ANR ne devienne le principal opérateur de financement de la recherche.
    La difficile résistance au rouleau compresseur managérial

    Cette « logique de mise en concurrence des formations et des chercheurs », explique à Mediapart la sociologue Séverine Chauvel, s’inscrit dans « la grande course aux classements » internationaux qui sert de guide à la politique de recherche française. « Il y a de l’argent annoncé dans le LPPR mais on ne souhaite pas qu’il soit injecté de cette façon, et en négligeant autant la question d’enseignement. Le vrai problème, poursuit la maîtresse de conférences à l’Université Paris-Est-Créteil, c’est que nous sommes déjà sous-dotés alors qu’on anticipe une ascension démographique des étudiants. Ce qui manque, ce sont des postes et des financements pérennes. »

    Or, ces dernières années, les crédits pérennes sont déjà passés de 65 à 61 % des sommes totales allouées. « Dans ce texte, on peut tout à faire imaginer que ce ratio s’inverse, prévient la socialiste Valérie Rabault. C’est très grave quand on veut faire de la recherche de long terme. » À cet égard, le PS a d’ailleurs beaucoup à se faire pardonner.

    Pendant sa campagne présidentielle de 2012, François Hollande avait en effet relayé les nombreuses critiques contre une gestion managériale de la recherche, débouchant sur une mise en concurrence généralisée au détriment de la stabilité et des libertés académiques. Loin de contrecarrer la tendance, son quinquennat a pourtant été marqué par une forte continuité avec les années Sarkozy déjà mal vécues par les enseignants-chercheurs.

    Physicien et professeur à l’université Paris-Diderot, Bruno Andreotti confirme que le PS a accumulé un « passif énorme » avec ce mandat présidentiel. Dans les années précédentes, rappelle-t-il, la recherche par projets avait pu paraître séduisante à certains proches du milieu socialiste, et être légitimée dans le contexte d’une réaction contre le mandarinat universitaire, cherchant à émanciper les jeunes chercheurs de titulaires au pouvoir excessif. Depuis, la logique managériale (et la précarisation l’accompagnant) s’est étendue à l’ensemble de l’enseignement supérieur et de la recherche.

    À l’occasion du vote de la loi LPPR, le groupe socialiste animé par Valérie Rabault s’est donc efforcé d’accomplir un travail de fond, consistant non seulement à porter la critique contre la LPPR mais aussi à formuler « 25 propositions pour la recherche, les chercheurs et les universités », dessinant un contre-projet de loi alternatif à celui de la Macronie. Une démarche facilitée par la présence d’Isabelle This Saint-Jean au secrétariat national des études du PS : elle-même universitaire, elle est une ancienne présidente du collectif « Sauvons la recherche » et fut très mobilisée en 2009 contre la politique de la droite en la matière.

    Les collectifs en lutte contre la LPPR ont par ailleurs vu leurs combats relayés par les députés de la France insoumise et du parti communiste, dénonciateurs d’une loi « mortifère ». La discussion du texte a aussi été l’occasion pour eux de formuler des contre-propositions, Muriel Ressiguier ayant par exemple déposé des amendements en faveur d’« un plan d’investissement dans l’enseignement supérieur », du « recrutement de nouveaux enseignants-chercheurs » et d’« une politique de reconnaissance renforcée du doctorat ».

    Les équilibres à l’Assemblée ne laissaient cependant aucun doute sur l’issue du vote et les marges de négociation du texte. « Il n’y avait aucun moyen de passer quoi que ce soit et on le savait, d’où le faible travail de lobbying des universitaires », constate Bruno Andreotti, qui souligne la différence avec les années Hollande, lorsque les élus écologistes, notamment Isabelle Attard, constituaient des relais possible pour corriger la politique socialiste.

    De façon plus générale, souligne-t-il à Mediapart, les parlementaires ayant une véritable connaissance technique du système et du dossier se compteraient sur les doigts d’une seule main. « Le spectacle de la discussion à l’Assemblée était en dessous de tout, notamment lorsque des rapporteurs lisent des notes préparées par le cabinet de la ministre, dont on s’aperçoit qu’ils ne comprennent rien. »

    La critique d’une ignorance de leur métier revient d’ailleurs souvent dans la bouche des universitaires interrogés par Mediapart. Séverine Chauvel estime ainsi que la LPPR a été l’occasion, de la part de la majorité au pouvoir, de « mensonges » mais aussi de « propos attestant une méconnaissance totale de l’enseignement supérieur ». La pilule passe d’autant plus mal dans le contexte chaotique à l’université, en pleine rentrée marquée par la pandémie (lire notre article sur « la grande débrouille »).

    « On bosse comme des fous pour faire fonctionner nos universités dans des conditions catastrophiques, confirme Marie Sonnette. Et dans cette rentrée que nous avons l’impression de vivre un peu comme sur le Titanic, tout continue comme si de rien n’était, sans consultation des enseignants-chercheurs, hormis des responsables d’instance. » Concentrée sur la recherche plutôt que sur les conditions de travail et d’apprentissage des étudiants, la LPPR apparaît ainsi en décalage profond avec le vécu des premiers concernés, sans dessiner le moins du monde un horizon qui les rassure.

    Outre le découragement de celles et ceux qui auraient pu envisager une carrière dans le milieu (lire ce témoignage), les titulaires en viennent à parler entre eux de « démission », chose impensable il y a quelques années à peine, tant les postes d’enseignement et de recherche sont convoités et exigent de sacrifices avant d’être obtenus. Avant qu’une éventuelle vague d’« exit » se matérialise, les mobilisations devraient se poursuivre, en particulier si un répit s’annonce après les errements de la rentrée. Les réflexions sur les modalités d’action se poursuivent et des résistances sont à attendre, veut croire Séverine Chauvel. En dépit des échecs essuyés, Marie Sonnette relève que sans mobilisation, la LPPR aurait été « encore plus violente » et la réforme des retraites serait déjà passée.

    Il reste que l’enseignement supérieur et la recherche sont des secteurs tellement fragmentés et divisés par ses multiples tutelles et formes de contrats, que le rouleau compresseur managérial peut y faire son œuvre avec d’autant plus de facilité.

    « La mobilisation de 2009 avait été la plus importante depuis Mai-68, et elle n’a débouché sur rien, cela a laissé des traces », ajoute Bruno Andreotti, qui estime par ailleurs qu’« on ne se défend ni plus, ni mieux, ni moins mal que les réseaux ferrés, les journalistes du service public, les hôpitaux, qui se font démolir leurs métiers comme nous. Sans innovation politique, il ne peut pas se passer grand-chose. »

    En attendant les futures échéances politiques nationales, la loi de programmation de la recherche doit être discutée à la fin du mois prochain au Sénat.

    https://www.mediapart.fr/journal/france/260920/recherche-la-majorite-adopte-une-loi-rejetee-par-le-monde-universitaire?on

    #LPPR #recherche #France #université #facs #assemblée_nationale #première_lecture #vote #loi_de_programmation_pluriannuelle_de_la_recherche #adoption #hostilité #financement #budget #salaire #primes #fonction_publique #ESR #enseignement_supérieur #chaires_juniors #tenure_track #titularisation_dérogatoire ##titularisation #concurrence #CDI_de_mission #contrat_précaire #précarisation #recherche_par_projet #ANR #résistance #classements #classements_internationaux #postes #financements_pérennes #libertés_académiques #liberté_académique #logique_managériale #ignorance #mensonges #méconnaissance #conditions_de_travail #découragement #démission

    Ajouté à la métaliste :
    https://seenthis.net/messages/820330

    • L’Assemblée en marche derrière Vidal : préparons la riposte !

