• Il massacro di Addis Abeba

    Ci sono pagine della storia d’Italia che conosciamo ormai a memoria, e altre su cui ancora non è stata scritta la parola “fine”. E poi ci sono le pagine dimenticate, relegate all’oblio perché troppo dolorose. Anche quelle, però, fanno parte del nostro passato. In questo caso, del nostro passato di “potenza imperialista”. La mattina del 19 febbraio 1937, ad Addis Abeba, il viceré Rodolfo Graziani e le autorità italiane che da nove mesi governano un terzo dell’Etiopia celebrano la nascita del primo figlio maschio del principe Umberto di Savoia. Ma un gruppo d’insorti riesce a superare i controlli e, all’improvviso, otto bombe a mano seminano il caos tra quei notabili. Di fronte al bilancio — sette morti e decine di feriti, compreso lo stesso Graziani — il Duce ordina la repressione: “Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi”. È così che si scatena uno dei massacri più ignobili della parentesi coloniale italiana: giorni di terrore, tra omicidi e saccheggi, durante i quali migliaia di innocenti vengono trucidati con sistematica brutalità. Repressione che culmina, nel maggio dello stesso anno, con l’eccidio di centinaia di monaci, preti e pellegrini cristiani della Chiesa etiope, tutti disarmati, radunati nel monastero di Debra Libanos. Intanto, le Camicie nere ne approfittano per azzerare l’intellighenzia del Paese, in un vero e proprio pogrom.Con precisione accademica e passo narrativo, Ian Campell ricostruisce in questo saggio una delle atrocità meno conosciute del regime fascista, analizzandone premesse e conseguenze, senza fare sconti a nessuno. Perché è venuto il momento di guardare in faccia la realtà e l’orrore di quanto accaduto, per non dimenticare né le vittime né i carnefici.

    https://www.rizzolilibri.it/libri/il-massacro-di-addis-abeba
    #livre #Italie #Italie_coloniale #histoire_coloniale #colonialisme #Ethiopie #colonialisme_italien #massacre

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  • Plotone chimico. Cronache abissine di una generazione scomoda

    In queste preziosissime memorie sul colonialismo italiano in Etiopia e in particolare sulla strage di #Zeret, al rigore della testimonianza storica si intrecciano la pietà e l’amore per un popolo e un paese che hanno lasciato il segno nell’animo del soldato italiano #Alessandro_Boaglio. La società e la cultura indigene vengono viste con gli occhi di chi tornato in patria ricorda, rivive e rivede in chiave diversa comportamenti, azioni e stragi efferate delle quali l’autore è stato protagonista, essendo partito per l’impero come sergente maggiore di un reparto chimico.

    https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857501567

    #livre #Italie #Italie_coloniale #histoire_coloniale #colonialisme #Ethiopie #colonialisme_italien

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  • Cronache dalla polvere

    Nel 1936 l’esercito italiano conquista la capitale dell’impero etiope, Addis Abeba. Per quelle popolazioni un nuovo inizio: la #pace_romana, come la definì Benito Mussolini. Cronache dalla polvere racconta questa pagina di storia dell’Italia dimenticata e troppo a lungo taciuta: l’occupazione dei territori dell’Abissinia da parte delle truppe fasciste. Il regime ambiva a farne il fiore all’occhiello dell’Impero italiano ma si trovò a reprimere con atroce violenza la resistenza dei fieri guerriglieri arbegnuoc. Le truppe italiane insieme alle camicie nere si resero protagoniste di rastrellamenti, distruzioni e massacri di uomini, donne e bambini, abbandonando umanità e pietà. Perdute per sempre in quelle terre lontane da Roma. Le popolazioni locali non hanno mai dimenticato quel passato di inaudita violenza. Cronache dalla polvere è un’occasione per ricordare l’orrore della guerra e delle ideologie di superiorità della razza. Questa storia batte al tempo inesorabile dei tamburi di guerra, respira polvere e vento e ha gli occhi dei suoi protagonisti: soldati italiani, guerriglieri etiopi e alcune misteriose presenze. Fantasmi. Il paesaggio africano del secolo scorso rivive con una vena fantastica grazie al racconto corale del collettivo di scrittrici, scrittori e illustratori in tutta la sua spettacolare intensità e drammaticità.

    https://www.bompiani.it/catalogo/cronache-dalla-polvere-9788830100220
    #livre #colonialisme_italien #Italie_coloniale #colonialisme #Italie #histoire_coloniale #Abyssinie #fascisme #arbegnuoc #résistance #violence #Ethiopie #guerre_d'Ethiopie #Rodolfo_Graziani #massacre

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  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/23/au-large-de-djibouti-au-moins-16-migrants-morts-et-28-disparus-lors-d-un-nau

    Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    Le Monde avec AFP
    Au moins vingt et un migrants, dont des enfants, sont morts, et vingt-trois autres sont portés disparus après le naufrage de leur embarcation au large de Djibouti, dans la Corne de l’Afrique (à l’est du continent), a annoncé, mardi 23 avril, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), lors d’un bilan actualisé en soirée.Le bateau était en route vers la côte djiboutienne après avoir quitté le Yémen, lundi vers 19 h 30, a fait savoir la cheffe de mission de l’OIM à Djibouti, Tanja Pacifico. « Les opérations de recherche et de sauvetage par les autorités locales et l’OIM sont en cours », a affirmé l’organisation onusienne sur X. Sur les 77 migrants à bord de l’embarcation, vingt et un corps ont été retrouvés, dont ceux d’enfants, selon Mme Pacifico.
    L’ambassadeur éthiopien à Djibouti, qui a confirmé que trente-trois personnes, dont une femme, avaient survécu, a exprimé sa « peine profonde (…) devant la succession d’horribles désastres », et réclamé l’adoption de « mesures légales » contre « les trafiquants d’êtres humains qui mettent les vies de nos citoyens en danger ».
    Il s’agit du deuxième naufrage rapporté par l’OIM au large de Djibouti en quelques semaines, après un autre le 8 avril, dans lequel au moins trente-huit personnes, dont des enfants, ont péri. La « route de l’est », empruntée par les migrants venant de la Corne de l’Afrique pour rejoindre l’Arabie saoudite via le Yémen en guerre, est considérée par l’agence comme « l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus complexes d’Afrique et du monde ».
    Le 8 avril, l’OIM a estimé qu’au moins 698 personnes, y compris des femmes et des enfants, ont péri le long de la « route de l’est » en 2023, mais « ce chiffre pourrait être plus élevé car certaines tragédies passent souvent inaperçues ». En novembre 2023, soixante-quatre migrants avaient disparu, présumés morts en mer, lors d’un naufrage au large des côtes du Yémen, rappelle l’OIM.
    Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    Outre les naufrages, les migrants sont confrontés le long du chemin à « la famine, aux risques sanitaires, aux trafiquants et autres criminels », et manquent « de soins médicaux, de nourriture, d’eaux, d’un abri », souligne l’organisation.
    Selon l’OIM, les Ethiopiens représentent 79 % des quelque 100 000 migrants arrivés en 2023 au Yémen depuis les côtes de Djibouti ou de Somalie, le reste étant des Somaliens. La plupart d’entre eux évoquent des motifs économiques à leur départ, mais une partie met aussi en avant les violences ou les catastrophes climatiques en Ethiopie. Deuxième pays le plus peuplé d’Afrique, l’Ethiopie est déchirée par de nombreux conflits et plusieurs régions ont souffert ces dernières années d’une importante sécheresse. L’inflation est galopante et plus de 15 % des 120 millions d’habitants dépendent de l’aide alimentaire.

    #Covid-19#migrant#migration#ethiopie#yemen#djibouti#routemigratoire#traversee#mortalite#naufrage#sante#migrationireeguliere

  • Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/23/au-large-de-djibouti-au-moins-16-migrants-morts-et-28-disparus-lors-d-un-nau

    Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    Le Monde avec AFP
    Publié hier à 16h06, modifié à 03h46
    Au moins vingt et un migrants, dont des enfants, sont morts, et vingt-trois autres sont portés disparus après le naufrage de leur embarcation au large de Djibouti, dans la Corne de l’Afrique (à l’est du continent), a annoncé, mardi 23 avril, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), lors d’un bilan actualisé en soirée.
    Le bateau était en route vers la côte djiboutienne après avoir quitté le Yémen, lundi vers 19 h 30, a fait savoir la cheffe de mission de l’OIM à Djibouti, Tanja Pacifico. « Les opérations de recherche et de sauvetage par les autorités locales et l’OIM sont en cours », a affirmé l’organisation onusienne sur X. Sur les 77 migrants à bord de l’embarcation, vingt et un corps ont été retrouvés, dont ceux d’enfants, selon Mme Pacifico. L’ambassadeur éthiopien à Djibouti, qui a confirmé que trente-trois personnes, dont une femme, avaient survécu, a exprimé sa « peine profonde (…) devant la succession d’horribles désastres », et réclamé l’adoption de « mesures légales » contre « les trafiquants d’êtres humains qui mettent les vies de nos citoyens en danger ».
    Il s’agit du deuxième naufrage rapporté par l’OIM au large de Djibouti en quelques semaines, après un autre le 8 avril, dans lequel au moins trente-huit personnes, dont des enfants, ont péri. La « route de l’est », empruntée par les migrants venant de la Corne de l’Afrique pour rejoindre l’Arabie saoudite via le Yémen en guerre, est considérée par l’agence comme « l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus complexes d’Afrique et du monde ».
    Le 8 avril, l’OIM a estimé qu’au moins 698 personnes, y compris des femmes et des enfants, ont péri le long de la « route de l’est » en 2023, mais « ce chiffre pourrait être plus élevé car certaines tragédies passent souvent inaperçues ». En novembre 2023, soixante-quatre migrants avaient disparu, présumés morts en mer, lors d’un naufrage au large des côtes du Yémen, rappelle l’OIM.
    Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    Outre les naufrages, les migrants sont confrontés le long du chemin à « la famine, aux risques sanitaires, aux trafiquants et autres criminels », et manquent « de soins médicaux, de nourriture, d’eaux, d’un abri », souligne l’organisation.Selon l’OIM, les Ethiopiens représentent 79 % des quelque 100 000 migrants arrivés en 2023 au Yémen depuis les côtes de Djibouti ou de Somalie, le reste étant des Somaliens. La plupart d’entre eux évoquent des motifs économiques à leur départ, mais une partie met aussi en avant les violences ou les catastrophes climatiques en Ethiopie.
    Deuxième pays le plus peuplé d’Afrique, l’Ethiopie est déchirée par de nombreux conflits et plusieurs régions ont souffert ces dernières années d’une importante sécheresse. L’inflation est galopante et plus de 15 % des 120 millions d’habitants dépendent de l’aide alimentaire.