      Aujourd’hui 24 septembre 2020, 48 député·es ont voté en faveur de la « loi de programmation de la recherche pour les années 2021 à 2030 » (LPPR) après trois séances mêlant l’incompétence, le cynisme et la suffisance. Cette loi, dont l’examen se fait en procédure accélérée conformément au souhait du gouvernement, a donc été adoptée en première lecture par l’Assemblée nationale. Prochaine étape : le Sénat vers la mi-octobre.

      Au fil des prises de parole et des amendements, adoptés ou rejetés par des député·es LREM réduit·es au rôle de pousse-bouton, nous avons vu se clarifier encore l’objectif de destruction de l’université et de la recherche publiques, de casse de notre service public.

      Pour connaître le détail de ces « discussions », vous pouvez notamment vous replonger dans les fils Twitter du Groupe Jean-Pierre Vernant – le 1er jour, le 2ème jour et le 3ème jour – ou lire les publications d’Academia à ce sujet.

      Dans l’ensemble, le texte a peu changé lors de l’examen et les rares modifications ont été pour le pire. Ainsi, un amendement adopté facilite la marchandisation du titre de docteur, au détriment des chercheur·ses qui conduisent réellement des recherches doctorales – il a finalement été neutralisé in extremis. Dans le même temps a été rejeté un amendement qui visait à graver dans le marbre les libertés académiques, afin d’offrir des garanties minimales pour la liberté de recherche des chercheur·ses précaires.
      L’article 13, intégré à la section IV intitulée « renforcer les interactions de la recherche avec l’économie et de la société », permet non seulement de privatiser les fruits de la recherche publique, mais il autorise même les chercheur·ses et enseignant·es-chercheur·ses à devenir associé·es ou dirigeant·es d’une société valorisant les travaux… d’un·e collègue.
      Bref : c’est bien un projet de loi de précarisation et de privatisation de la recherche.

      Ce projet de LPPR (nous ne voyons aucune raison de changer la dénomination de ce projet de loi dont le contenu ne fait qu’empirer) s’inscrit également dans la lignée xénophobe de « Bienvenue en France ». L’article 7 met ainsi en place des dérogations au droit du travail pour les chercheur·ses étrangèr·es accueilli·es dans le cadre d’un séjour de recherche, que les universités peuvent désormais faire travailler sans leur fournir de contrat de travail, ni payer leurs cotisations sociales. Le projet de loi en fait donc officiellement des travailleur·ses de seconde classe. Dans le même esprit l’amendement 609, adopté, prévoit que des « formules de financement à la carte, telles que des coupons, pourront être définies pour soutenir le développement des missions d’expertise de doctorants auprès de petites et moyennes entreprise ». Par chance, c’est un amendement au rapport annexé, sans grande valeur légale, mais son adoption, conformément aux désirs de la Ministre, est éloquente.

      Pour en savoir plus sur les amendements adoptés, voici une très bonne analyse d’Academia.

      En ce jeudi 24 septembre, nous avons donc des raisons d’être inquièt·es et en colère. Le cœur de ce projet demeure extrêmement dangereux : il promet d’accroître les inégalités dans l’enseignement supérieur, d’aggraver la précarité, de renforcer les inégalités de genre et les autres dominations structurelles, de mettre l’existence même de notre service public en péril et de détruire les conditions dont nous avons besoin pour produire de la science. Tous ces éléments sont notamment documentés dans cette note des économistes atterré·es.

      Toutefois, il nous faut être lucides. Nos combats ont déjà porté des fruits : la LPPR n’est pas aujourd’hui ce qu’elle aurait été sans notre mobilisation. Bien des éléments que nous dénoncions (comme les modulations de service pour les enseignant·es-chercheur·ses) ont été sortis du projet de loi. Les mobilisations des précaires ont imposé l’inscription de la mensualisation des vacataires dans la loi. Certes, ce n’est pas assez : nous voulons la fin des vacations, des créations massives de postes et des moyens pérennes.
      Retenons tout de même cet enseignement : l’organisation collective et la lutte paient !

      Or, les collectifs se reforment partout et les avis très défavorables à la LPPR arrivent de toutes parts. Mardi 22 septembre, le Conseil économique social et environnemental (CESE) a adopté à l’unanimité (de la CGT au Medef !) un avis très défavorable au projet de loi, dont les préconisations principales se rapprochent des nôtres : des postes et des financements pérennes. Le même jour, plus de 800 directions de laboratoires, réunies au sein de l’Assemblée des directions de laboratoires, publiaient une tribune dans Le Monde, défendant un « l’ouverture de postes permanents et une meilleure dotation des laboratoires en moyens stables ».

      Où que nous soyons, quel que soit notre statut ou notre fonction : nous ne sommes pas seul·es !

      Cette rentrée 2020 se déroule dans des conditions catastrophiques, mettant cruellement en lumière la précarité et la pauvreté des étudiant·es, mais aussi le manque de moyens et de titulaires – enseignant·es-chercheur·ses comme BIATSS – dans les universités. Nos collègues, camarades et ami·es sont de plus en plus nombreux·ses à n’en plus pouvoir, à être submergé·es par l’écœurement, à quitter l’ESR.

      Mais lundi 21, malgré ce contexte, nous étions plusieurs centaines devant l’Assemblée !

      Ce vote de l’Assemblée est pour nous tou·tes le signal de la remobilisation. Dans les facs et les labos, des réunions et des assemblées générales s’organisent. Pour les nourrir, vous pouvez retrouver ici une sélection d’informations, d’analyses et d’outils militants autour de la LPPR et des autres attaques que subissent l’université et la recherche.

      Nous allons continuer d’interpeler les parlementaires, de dénoncer les conditions indécentes dans lesquelles nous devons accueillir les étudiant·es, de refuser la généralisation de la compétition de tou·tes contre tou·tes et la précarisation de la majorité au profit de quelques privilégié·es tou·tes puissant·es. Nous nous le devons à nous-mêmes, nous le devons à nos collègues et camarades les plus précaires. Nous le devons à l’ensemble de la société.

      Nous nous organisons, nous renforçons nos liens, nos solidarités. Nous construisons patiemment, minutieusement, le rapport de force qui, seul, pour sauver notre service public.

      Pour organiser la suite de la mobilisation, une rencontre nationale dématérialisée pour l’université et la recherche publiques aura lieu le 1er octobre 2020, de 18h à 20h, ici sur Discord. Ouverte à tou·tes, elle nous permettra de construire la prochaine grande mobilisation, au moment du passage de la loi au Sénat (mi-octobre).

      https://universiteouverte.org/2020/09/24/une-bataille-perdue-a-lassemblee-preparons-les-victoires-contre-l

    • LPpR : 48 voix pour, toute la communauté universitaire contre - 23 septembre 2020

      Il aura suffi de deux jours et demi à une poignée de députés pour voter cette loi.
      Que la communauté universitaire rejette en masse (sauf quelques carrièristes), ainsi que le CESE, le HCE, même le CÉ…

      Mais nous les voyons.

      les Valérie Gomez-Bassac, Pierre-Alain Raphan (qui confond doctorant et jeune chercheur), Danièle Hérin (qui ose « Une nouvelle voie de recrutement s’ouvre pour garder et dénicher des talents » les tocards déjà en poste ont apprécié) … qui votent CONTRE un amendement pourtant bien innocent :

      Les libertés académiques sont le gage de l’excellence de la recherche française. La liberté d’expression doit être garantie, en toutes circonstances, au bénéfice des enseignants chercheurs. Rejeté

      Et dès le lendemain, à la surprise générale :

      Thierry Coulhon doit être proposé par le président de la République pour la présidence du Hcéres le 15/10/2020, selon plusieurs sources proches du dossier contactées par @NewsTankHER, le 23/09


      Allégorie d’un poste à moustaches

      Et nous ??

      Pour contrer la LPPR, il faudrait que nous, universitaires, arrêtions d’en jouer le jeu. On ne candidate plus aux AAP délétères, on laisse l’ANR mourir à petit feu, on ne recrute plus de vacataires, on compte toutes nos heures pour faire les 1608 réglementaires et pas une de plus.
      On ne recrute plus de post-docs. On ne se réjouit plus d’avoir des sous pour financer un précaire 6 mois. On ne candidate pas à des financements doctoraux en faisant rentrer à la hache le projet dans une thématique et un vocabulaire start-up nation.
      On arrête de trouver qu’un jeune docteur qui n’a pas fait X années à l’étranger, n’a pas enseigné 432 heures, n’a pas écrit 4 articles dans des revues à comité de lecture, n’est pas compétent pour être MCF.
      Spoiler : on ne le fera jamais. Et cela m’interroge depuis longtemps. Les lois qui détruisent l’université depuis 15 ans, nous avons protesté contre, puis nous les avons sagement mises en œuvre.
      Nous pointons tous nos efforts pour faire tourner la boutique dans des conditions délétères, mais fort peu le fait que nous faisons aussi cela même que nous dénonçons.

      http://www.sauvonsluniversite.fr/spip.php?article8791
      #LPR

    • L’#université_résiliente : lettre ouverte à Frédérique Vidal

      À l’occasion d’une visite de Frédérique Vidal en Alsace, des personnels « résilients » de l’Université de Strasbourg adressent à la ministre une lettre ouverte dans laquelle ils l’alertent sur des conditions de travail déplorables. « La vraie résilience dans nos facultés et laboratoires, c’est le #démerdentiel permanent », écrivent-ils.

      Madame la Ministre,

      Vous visitez ce 1er octobre les universités alsaciennes, sous le signe de la « résilience », la résilience de notre territoire à la crise sanitaire, la capacité de résistance de notre recherche et de notre économie, à travers un appel à projet qui a pour intitulé ce nouveau mot de la lingua néolibérale : « #Résilience ».

      « Résilience, résilience… », le mot est à la mode, dans toutes les bouches, sous toutes les plumes. Un mot magique, suffisamment souple et désémantisé pour laisser entrevoir un espoir de renaissance et masquer toute la souffrance que les choix politiques de votre gouvernement ont provoquée. Un mot à nous endormir debout, seulement destiné à rendre une politique acceptable et un avenir désirable. Mais cet avenir est celui de l’enfer néolibéral, fait de précarité, de concurrence et de souffrance au travail. Madame la ministre, il en va de votre « résilience » comme de votre « excellence » et de vos « gouvernances », dont vos amis et vous-même avez la bouche pleine : un vernis posé par le libéralisme sur la réalité quotidienne que vivent les personnels de l’université et de la recherche.

      Alors, quelques-uns de ces personnels aimeraient vous dire très concrètement, en ce jour de célébration de l’Universelle Résilience dans les salons feutrés du Cardo et du Nouveau Patio, avec quelques invités triés sur le volet, en quoi consiste la résilience ordinaire de milliers d’agents de l’enseignement supérieur et de la recherche.

      La vraie résilience, c’est d’avoir suppléé aux carences de l’État en organisant pendant le confinement des collectes d’argent pour acheter des ordinateurs aux plus démunis et mis en place des livraisons de repas à des étudiants qui mouraient de faim.

      La vraie résilience, c’est d’avoir dû improviser un protocole sanitaire les premiers jours de la rentrée universitaire parce que votre ministère n’a pas été capable de travailler cet été à une circulaire destinée à protéger la santé des personnels et des étudiants.

      La vraie résilience, c’est de devoir désinfecter un bureau ou des tables avec un kleenex parce qu’il n’y a plus de papier.

      La vraie résilience, c’est de se protéger avec des masques achetés sur nos propres deniers et de les offrir à des étudiants qui n’ont pas les moyens de laver l’unique masque tissu qu’ils possèdent.

      La vraie résilience, c’est de refuser de faire cours dans un amphi bondé ou dans une salle sans fenêtre et de partir seul à la recherche d’une solution qui limite la prise de risque pour nous-mêmes et nos étudiants.

      La vraie résilience pour les composantes et laboratoires, c’est de devoir s’équiper en matériel sanitaire sur leurs propres crédits de fonctionnement et devoir s’organiser seuls parce que les services centraux n’ont plus les moyens d’organiser quoi que ce soit et que les budgets sont à sec.

      La vraie résilience dans nos facultés et laboratoires, c’est le démerdentiel permanent.

      La vraie résilience, c’est aussi, pour tous les chercheurs, de trouver la force de chercher encore un peu, après des journées entières consacrées à accomplir des tâches bureaucratiques aliénantes et inutiles ou à répondre à des appels à projets pour avoir des crédits.

      La vraie résilience, c’est d’emmener tous les soirs du travail chez soi, et pour certains d’accepter de travailler 70 ou 80 heures par semaine pour pallier le manque de postes et de personnels, afin que le système ne s’effondre pas totalement.

      La vraie résilience, c’est d’utiliser au quotidien, dans certains laboratoires, des sorbonnes* non conformes et de mettre ainsi en danger la santé et la vie des doctorants et des personnels.

      La vraie résilience, pour les représentants des personnels, c’est de devoir consacrer de plus en plus de temps à accompagner des personnels en souffrance, souvent victimes de pression au travail, de burn out ou de harcèlement, personnels à peine ou mal soutenus par une institution, qui est devenue elle-même une machine à briser les collectifs de travail et à briser des vies professionnelles et personnelles.

      La vraie résilience, pour les milliers de personnels précaires sans lesquels l’université et la recherche ne pourraient pas fonctionner, c’est d’accepter de travailler pour la moitié du salaire qu’ils devraient avoir, dans des conditions déplorables, et de continuer à se battre pour renouveler ou trouver un contrat qui aura les apparences de la décence.

      Face à l’insupportable que vous cautionnez et alimentez, Madame la ministre, les personnels et étudiants des universités auront bientôt complètement oublié ce que veut dire votre mot de « résilience ». Ils n’utilisent déjà plus votre langage et se souviennent de ce que signifie le mot « résistance » et les actions auxquelles ce mot renvoie.