    #Covid-19#migrant#migration#ethiopie#djibouti#yemen#routemigratoire#traversee#naufrage#mortalite#sante#migrationirreguliere

  • Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/23/au-large-de-djibouti-au-moins-16-migrants-morts-et-28-disparus-lors-d-un-nau

    Au large de Djibouti, au moins vingt et un migrants morts et vingt-trois disparus lors d’un naufrage selon l’ONU
    Le Monde avec AFP
    Publié hier à 16h06, modifié à 03h46
    Au moins vingt et un migrants, dont des enfants, sont morts, et vingt-trois autres sont portés disparus après le naufrage de leur embarcation au large de Djibouti, dans la Corne de l’Afrique (à l’est du continent), a annoncé, mardi 23 avril, l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), lors d’un bilan actualisé en soirée.
    Le bateau était en route vers la côte djiboutienne après avoir quitté le Yémen, lundi vers 19 h 30, a fait savoir la cheffe de mission de l’OIM à Djibouti, Tanja Pacifico. « Les opérations de recherche et de sauvetage par les autorités locales et l’OIM sont en cours », a affirmé l’organisation onusienne sur X. Sur les 77 migrants à bord de l’embarcation, vingt et un corps ont été retrouvés, dont ceux d’enfants, selon Mme Pacifico. L’ambassadeur éthiopien à Djibouti, qui a confirmé que trente-trois personnes, dont une femme, avaient survécu, a exprimé sa « peine profonde (…) devant la succession d’horribles désastres », et réclamé l’adoption de « mesures légales » contre « les trafiquants d’êtres humains qui mettent les vies de nos citoyens en danger ».
    Il s’agit du deuxième naufrage rapporté par l’OIM au large de Djibouti en quelques semaines, après un autre le 8 avril, dans lequel au moins trente-huit personnes, dont des enfants, ont péri. La « route de l’est », empruntée par les migrants venant de la Corne de l’Afrique pour rejoindre l’Arabie saoudite via le Yémen en guerre, est considérée par l’agence comme « l’une des routes migratoires les plus dangereuses et les plus complexes d’Afrique et du monde ».
    Le 8 avril, l’OIM a estimé qu’au moins 698 personnes, y compris des femmes et des enfants, ont péri le long de la « route de l’est » en 2023, mais « ce chiffre pourrait être plus élevé car certaines tragédies passent souvent inaperçues ». En novembre 2023, soixante-quatre migrants avaient disparu, présumés morts en mer, lors d’un naufrage au large des côtes du Yémen, rappelle l’OIM.
    Lire aussi | Article réservé à nos abonnés Transférer les demandeurs d’asile au Rwanda : l’obstination du gouvernement de Rishi Sunak
    Outre les naufrages, les migrants sont confrontés le long du chemin à « la famine, aux risques sanitaires, aux trafiquants et autres criminels », et manquent « de soins médicaux, de nourriture, d’eaux, d’un abri », souligne l’organisation.Selon l’OIM, les Ethiopiens représentent 79 % des quelque 100 000 migrants arrivés en 2023 au Yémen depuis les côtes de Djibouti ou de Somalie, le reste étant des Somaliens. La plupart d’entre eux évoquent des motifs économiques à leur départ, mais une partie met aussi en avant les violences ou les catastrophes climatiques en Ethiopie.
    Deuxième pays le plus peuplé d’Afrique, l’Ethiopie est déchirée par de nombreux conflits et plusieurs régions ont souffert ces dernières années d’une importante sécheresse. L’inflation est galopante et plus de 15 % des 120 millions d’habitants dépendent de l’aide alimentaire.

    #Covid-19#migrant#migration#ethiopie#djibouti#yemen#routemigratoire#traversee#naufrage#mortalite#sante#migrationirreguliere

  • La memoria rimossa. « Il Massacro di Addis Abeba »

    Il graphic novel racconta la strage che seguì al fallito attentato al governatore e viceré d’Etiopia #Rodolfo_Graziani, avvenuto ad Addis Abeba il 19 febbraio 1937. La feroce rappresaglia, che costò la vita a migliaia di etiopi, è una prova incontestabile del nostro comportamento coloniale utile a smontare il mito degli “#Italiani_Brava_Gente”.