      Madame la ministre, vous avez abandonné l’université. Comme Valérie Pécresse et Geneviève Fioraso avant vous, vous avez trahi l’idée même d’Université. Vous la destinez aux intérêts du privé et avec votre LPR vous nous promettez un enfer de précarité, dont nous ne voulons pas.

      Vous comprendrez qu’en ce jour nous ayons quelque difficulté à vous souhaiter la bienvenue. Nous vous prions néanmoins de bien vouloir accepter nos salutations les plus résilientes.

      Quelques personnels résistants de l’université de Strasbourg

      *Une sorbonne est une enceinte ventilée et enveloppante qui aspire les polluants et les rejette à l’extérieur. Elles équipent principalement les laboratoires de chimie. Un nombre considérable de sorbonnes ne sont pas aux normes dans les universités et les organismes de recherche. Les crédits ne sont pas suffisants pour les remplacer.

      https://blogs.mediapart.fr/pascal-maillard/blog/011020/l-universite-resiliente-lettre-ouverte-frederique-vidal

      #lettre_ouverte

    • LPPr : menaces sur une science indépendante et plurielle

      L’#innovation est « avant tout un mécanisme économique et non scientifique. Comme pour tout investissement, sa raison d’être demeure la #rentabilité et la conquête d’un #marché solvable ». Ces propos, tenus par Henri Guillaume et Emmanuel Macron en 2007 (1), guident de toute évidence l’inquiétant projet de loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR).

      https://www.ldh-france.org/wp-content/uploads/2020/10/HL191-Actualit%C3%A9-5.-LPPR-menaces-sur-une-science-ind%C3%A9pendante-e

    • #Sondage sur le projet de LPR

      La Conférence de présidents de sections et CID du Comité national (CPCN) réunie le 11 septembre 2020 a décidé de sonder la communauté scientifique sur certains éléments jugés centraux contenus dans le projet de loi de programmation de la recherche. Ce projet de loi est en cours d’examen par le Parlement. La CPCN constate qu’en l’état le projet de loi ne répond pas aux attendus qu’elle avait formulés le 17 janvier 2020, attendus qui s’appuyaient sur un diagnostic et des propositions adoptées le 4 juillet 2019 en session extraordinaire par le Comité national. La CPCN s’interroge sur les actions à entreprendre si la loi est adoptée sans tenir compte des attentes de la communauté scientifique. Le questionnaire vise à sonder l’opinion de la communauté. Pour en savoir plus sur la loi, nous avons listé ici un certain nombre de contributions et de points de vue.

      mercredi 16/09/20 - 16:08 - 0 réponses - lancement du sondage
      mercredi 07/10/20 - 23:59 - 10 321 réponses (parmi 31 134 connexions au questionnaire) - clôture du sondage

      D’après le rapport « L’état de l’Emploi scientifique en France », l’effectif total de R&D du secteur des administration était de 177 199 en 2015. On en déduit que près de 17% des collègues a été informé de ce sondage et y a prêté attention (plus de 30 000 connexions). Parmi ceux-ci, plus d’un tiers à rempli le formulaire (plus de 10 000 réponses).
      Répartition par statuts

      Une question concernait le statut des répondants. Le graphique qui suit permet de constater une diversité de situations. Les enseignants-chercheurs et les chercheurs forment l’effectif le plus important sans que ce soit une surprise étant donné que le questionnaire a été rédigé (et donc pensé) par les présidents du Comité national qui sont sur ces statuts. Pour autant les nombres de doctorants, personnels contractuels, IT et BIATTSS ne sont pas négligeables et montrent que l’intérêt pour une loi de programmation est largement diffusé au sein de la communauté

      Répartition par disciplines

      Une des questions du sondage porte sur le champ disciplinaire dans lequel travaille le répondant. Ce champ disciplinaire est mesuré par le numéro de section du Comité national. Les sections numérotées de 1 à 41 couvrent la totalité des disciplines scientifiques. La répartition des réponses est donnée dans le graphique qui suit. L’enseignement à tirer de ce graphique est que la totalité des disciplines a été sondée. Certaines ont des effectifs (EPST+Universités) plus nombreux que d’autres, ce qui explique pour partie les différences dans le nombre de réponses.

      Taux de réponse des chercheurs CNRS

      2 615 réponses sont faites par des chercheurs du CNRS ce qui représente près de 25% de l’effectif total. Ce taux de réponse est variable d’une section à l’autre comme indiqué sur le graphique suivant. Les couleurs correspondent à la répartition des sections par instituts du CNRS. Tous les grands domaines scientifiques ont participé à plus de 15% des effectifs.

      Attentes de programmation

      Les sondés étaient invités à indiquer quatre priorités de financement. Ils ont classé ces quatre priorités en commençant par (1) la plus importante.

      Sans équivoque, les sujets qui ressortent sont le financement de base des laboratoires, l’emploi de titulaires et les rémunérations de tous les personnels. Un autre sujet d’importance concerne le financement de toutes les thèses et l’augmentation de leur nombre.

      Remarque d’importance : alors même que le nombre d’IT et de BIATSS qui ont répondu au sondage est faible au regard de celui des chercheurs et enseignant-chercheurs, la demande d’augmentation de l’emploi IT et BIATSS exprimée par les sondés est à un haut niveau. 6 608 réponses mettent l’augmentation de l’emploi IT et BIATSS parmi les 4 priorités. La communauté est bien consciente que ces emplois ont fortement baissé ces dernières années et que cela pose des problèmes majeurs dans les laboratoires et les universités.

      On remarque par ailleurs un très faible taux de réponse en faveur de primes individualisées.

      ANR

      On constate sur le tableau précédent que l’augmentation du budget de l’ANR n’est pas une priorité forte. Ce résultat se retrouve dans les réponses indiquées sur le graphique qui suit (réponses à la question "L’augmentation envisagée du budget de l’ANR est"). Dans quasiment tous les cas, les répondants complètent leur appréciation sur l’augmentation du budget de l’ANR prévue dans la LPR en insistant sur l’importance de « mettre la priorité sur les financements de base » ou de ne pas opérer cette augmentation « au détriment des soutiens de base des laboratoires ». L’augmentation du budget de l’ANR est majoritairement (52%) jugée être un aspect négatif du projet de loi. Il manque clairement, aux yeux des répondants, une mesure forte en faveur de l’augmentation des crédits de base des laboratoires.

      Nature des emplois

      L’attente en termes de programmation est dans une très large mesure en faveur de l’augmentation d’emplois de titulaires (tableau précédent). Cela se retrouve dans le graphique qui suit (réponses à la question "Dans le projet de loi, la programmation de l’emploi de titulaires est"). 74% des réponses indiquent que la loi ne répond pas aux attentes sur le sujet. 39% des réponses jugent la programmation insatisfaisante et/ou trop incertaine. 35% la jugent très insatisfaisante.

      Ce résultat est corroboré par les réponses relatives à l’article 3 sur les « agents en voie de titularisation » DR ou PR calqués sur les recrutements appelés « Tenure Tracks » dans le système anglo-saxon. 77% des réponses est critique quant à cette mesure. 34% estime que c’est "Une mauvaise initiative si elle diminue les recrutements en Chargés de recherche et Maitres de conférences. 43% estime que c’est "Une très mauvaise initiative".

      Le même constat se retrouve dans l’opinion au sujet des CDI de mission. Ils recueillent 71% d’opinions négatives, dont pour moitié si c’est au détriment des emplois de titulaires.

      Ampleur de l’effort budgétaire

      Pour finir cette première analyse des résultats nous donnons l’appréciation sur l’effort budgétaire du projet de loi de programmation. Plus de la moitié (54%) des réponses indiquent que la programmation financière est « trop faible » ou « vraiment insiffisante ».

      Conclusion provisoire

      L’analyse du sondage n’est pas terminée. Il est anticipé de tirer des conclusions définitives. Cependant, cette première analyse confirme que pour la communauté scientifique la programmation projetée n’est pas à la hauteur des enjeux. L’augmentation budgétaire prévue n’est pas suffisante et il manque :

      une programmation de la hausse des dotations de bases aux laboratoires (qui rappelons-le ne sont pas des dotations automatiques mais attribuées dans un dialogue avec les établissements de tutelle des laboratoires après évaluation par les pairs),
      une programmation de la hausse de l’emploi de titulaires, dont un fort besoin d’emplois d’ingénieurs et techniciens.

      La réponse du gouvernement, qui sur ce dernier point répond par l’embauche d’agents contractuels et autres contrats précaires (hausse estimée à 15 000 dans l’annexe de la loi, soit 10% de hausse), n’est pas en phase avec les attentes de la communauté. Le Comité national s’est impliqué depuis février 2019 dans l’élaboration collective d’un diagnostic et de propositions pour la recherche. Les principales propositions qu’il a formulées sont à nouveau confirmées par ce sondage.

      https://www.c3n-cn.fr/sondageLPR

    • Note technique sur la programmation budgétaire

      Le projet de loi de programmation de la recherche pour les années 2021 à 2030, portant diverses dispositions relatives à la recherche et à l’enseignement supérieur (LPR) –initialement loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR) –sera examiné fin octobre au Sénat. Le gouvernement annonce un effort « exceptionnel », « sans précédent », de 25 milliards d’euros, en faveur de la recherche. Le projet de loi LPR s’accompagne d’un protocole d’accord « rémunérations et carrières 2021-2030 » décrit par la ministre F. Vidal comme rien moins que « le plus grand plan de revalorisations et de promotions des carrières scientifiques depuis des décennies ».Dans cette note technique, nous exposons la réalité de la programmation budgétaire de ce projet de loi, en examinant successivement : (1) le budget total programmé pour la recherche (programmes 150, 172 et 193 couverts par la LPR), (2) la part prévue pour l’Université (programme 150), (3) l’articulation au niveau budgétaire entre la LPR et la loi de réforme des retraites —telle qu’elle était prévue avant sa suspension temporaire, dans le contexte de sa reprise annoncée.

      http://rogueesr.fr/wp-content/uploads/2020/10/Note_programmation_budgetaire.pdf
      #budget

    • Info du budget LPR :

      Le projet de loi de finances 2021 apporte une preuve supplémentaire de l’insincérité budgétaire de la loi de programmation de la recherche. Du point de vue du ministère, les “crédits de la mission Enseignement Supérieur et Recherche du Projet de Loi de Finance ( #PLF2021) mentionnent une augmentation de 600 millions € sur les crédits du ministère et de 400 millions € pour la première marche de la #LoiRecherche.” Cependant, chacun peut vérifier dans le projet de loi de finance 2021 [] que les crédits de paiement de cette mission décroissent de 28,664 milliards € à 28,488 milliards €, soit -0,6%.

      Le rapport Rapin de la commission des finances du Sénat [*], déplore le jeu de bonneteau budgétaire du ministère, lié à la dette contractée par la France auprès de l’Agence spatiale européenne (ESA). Cette dette prise en compte, l’évolution budgétaire est évaluée à +104 millions € (+0,36%). Une fois l’inflation soustraite (estimée par l’INSEE à 0,7% en 2020), le budget de l’enseignement supérieur et de la recherche baisse donc de 100 millions €, environ.

      En conséquence, ni le glissement vieillesse technicité (0,45% en moyenne), ni le plan de revalorisations et de promotions des carrières scientifiques dont s’enorgueillit le MESRI ne sont financés.

      [] page 211

      http://www.assemblee-nationale.fr/dyn/15/textes/l15b3360_projet-loi.pdf

      [*] page 30 et 31

      http://www.senat.fr/rap/a20-032/a20-0321.pdf

      Reçu via la mailing-list Rogueesr du 26.10.2020

    • Malgré le vote de la loi recherche, ses opposants ne désarment pas

      L’Assemblée a adopté la loi recherche mardi, mais n’a pas éteint la contestation. Depuis la ministre se retrouve face à un front syndical uni, des présidents d’universités étant sommés d’expliquer leur soutien à ce texte.

      Pas de répit pour Frédérique Vidal. Le vote de sa loi de programmation pour la recherche à l’Assemblée hier n’a pas éteint les revendications des chercheurs, bien au contraire.

      Mercredi matin, les organisations syndicales, toutes les organisations syndicales, ont boycotté la réunion du Conseil national de l’enseignement supérieur et de la recherche. Elles « dénoncent la méthode employée par le gouvernement pour faire passer en force le texte de la loi de programmation de la recherche » et elles « demandent l’ouverture de négociations pour une autre loi de programmation et un plan pour l’emploi scientifique titulaire construits avec l’ensemble des acteurs et actrices de l’ESR ». Bref, la ministre est appelée à revoir sa copie.

      Les seuls soutiens de Frédérique Vidal dans l’élaboration de cette loi, les présidents des plus grosses universités sont aussi dans le viseur. La communauté leur demande de se positionner individuellement et publiquement sur le texte de loi. Ainsi, Michel Deneken, président de l’Université de Strasbourg, a-t-il reçu un courrier de la part du Doyen de sa faculté de Droit, s’enquerant de son avis sur ce texte et sur la méthode suivie pour son élaboration. « Cette information influencera, à n’en point douter, le choix de nombreux membres de notre communauté universitaire dans la perspective prochaine des élections des conseils centraux », menace la lettre.

      L’Université de Strasbourg est membre de l’Udice, l’association des dix « grandes universités de recherche pluridisciplinaires françaises », qui a défendu la LPR et notamment l’article décrié ouvrant un nouveau mode de recrutement des enseignants-chercheurs dans le but « de recruter les meilleurs candidats aux postes d’enseignants-chercheurs ».

      Tout au long des débats autour de cette LPR le gouvernement et ses maigres soutiens ont joué cette musique. Le but de cette loi serait de permettre de recruter des stars, jettant ainsi le discrédit sur les personnes recrutées actuellement.

      Libération a discuté avec un chercheur français, répondant aux critères d’excellence du gouvernement. Sylvain Deville est lauréat en 2011 de la très réputée bourse du conseil européen de la recherche qui lui a octroyé 1,5 million d’euros sur 5 ans pour ses recherches sur les matériaux. Aujourd’hui directeur de recherche au CNRS, il est pourtant opposé à cette loi.