    Destinato al pubblico più vasto, il lavoro di Giacopetti è pensato come strumento utile ad affrontare la storia coloniale anche nelle scuole, per questo include un agile glossario di termini, locuzioni e acronimi che arricchiscono la lettura.

    https://www.meltingpot.org/2024/03/la-memoria-rimossa-il-massacro-di-addis-abeba

    Pour télécharger la BD :
    https://resistenzeincirenaicacom.files.wordpress.com/2024/02/a5_il_massacro_di_addis_abeba_fumetto_federazione_delle_resistenze.pdf

    #bande_dessinée #BD #livre #massacre #Addis_Abeba #Italie #Italie_coloniale #colonialisme #mémoire #19_février_1937 #Ethiopie #colonialisme #histoire

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    ajouté à la métaliste sur le #colonialisme_italien :
    https://seenthis.net/messages/871953

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
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    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • War-related sexual and gender-based violence in Tigray, Northern Ethiopia: a community-based study

    Introduction. #Sexual_and_gender-based_violence (#SGBV) during armed conflicts has serious ramifications with women and girls disproportionally affected. The impact of the conflict that erupted in November 2020 in Tigray on SGBV is not well documented. This study is aimed at assessing war-related SGBV in war-affected Tigray, Ethiopia.

    Methods: A community-based survey was conducted in 52 (out of 84) districts of Tigray, excluding its western zone and some districts bordering Eritrea due to security reasons. Using a two-stage multistage cluster sampling technique, a total of 5171 women of reproductive age (15-49 years) were randomly selected and included in the study. Analysis used weighted descriptive statistics, regression modelling and tests of associations.

    Results: Overall, 43.3% (2241/5171) of women experienced at least one type of gender-based violence. The incidents of sexual, physical and psychological violence, and rape among women of reproductive age were found to be 9.7% (500/5171), 28.6% (1480/5171), 40.4% (2090/5171) and 7.9% (411/5171), respectively. Of the sexual violence survivors, rape accounted for 82.2% (411/500) cases, of which 68.4% (247) reported being gang raped. Young women (aged 15-24 years) were the most affected by sexual violence, 29.2% (146/500). Commonly reported SGBV-related issues were physical trauma, 23.8% (533/2241), sexually transmitted infections, 16.5% (68/411), HIV infection, 2.7% (11/411), unwanted pregnancy, 9.5% (39/411) and depression 19.2% (431/2241). Most survivors (89.7%) did not receive any postviolence medical or psychological support.

    Conclusions: Systemic war-related SGBV was prevalent in Tigray, with gang-rape as the most common form of sexual violence. Immediate medical and psychological care, and long-term rehabilitation and community support for survivors are urgently needed and recommended.

    Keywords: community-based survey; health policy; injury; public health.

    https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/37479499

    #viols #viol_de_guere #Tigray #Ethiopie #guerre #conflit_armé #femmes #filles #genre #article_scientifique #statistiques #chiffres

    Un article du Washington Post sur ce sujet (#paywall):
    https://www.washingtonpost.com/world/2023/11/26/ethiopia-tigray-rape-survivors-stigma

  • En Ethiopie, l’exode des médecins du Tigré, épuisés par deux ans de guerre civile
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2023/09/14/en-ethiopie-l-exode-des-medecins-du-tigre-epuises-par-deux-ans-de-guerre-civ