      « Depuis l’épuisement de mon financement ERC, je fais comme tout le monde, je dépose des demandes de financement partout. En quatre ans, je n’ai pu obtenir que deux bourses de thèses qui touchent à leur fin. Cette loi met l’accent sur les appels à projet comme mode de distribution des moyens. Il n’y a pas d’engagement sur les budgets pérennes ni sur l’emploi. Nous sommes les seuls fonctionnaires à qui on ne donne pas les moyens d’exercer leur métier une fois recruté, déplore-t-il. Pour ce chercheur « Les signaux envoyés par la loi sont très négatifs, nous le paierons à long terme. Il est de plus en plus difficile de convaincre les jeunes de se lancer dans une carrière scientifique. Ce que nous demandons, ce sont des financements pérennes et un horizon pas trop bouché pour ceux qui viennent après nous ».

      Un appel intersyndical est lancé pour le 24 novembre pour que la LPR ne soit pas appliquée.

      https://www.liberation.fr/sciences/2020/11/18/malgre-le-vote-de-la-loi-recherche-ses-opposants-ne-desarment-pas_1805944

  • L’#Université, le #Covid-19 et le danger des #technologies_de_l’éducation

    La crise actuelle et la solution proposée d’un passage des enseignements en ligne en urgence ont accéléré des processus systémiques déjà en cours dans les universités britanniques, en particulier dans le contexte du Brexit. Même si l’enseignement en ligne peut avoir une portée radicale et égalitaire, sa pérennisation dans les conditions actuelles ouvrirait la voie à ce que les fournisseurs privés de technologies de l’éducation (edtech d’après l’anglais educational technology) imposent leurs priorités et fassent de l’exception une norme.

    Mariya Ivancheva, sociologue à l’université de Liverpool dont les recherches portent sur l’enseignement supérieur, soutient que nous devons repenser ce phénomène et y résister, sans quoi le secteur de l’enseignement supérieur britannique continuera d’opérer comme un outil d’extraction et de redistribution de l’argent public vers le secteur privé.

    *

    Avec la propagation mondiale du coronavirus et la désignation du COVID-19 comme pandémie par l’Organisation mondiale de la santé le 11 mars, les universités de nombreux pays ont eu recours à l’enseignement en ligne. Rien qu’aux États-Unis, dès le 12 mars, plus de 100 universités sont passées à l’enseignement à distance. Depuis, rares sont les pays où au moins une partie des cours n’est pas dispensée en ligne. Les prestataires de services d’enseignement privés ont été inondés de demandes de la part des universités, qui les sollicitaient pour faciliter le passage à l’enseignement à distance.

    Au Royaume-Uni, la réticence initiale du gouvernement et des directions de certaines institutions d’enseignement supérieur à imposer des mesures de distanciation sociale et à fermer les établissements ont mené plusieurs universités à prendre cette initiative de leur propre chef. Le 23 mars, lorsque les règles de confinement et de distanciation sociale ont finalement été introduites, la plupart des universités avaient déjà déplacé leurs cours en ligne et fermé la plus grande partie de leur campus, à l’exception des « services essentiels ». Si un débat sur les inégalités face à l’université dématérialisée a eu lieu (accès aux ordinateurs, à une connexion Internet sécurisée et à un espace de travail calme pour les étudiant.e.s issus de familles pauvres, vivant dans des conditions défavorables, porteurs de responsabilités familiales ou d’un handicap), l’impact sur le long terme de ce passage en ligne sur le travail universitaire n’a pas été suffisamment discuté.

    Ne pas laisser passer l’opportunité d’une bonne crise

    Étant donnée la manière criminelle dont le gouvernement britannique a initialement répondu à la crise sanitaire, un retard qui aurait coûté la vie à plus de 50 000 personnes, les mesures de confinement et de distanciation prises par les universités sont louables. Toutefois, la mise en ligne des enseignements a également accéléré des processus déjà existants dans le secteur universitaire au Royaume-Uni.

    En effet, surtout depuis la crise de 2008, ce secteur est aux prises avec la marchandisation, les politiques d’austérité et la précarisation. Désormais, il doit également faire aux conséquences du Brexit, qui se traduiront par une baisse des financements pour la recherche provenant de l’UE ainsi que par une diminution du nombre d’étudiant.e.s européens. Entre l’imminence d’une crise économique sans précédent, les craintes d’une baisse drastique des effectifs d’étudiant.e.s étranger/ères payant des frais de scolarité pour l’année académique à venir et le refus du gouvernement de débourser deux milliards de livres pour renflouer le secteur, la perspective d’une reprise rapide est peu probable.

    Le passage en ligne a permis à de nombreux étudiant.e.s de terminer le semestre et l’année académique : pourtant, les personnels enseignants et administratifs n’ont reçu que de maigres garanties face à la conjoncture. Pour les enseignements, les universités britanniques dépendent à plus de 50% de travailleurs précaires, ayant des contrats de vacation souvent rémunérés à l’heure et sur demande (« zero-hour contract » : contrat sans horaire spécifié). Si certaines universités ont mis en place des systèmes de congé sans solde ou de chômage partiel pour faire face à la pandémie, la majorité d’entre elles envisage de renvoyer les plus vulnérables parmi leurs employés.

    Parallèlement, les sociétés prestataires d’edtech, qui sollicitaient auparavant les universités de manière discrète, sont désormais considérées comme des fournisseurs de services de « premiers secours » voire « palliatifs ». Or, dans le contexte actuel, la prolongation de ces modes d’enseignements entraînerait une précarisation et une externalisation accrues du travail universitaire, et serait extrêmement préjudiciable à l’université publique.

    Les eaux troubles de l’enseignement supérieur commercialisé

    Au cours des dernières décennies, le domaine universitaire britannique a connu une énorme redistribution des fonds publics vers des prestataires privés. Les contributions du public et des particuliers à l’enseignement supérieur se font désormais par trois biais : les impôts (budgets pour la recherche et frais de fonctionnement des universités), les frais d’études (frais de scolarité, frais de subsistance et remboursement des prêts étudiants) et par le port du risque de crédit pour les prêts étudiants (reconditionnés en dette et vendus aux investisseurs privés)[1].

    Lorsque les directions des universités mettent en œuvre des partenariats public-privé dont les conditions sont largement avantageuses pour le secteur privé, elles prétendent que ces contrats profitent au « bien public », et ce grâce à l’investissement qu’ils permettraient dans les infrastructures et les services, et parce qu’ils mèneraient à la création d’emplois et donc à de la croissance. Mais cette rhétorique dissimule mal le fait que ces contrats participent en réalité à un modèle d’expansion de l’université fondé sur la financiarisation et le non-respect des droits des travailleurs dont les conditions de travail deviennent encore plus précaires.

    À cet égard, les retraites des universitaires ont été privatisées par le biais d’un régime appelé Universities Superannuation Scheme (USS), dont il a été divulgué qu’il s’agissait d’un régime fiscal offshore. Par ailleurs, les universités britanniques, très bien notées par les agences de notation qui supposent que l’État les soutiendrait le cas échéant, ont été autorisées à emprunter des centaines de millions de livres pour investir dans la construction de résidences étudiantes privées, s’engageant à une augmentation exponentielle du nombre d’étudiant.e.s.