    En Ethiopie, l’exode des médecins du Tigré, épuisés par deux ans de guerre civile
    Après avoir travaillé sans relâche et sans salaire pendant le conflit, de nombreux soignants abandonnent les hôpitaux de la région pour exercer dans des cliniques à l’étranger ou rejoindre des ONG.
    Par Noé Hochet-Bodin(Addis-Abeba, envoyé spécial)
    A l’entrée de l’hôpital Ayder de Makalé, le plus grand du Tigré, les listes accrochées sur un tableau en liège ne sont pas des annonces d’embauche. Les hôpitaux de cette région du nord de l’Ethiopie auraient pourtant bien besoin de renfort en ces temps de reconstruction d’après-guerre. Hélas, il s’agit au contraire des noms de la centaine de médecins qui ont démissionné, abandonné l’hôpital et, le plus souvent, quitté la province.
    Après deux années de guerre civile (2020-2022) marquées par le blocus de la région, les pénuries de médicaments, l’occupation et la destruction de l’ensemble des structures de santé, le Tigré en paix fait face à une nouvelle menace : l’exode de ses soignants. La faculté de médecine de l’hôpital Ayder indique que 67 des 190 chirurgiens spécialisés de la région ont profité de la réouverture des frontières, après les accords de paix de novembre 2022, pour fuir un Tigré en ruines. Soit plus d’un tiers. En tout, 221 médecins ont quitté leur poste.« Le personnel de l’hôpital Ayder a travaillé sans relâche pendant deux ans sans être payé. Il a fait preuve d’un dévouement et d’une compassion incroyables, mais il est maintenant à bout. Tous sont épuisés, démoralisés et commencent à quitter l’hôpital », constate le directeur de l’établissement, Kibrom Gebreselassie, en guise d’appel à l’aide.
    Après le temps des dévastations, le Tigré se relève à peine. Pendant la guerre, l’hôpital Ayder fonctionnait « à 15 % de ses capacités », selon Kibrom Gebreselassie. Plus généralement, 70 % des structures de santé ont été « pillées » à travers la région, d’après Médecins sans frontières (MSF). Si, depuis les accords de paix, une partie du budget, dont les salaires, est de nouveau versée par le gouvernement fédéral, les médecins n’ont pas cessé de fuir.« C’est une tendance que nous avons du mal à contrôler », reconnaît Amanuel Haile, directeur du bureau régional de santé, qui date à janvier le début de l’exode, suite à la reprise des liaisons aériennes à Makalé, la capitale du Tigré : « Certains de nos meilleurs spécialistes partent pour travailler dans des cliniques privées en Europe et aux Etats-Unis ou dans des ONG, notamment au Somaliland, au Rwanda et au Soudan du Sud. »
    Les médecins choisissent l’exil avant tout pour des considérations financières, afin de régler leurs dettes après dix-huit mois sans revenus ni compensations. Kahsay Hailu (à sa demande, son identité a été changée) fut chirurgien pendant plus de douze ans à Ayder. Formé à Makalé, il doit tout à cet hôpital. Il a pourtant fait le choix de fuir au Canada, en mars, accompagné de sa femme et de ses trois enfants. « J’ai une famille à charge, je ne peux pas rester sans salaire ou presque dans un établissement qui ne fonctionne plus », justifie-t-il. En Ethiopie, un chirurgien du secteur public gagne en moyenne 230 euros par mois, mais jusqu’à 20 fois plus s’il travaille pour des agences onusiennes ou des ONG.
    Certes, il y a la culpabilité de laisser une province au bord du précipice, confrontée à une recrudescence de cas de violences sexuelles, de cancers et de VIH. Mais ces médecins déserteurs font aussi face à un constat d’impuissance. « J’ai le sentiment de m’être sacrifié deux ans pour soigner les miens alors que nous n’avions rien, pas de salaire, pas d’électricité, même pas de gants en plastique, ni de nourriture pour les patients », précise Kahsay Hailu.« Je ne les juge absolument pas », rassure Amanuel Haile, qui prétend que tout sera fait pour accueillir de nouveau les médecins en exil qui souhaitent retrouver leur poste. En attendant, la qualité des soins en pâtit. L’unique spécialiste de chirurgie abdominale étant parti, il faut se rendre à Addis-Abeba pour recevoir ce type de soins. De même pour la chirurgie vasculaire. « On fait du bricolage, ironise le chirurgien Fasika Amdeselassie. On est sous l’eau, ma liste d’attente a triplé depuis le départ de mes collègues. »
    Ce cadre de l’hôpital Ayder sait que les troubles de stress post-traumatique constituent une autre raison du départ des médecins tigréens. Pour les traiter, il a mis en place une petite structure, baptisée « Haqi », qui propose un soutien psychologique à l’attention des professionnels de santé qui se trouvaient en première ligne pendant la guerre. « Les dégâts psychologiques sont colossaux, la pression intense, et nous n’avons quasiment personne pour en parler, car le Tigré ne compte que trois psychiatres pour 6 millions d’habitants », dit-il.Si les acteurs humanitaires ont fait leur retour au Tigré pour soutenir un système de santé chancelant, il y a peu de chances que les médecins exilés reviennent rapidement. « Le budget alloué par le ministère de la santé a diminué d’un tiers par rapport au niveau d’avant-guerre », confie, désabusé, un médecin qui souhaite garder l’anonymat. De plus, la lente démobilisation des forces armées du Tigré et l’état d’urgence dans la région voisine de l’Amhara font craindre la résurgence des affrontements. « Les perspectives politiques sont trop sombres pour espérer le retour de nos collègues, assure Fasika Amdeselassie. Si la paix n’est pas entérinée prochainement, nous n’avons aucune chance de voir nos médecins rentrer. »
    Noé Hochet-Bodin(Addis-Abeba, envoyé spécial)

    #COvid-19#migrant#migration#tigre#ethiopie#conflit#crise#humanitaire#medecin#migrationqualifiee#santementale#exil#postcovid

  • Migrants tués en Arabie saoudite : l’Ethiopie annonce une enquête conjointe
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/08/22/migrants-tues-en-arabie-saoudite-l-ethiopie-annonce-une-enquete-conjointe_61

    Migrants tués en Arabie saoudite : l’Ethiopie annonce une enquête conjointe
    L’Arabie saoudite, elle, conteste les conclusions d’un rapport affirmant que ses gardes-frontières auraient tué des « centaines » de migrants éthiopiens.
    Le Monde avec AFP
    Le gouvernement éthiopien a annoncé, mardi 22 août, qu’il allait mener une enquête conjointe avec l’Arabie saoudite, après la publication, la veille, d’un rapport de Human Rights Watch (HRW) accusant des gardes-frontières saoudiens d’avoir tué des « centaines » de migrants éthiopiens entre mars 2022 et juin 2023. « Le gouvernement éthiopien enquêtera rapidement sur l’incident en collaboration avec les autorités saoudiennes », a annoncé le ministère des affaires étrangères dans un communiqué publié sur le réseau social X (anciennement Twitter). « A ce stade critique, il est fortement recommandé de faire preuve de la plus grande retenue et de ne pas faire de déclarations inutiles jusqu’à ce que l’enquête soit terminée », ajoute le ministère, assurant que « les deux pays, malgré cette malheureuse tragédie, entretiennent d’excellentes relations de longue date ». Dans son rapport, l’ONG affirme que les gardes-frontières saoudiens ont tué des « centaines » de migrants éthiopiens qui tentaient de pénétrer dans la riche monarchie du Golfe via la frontière avec le Yémen, entre mars 2022 et juin 2023.
    Les autorités saoudiennes contestent les faits rapportés par l’ONG. Une source gouvernementale a affirmé à l’Agence France-Presse (AFP) que ceux-ci sont « infondés et ne reposent pas sur des sources fiables ». « La France suit étroitement le respect des droits de l’homme en Arabie saoudite et au Yémen », souligne le ministère des affaires étrangères français dans une déclaration à l’AFP. « Nous abordons ces questions avec les autorités saoudiennes, y compris au plus haut niveau, et les appelons au respect du droit international et à la protection des populations civiles », a ajouté le Quai d’Orsay.Peter Stano, porte-parole du chef de la diplomatie de l’Union européenne, Josep Borrell, a salué mardi « l’annonce par le gouvernement éthiopien d’une enquête conjointement avec les autorités d’Arabie saoudite » à la suite de ces accusations qui suscitent l’« inquiétude ». « Nous soulèverons cette question avec les autorités d’Arabie saoudite et aussi avec les autorités houthistes de facto au Yémen », a ajouté M. Stano, lors d’un point presse à Bruxelles. Les Etats-Unis, partenaires de longue date de la monarchie du Golfe, ont également appelé à l’ouverture d’une enquête. « Nous avons fait part de nos inquiétudes concernant ces allégations au gouvernement saoudien », a précisé un porte-parole du département d’Etat. « Nous appelons les autorités saoudiennes à conduire une enquête approfondie et transparente et à respecter leurs obligations en vertu du droit international », a-t-il ajouté.Stéphane Dujarric, porte-parole du secrétaire général de l’ONU, a par ailleurs jugé le rapport de HRW « très inquiétant ». « Je sais que notre bureau des droits humains est au courant de la situation et a eu des contacts [sur place], mais il est très difficile pour lui de confirmer la situation à la frontière », a-t-il déclaré.
    Le rapport s’appuie sur des entretiens avec trente-huit migrants éthiopiens qui ont tenté de passer en Arabie saoudite via le Yémen, sur des images satellites, des vidéos et des photos publiées sur les réseaux sociaux « ou recueillies auprès d’autres sources ». Les personnes interrogées ont parlé d’« armes explosives » et de tirs à bout portant, les gardes-frontières saoudiens demandant aux Ethiopiens « sur quelle partie de leur corps ils préféreraient que l’on tire ». Ces migrants racontent des scènes d’horreur : « Femmes, hommes et enfants éparpillés dans le paysage montagneux, gravement blessés, démembrés ou déjà morts », relate HRW.« Ils nous tiraient dessus, c’était comme une pluie » de balles, témoigne une femme de 20 ans, originaire de la région éthiopienne d’Oromia, citée par l’ONG. « J’ai vu un homme appeler à l’aide, il avait perdu ses deux jambes », mais, raconte-t-elle, « on n’a pas pu l’aider parce qu’on courait pour sauver nos propres vies ». HRW appelle Riyad à « cesser immédiatement » le recours à la force meurtrière contre des migrants et demandeurs d’asile, exhortant l’ONU à enquêter sur ces allégations. Des centaines de milliers d’Ethiopiens travaillent en Arabie saoudite, empruntant parfois la « route de l’Est » reliant la Corne de l’Afrique au Golfe, en passant par le Yémen, pays pauvre et en guerre depuis plus de huit ans.