    Le marché de la construction des résidences universitaires privées atteignait 45 milliards de livres en 2017, et bénéficiait souvent à des sociétés privées offshores. Les étudiant.e.s sont ainsi accueillis dans des dortoirs sans âme, fréquentent des infrastructures basiques (par exemple les installations sportives), alors qu’ils manquent cruellement d’accès aux services de soutien psychologique et social, ou même tout simplement de contact direct avec leurs enseignants, qu’ils voient souvent de loin dans des amphithéâtres bondés. Ces choix ont pour résultat une détérioration dramatique de la santé mentale des étudiant.e.s.

    Avec des frais universitaires pouvant aller jusqu’à £9 000 par an pour les études de premier cycle et dépassant parfois £20 000 par an en cycle de masters pour les étudiant.e.s étranger/ères (sans compter les frais de subsistance : nourriture, logement, loisirs), la dette étudiante liée à l’emprunt a atteint 121 milliards de livres. La prévalence d’emplois précaires et mal payés sur le marché du travail rend à l’évidence ces prêts de plus en plus difficiles à rembourser.

    Enfin, le financement de la recherche provient toujours principalement de sources publiques, telles que l’UE ou les comités nationaux pour la recherche. Candidater pour ces financements extrêmement compétitifs demande un énorme investissement en temps, en main d’œuvre et en ressources. Ces candidatures sont cependant fortement encouragées par la direction des universités, en dépit du faible taux de réussite et du fait que ces financements aboutissent souvent à des collaborations entre université et industrie qui profitent au secteur privé par le biais de brevets, de main-d’œuvre de recherche bon marché, et en octroyant aux entreprises un droit de veto sur les publications.

    Les edtech entrent en scène

    Dans le même temps, les sociétés d’edtech jouent un rôle de plus en plus important au sein des universités, profitant de deux changements du paradigme véhiculé par l’idéologie néolibérale du marché libre appliquée à l’enseignement supérieur – ainsi qu’à d’autres services publics.

    D’abord, l’idée de services centrés sur les « utilisateurs » (les « apprenants »selon la terminologie en cours dans l’enseignement), s’est traduite concrètement par des coûts additionnels pour le public et les usagers ainsi que par l’essor du secteur privé, conduisant à l’individualisation accrue des risques et de la dette. Ainsi, la formation professionnelle des étudiant.e.s, autrefois proposée par les employeurs, est désormais considérée comme relevant de la responsabilité des universités. Les universitaires qui considèrent que leur rôle n’est pas de former les étudiant.e.s aux compétences attendues sur le marché du travail sont continuellement dénigrés.

    Le deuxième paradigme mis en avant par les sociétés edtech pour promouvoir leurs services auprès des universités est celui de l’approche centrée sur les « solutions ». Mais c’est la même « solution » qui est invariablement proposée par les sociétés edtech, à savoir celle de la « rupture numérique », ou, en d’autres termes, la rupture avec l’institution universitaire telle que nous la connaissons. En réponse aux demandes en faveur d’universités plus démocratiques et égalitaires, dégagées de leur soumission croissante aux élites au pouvoir, les sociétés edtech (dont la capitalisation s’élève à des milliards de dollars) se présentent comme offrant la solution via les technologies numériques.

    Elles s’associent à une longue histoire où le progrès technologique (que ce soit les lettres, la radio, les cassettes audio ou les enregistrements vidéo) a effectivement été mis au service d’étudiant.e.s « atypiques » tels que les travailleurs, les femmes, les personnes vivant dans des zones d’accès difficile, les personnes porteuses de handicap ou assumant des responsabilités familiales. L’éducation ouverte par le biais par exemple de webinaires gratuits, les formations en ligne ouvertes à tous (MOOC), les ressources éducatives disponibles gratuitement et les logiciels open source suivaient à l’origine un objectif progressiste d’élargissement de l’accès à l’éducation.

    Toutefois, avec le passage en ligne des enseignements dans un secteur universitaire fortement commercialisé, les technologies sont en réalité utilisées à des fins opposées. Avant la pandémie de COVID-19, certaines universités proposaient déjà des MOOC, des formations de courte durée gratuites et créditées et des diplômes en ligne par le biais de partenariats public-privé avec des sociétés de gestion de programmes en ligne.

    Au sein du marché général des technologies de l’information, ces sociétés représentent un secteur d’une soixantaine de fournisseurs, estimé à 3 milliards de dollars et qui devrait atteindre 7,7 milliards de dollars d’ici 2025 – un chiffre susceptible d’augmenter avec les effets de la pandémie. Le modèle commercial de ces partenariats implique généralement que ces sociétés récoltent entre 50 à 70% des revenus liés aux frais de scolarité, ainsi que l’accès à des mégadonnées très rentables, en échange de quoi elles fournissent le capital de démarrage, la plateforme, des services de commercialisation et une aide au recrutement et assument le coût lié aux risques.

    L’une des différences essentielles entre ces sociétés et d’autres acteurs du secteur des technologies de l’éducation proposant des services numériques est qu’elles contribuent à ce qui est considéré comme le « cœur de métier » : la conception des programmes, l’enseignement et le soutien aux étudiant.e.s. Une deuxième différence est que, contrairement à d’autres prestataires d’enseignement privés, ces sociétés utilisent l’image institutionnelle d’universités existantes pour vendre leur produit, sans être trop visibles.

    Normaliser la précarisation et les inégalités

    Le secteur de la gestion des programmes en ligne repose sur une charge importante de travail académique pour les employés ainsi que sur le recours à une main-d’œuvre précaire et externalisée. Ceci permet aux sociétés bénéficiaires de contourner la résistance organisée au sein des universités. De nombreux MOOC, formations de courte durée et des diplômes en ligne en partenariat avec ces sociétés font désormais partie de l’offre habituelle des universités britanniques.

    La charge de travail académique déjà croissante des enseignants est intensifiée par les enseignements en ligne, sans rémunération supplémentaire, et alors même que de tels cours demandent une pédagogie différente et prennent plus de temps que l’enseignement en classe. Avec la transformation de l’enseignement à distance d’urgence en une offre d’« éducation en ligne », ces modalités pourraient devenir la nouvelle norme.

    L’université de Durham a d’ailleurs tenté d’instaurer un dangereux précédent à cet égard, qui en présage d’autres à venir. L’université a conclu un accord avec la société Cambridge Education Digital (CED), afin d’offrir des diplômes entièrement en ligne à partir de l’automne 2020, sans consultation du personnel, mais en ayant la garantie de CED que seules six heures de formation étaient nécessaires pour concevoir et délivrer ces diplômes.

    Dans le même temps, les sociétés de gestion de programmes en ligne ont déjà recruté de nombreux·ses travailleur/euses diplômé·e·s de l’éducation supérieure, souvent titulaires d’un doctorat obtenu depuis peu, cantonné·e·s à des emplois précaires, et chargés de fournir un soutien académique aux étudiant.e.s. Il s’agit de contrats temporaires, sur la base d’une rémunération à la tâche, peu sécurisés et mal payés, comparables à ceux proposés par Deliveroo ou TaskRabbit. Ces employés, qui ne sont pas syndiqués auprès du même syndicat que les autres universitaires, et qui sont souvent des femmes ou des universitaires noirs ou issus de minorités racisées, désavantagés en matière d’embauche et de promotion, seront plus facilement ciblé·e·s par les vagues de licenciement liées au COVID-19.