    #Covid-19#migrant#migration#arabiesaoudite#yemen#ethiopie#frontiere#mortalite#ONU#droit#violence#asile#routemigratoire#corneafrique#postcovid

  • En Arabie Saoudite, les gardes-frontières auraient abattu des « centaines » de migrants éthiopiens https://www.liberation.fr/international/moyen-orient/en-arabie-saoudite-les-gardes-frontieres-auraient-abattu-des-centaines-de

    https://youtu.be/f90vwqCYU1c?feature=shared

    Un #massacre « à l’abri du regard du reste du monde ». Les gardes-frontières saoudiens ont tué depuis l’an dernier des « centaines » de migrants éthiopiens qui tentaient de pénétrer dans la riche monarchie du Golfe passant par sa frontière avec le Yémen, a dénoncé ce lundi 21 août l’ONG #Human_Rights_Watch (HRW). « Les autorités saoudiennes tuent des centaines de migrants et de demandeurs d’asile dans cette zone frontalière reculée », a déclaré dans un communiqué Nadia Hardman, spécialiste des migrations à HRW.

    Des centaines de milliers d’#Ethiopiens travaillent en #Arabie_Saoudite, empruntant parfois la « route de l’Est » reliant la Corne de l’Afrique au Golfe, en passant par le Yémen, pays pauvre et en guerre depuis plus de huit ans. Le meurtre « généralisé et systématique » des #migrants éthiopiens pourrait même constituer un #crime_contre_l’humanité, estime l’ONG. « Nous parlons d’un minimum de 655 personnes, mais il est probable qu’il s’agisse de milliers », a déclaré Nadia Hardman à la BBC. « Ce que nous avons documenté, ce sont essentiellement des massacres, a-t-elle ajouté. Les gens ont décrit des sites qui ressemblent à des champs d’extermination avec des corps éparpillés sur les flancs des collines ».

    Les « milliards dépensés » dans le sport et le divertissement « pour améliorer l’image de l’Arabie Saoudite » ne devraient pas détourner l’attention de « ces crimes horribles », a-t-elle fustigé. Les ONG accusent régulièrement Ryad d’investir dans les grands événements sportifs et culturels pour « détourner l’attention » des graves violations des droits humains et la crise humanitaire au Yémen où l’armée saoudienne est impliquée.

    L’année dernière, des experts de l’ONU avaient déjà fait état d’« allégations préoccupantes » selon lesquelles « des tirs d’artillerie transfrontaliers et des tirs d’armes légères par les forces de sécurité saoudiennes ont tué environ 430 migrants » dans le sud de l’Arabie Saoudite et le nord du Yémen durant les quatre premiers mois de 2022. Le nord du Yémen est largement contrôlé par les Houthis, des rebelles que les Saoudiens combattent depuis 2015 en soutien aux forces pro-gouvernementales.

    Pour en arriver à de telles conclusions, Human Right Watch s’appuie sur des entretiens avec 38 migrants éthiopiens ayant tenté de passer en Arabie Saoudite depuis le Yémen, des images satellite et des vidéos et photos publiées sur les réseaux sociaux « ou recueillies auprès d’autres sources ». Les personnes interrogées ont parlé d’« armes explosives » et de tirs à bout portant, les gardes-frontières saoudiens demandant aux Ethiopiens « sur quelle partie de leur corps ils préféreraient que l’on tire ».

    Ces migrants racontent des scènes d’horreur : « Femmes, hommes et enfants éparpillés dans le paysage montagneux, gravement blessés, démembrés ou déjà morts », relate HRW. « Ils nous tiraient dessus, c’était comme une pluie (de balles) », témoigne une femme de 20 ans, originaire de la région éthiopienne d’Oromia, citée par l’ONG. « J’ai vu un homme appeler à l’aide, il avait perdu ses deux jambes », mais, raconte-t-elle, « on n’a pas pu l’aider parce qu’on courrait pour sauver nos propres vies ».

    Auprès de la BBC, plusieurs personnes qui ont tenté de passer la frontière en pleine nuit racontent les scènes d’horreurs. « Les tirs n’ont pas cessé, témoigne Mustafa Soufia Mohammed âgé 21 ans. Je n’ai même pas remarqué qu’on m’avait tiré dessus. Mais lorsque j’ai essayé de me lever et de marcher, une partie de ma jambe m’a échappé ». La jambe de Mustafa a ensuite dû être amputée sous le genou l’obligeant aujourd’hui à marcher avec des béquilles et une prothèse mal ajustée. Zahra [le prénom a été modifié par le média britannique] a, elle, eu tous les doigts d’une main arrachée à cause d’une pluie de balles.

    D’après l’Organisation internationale pour les migrations des Nations unies, plus de 200 000 personnes tentent chaque année ce voyage périlleux qui traverse la mer la Corne de l’Afrique jusqu’au Yémen, pour atteindre l’Arabie saoudite. HRW appelle Ryad à « cesser immédiatement » le recours à la force meurtrière contre des migrants et demandeurs d’asile, exhortant l’ONU à enquêter sur ces allégations.