    Cela signifie également qu’ils/elles seront utilisé·e·s – comme l’ont été les universitaires des agences d’intérim par le passé – pour briser les piquets de grève lors de mobilisations à l’université. Ce système se nourrit directement de la polarisation entre universitaires, au bénéfice des enseignant·e·s éligibles aux financements de recherche, qui s’approprient les recherches produites par les chercheur/ses précaires et utilisent le personnel employé sur des contrats uniquement dédiés à l’enseignement [pour fournir les charges d’enseignement de collègues déchargés]. Il s’agit là de pratiques légitimées par le mode de financement de l’UE et des comités nationaux pour la recherche ainsi que par le système de classements et d’audits de la recherche.

    Avec le COVID-19, le modèle proposé par les entreprises de gestion de programmes en ligne, fondé sur l’externalisation et la privatisation des activités de base et de la main-d’œuvre de l’université, pourrait gagner encore plus de terrain. Ceci s’inscrit en réalité dans le cadre d’un changement structurel qui présagerait la fin de l’enseignement supérieur public. Le coût énorme du passage en ligne – récemment estimé à 10 millions de livres sterling pour 5-6 cours en ligne par université et 1 milliard de livres sterling pour l’ensemble du secteur – signifie que de nombreuses universités ne pourront pas se permettre d’offrir des enseignements dématérialisés.

    De plus, les sociétés de gestion de programmes en ligne ne travaillent pas avec n’importe quelle université : elles préfèrent celles dont l’image institutionnelle est bien établie. Dans cette conjoncture, et compte tenu de la possibilité que de nombreux/ses étudiant.e.s annulent (ou interrompent) leur inscription dans une université du Royaume-Uni par crainte de la pandémie, de nombreuses universités plus petites et moins visibles à l’échelle internationale pourraient perdre un nombre importante d’étudiant.e.s, et le financement qui en découle.

    En dépit de tous ces éléments, l’appel à une réglementation et à un plafonnement du nombre d’étudiant.e.s admis par chaque institution, qui permettraient une redistribution sur l’ensemble du secteur et entre les différentes universités, semble tomber dans l’oreille d’un sourd.

    Un article sur le blog de Jo Johnson, ancien ministre de l’Éducation et frère du Premier ministre britannique, exprime une vision cynique de l’avenir des universités britanniques. Sa formule est simple : le gouvernement devrait refuser l’appel au soutien des universités moins bien classées, telles que les « instituts polytechniques », anciennement consacrés à la formation professionnelle et transformés en universités en 1992. Souvent davantage orientées vers l’enseignement que vers la recherche, ceux-ci n’ont que rarement des partenariats avec des sociétés de gestion de programmes en ligne ou une offre de cours à distance. Selon Johnson, ces universités sont vouées à mourir de mort naturelle, ou bien à revenir à leur offre précédente de formation professionnelle.

    Les universités du Groupe Russell[2], très concentrées sur la recherche, qui proposent déjà des enseignements dématérialisés en partenariat avec des prestataires de gestion des programmes en ligne, pourraient quant à elles se développer davantage, à la faveur de leur image institutionnelle de marque, et concentreraient ainsi tous les étudiant.e.s et les revenus. Ce qu’une telle vision ne précise pas, c’est ce qu’il adviendrait du personnel enseignant. Il est facile d’imaginer que les nouvelles méga-universités seraient encore plus tributaires des services de « soutien aux étudiant.e.s » et d’enseignement dispensés par des universitaires externalisés, recrutés par des sociétés de gestion des programmes en ligne avec des contrats à la demande, hyper-précaires et déprofessionnalisés.

    Lieux de lutte et de résistance

    Ce scénario appelle à la résistance, mais celle-ci devient de plus en plus difficile. Au cours des six derniers mois, les membres du syndicat « University and College Union » (UCU) ont totalisé 22 jours de grève. L’une des deux revendications portées par cette mobilisation, parmi les plus longues et les plus soutenues dans l’enseignement supérieur britannique, portait sur les retraites.

    La seconde combinait quatre revendications : une réduction de la charge de travail, une augmentation des salaires sur l’ensemble du secteur (ils ont diminué de 20% au cours de la dernière décennie), s’opposer à la précarisation, et supprimer les écarts de rémunération entre hommes et femmes (21%) et ceux ciblant les personnes racisées (26%). Les employeurs, représentés par « Universities UK » et l’Association des employeurs « Universities and Colleges », n’ont jusqu’à présent pas fait de concessions significatives face à la grève. La crise du COVID-19 a limité l’option de la grève, alors que l’augmentation de la charge de travail, la réduction des salaires et la précarisation sont désormais présentées comme les seules solutions pour faire face à la pandémie et aux crises économiques.

    Dans ce contexte, le passage vers l’enseignement en ligne doit devenir un enjeu central des luttes des syndicats enseignants. Toutefois, la possibilité de mener des recherches sur ce processus – un outil clé pour les syndicats – semble limitée. De nombreux contrats liant les universités et les entreprises de gestion de programme en ligne sont conclus sans consultation du personnel et ne sont pas accessibles au public. En outre, les résultats de ces recherches sont souvent considérés comme nocifs pour l’image des sociétés.

    Pourtant, un diagnostic et une réglementation des contrats entre les universités et ces entreprises, ainsi que celle du marché de l’edtech en général, sont plus que jamais nécessaires. En particulier, il est impératif d’en comprendre les effets sur le travail universitaire et de faire la lumière sur l’utilisation qui est faite des données collectées concernant les étudiant.e.s par les sociétés d’edtech. Tout en s’opposant aux licenciements, l’UCU devrait également se mettre à la disposition des universitaires travaillant de manière externalisée, et envisager de s’engager dans la lutte contre la sous-traitance du personnel enseignant.

    Bien que tout cela puisse aujourd’hui sembler être un problème propre au Royaume-Uni, la tempête qui y secoue aujourd’hui le secteur de l’enseignement supérieur ne tardera pas à se propager à d’autres contextes nationaux.

    Traduit par Céline Cantat.

    Cet article a été publié initialement sur le blog du bureau de Bruxelles de la Fondation Rosa Luxemburg et de Trademark Trade-union.
    Notes

    [1] La réforme de 2010 a entraîné le triplement des droits d’inscriptions, qui sont passés de 3000 à 9000 livres (soit plus de 10 000 euros) par an pour une année en licence pour les étudiant.e.s britanniques et originaires de l’UE (disposition qui prendra fin pour ces dernier.e.s avec la mise en œuvre du Brexit). Le montant de ces droits est libre pour les étudiant.e.s hors-UE, il équivaut en général au moins au double. Il est également bien plus élevé pour les masters.

    [2] Fondé en 1994, le Russell Group est un réseau de vingt-quatre universités au Royaume-Uni censé regrouper les pôles d’excellence de la recherche et faire contrepoids à la fameuse Ivy League étatsunienne.

    https://www.contretemps.eu/universite-covid19-technologies-education

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