  • We Must Act Now to Avert a Humanitarian Catastrophe in Eastern Chad: IOM DDG Ugochi Daniels | International Organization for Migration
    https://www.iom.int/news/we-must-act-now-avert-humanitarian-catastrophe-eastern-chad-iom-ddg-ugochi-dani

    We Must Act Now to Avert a Humanitarian Catastrophe in Eastern Chad: IOM DDG Ugochi Daniels
    Geneva/ N’Djamena – The window of opportunity to avert a humanitarian catastrophe in Eastern Chad is rapidly closing. As the situation in Sudan, and particularly in Darfur deteriorates, I have witnessed firsthand the severe impact this senseless violence has had on ordinary civilians here in Chad. 
    The knock-on effects of the crisis in Sudan could have serious humanitarian implications on neighbouring countries particularly Chad which was already responding to a significant displacement crisis before this influx which was poorly resourced. I have heard stories of former teachers, nurses, and traders whose lives were upended by the fighting, who have had to return to Chad, and now need support to rebuild their lives. I appeal to the leaders of the Sudanese Armed Forces and the Rapid Support Forces to cease hostilities, restore calm, and begin a dialogue to resolve the crisis. 
    IOM estimates that 20 per cent (45,000 persons) of the 225,000 people displaced into Chad are Chadian returnees and stranded migrants from South Sudan, Ethiopia, Nigeria, Uganda, Niger, and Uganda. While a few of them have been able to integrate into local communities, the majority live in extremely precarious conditions across 25 sites, including a high school in the border town of Adré.  The first responders to this humanitarian crisis were local community members who provided returnees with space to settle, blankets to shelter themselves and food. Despite their already limited resources, they have shown solidarity and generosity to their brothers and sisters in need. 
    But today, as more people continue to arrive in Eastern Chad, local communities and authorities are reaching their breaking point.Since the beginning of the crisis in Sudan, IOM has been on the ground to support the Chadian Government’s efforts to respond to the situation. We are helping returnees meet some of their immediate needs through shelter, water trucking and unconditional cash assistance. We have also set up a humanitarian evacuation mechanism to enable stranded migrants to return home and reunite with their families.   But this is just a drop in this ocean of despair. The looming rainy season is already threatening to cut off entire communities, as rivers and wadis are filling with water, thus hindering the delivery of much-needed humanitarian aid.

    #Covid-19#migrant#migration#tchad#deplaceinterne#conflit#crise#humanitaire#sante#soudan#ethiopie#nigeria#ouganda#niger#migrationretour#postcovid

  • Heineken en Éthiopie. Les vies sacrifiées des paysans expropriés
    Afrique XXI > Olivier van Beemen > 27 février 2023
    https://afriquexxi.info/Heineken-en-Ethiopie-Les-vies-sacrifiees-des-paysans-expropries

    Enquête · Il y a dix ans, un faubourg de la capitale éthiopienne a été rasé pour faire place à une nouvelle brasserie de la firme néerlandaise Heineken. Un accaparement de terres qui n’a profité à personne dans le pays. Cinq agriculteurs qui ont tout perdu racontent leur calvaire. (...)

  • Françafrique : Macron ne fait même plus semblant | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/international/080223/francafrique-macron-ne-fait-meme-plus-semblant

    Par Justine Brabant. Le président clame à qui veut l’entendre qu’il est en train d’écrire une nouvelle page des relations entre la France et le continent africain. Il aura pourtant rencontré, en l’espace d’un mois, trois des dirigeants incarnant le mieux le vieux monde rance de la Françafrique et un chef de gouvernement accusé de crimes contre l’humanité.

    #France #Afrique #Françafrique #Gabon #Congo #Éthiopie #Tchad

  • Se brancher à l’eau autrement
    https://metropolitiques.eu/Se-brancher-a-l-eau-autrement.html

    Face à un réseau conventionnel défaillant, les habitants des villes éthiopiennes ont recours à des systèmes alternatifs pour se procurer de l’eau potable. Cet article met en lumière la multiplicité des stratégies déployées, individuelles ou collectives suivant les contextes urbains. Un accès inéquitable au réseau conventionnel L’Éthiopie est l’un des pays au monde avec le plus grand nombre d’habitants n’ayant pas accès à l’eau potable (UN-Habitat 2017). L’accès aux #services_urbains de base y est encore #Terrains

    / #Éthiopie, accessibilité, #eau, #infrastructure, services urbains, #alternatives, #urbanisation, pays du (...)

    #accessibilité #pays_du_Sud
    https://metropolitiques.eu/IMG/pdf/met_pinet_et-al.pdf

  • Scorched Earth: Using NASA Fire Data to Monitor War Zones - bellingcat
    https://www.bellingcat.com/resources/2022/10/04/scorched-earth-using-nasa-fire-data-to-monitor-war-zones

    NASA’s Fire Information for Resource Management System, or FIRMS, is a tool that detects active fires and thermal anomalies. It has long been used to track wildfires, including the forest fires that blazed across southern Europe this past summer.

    But missile launches, heavy artillery fighting and explosions also generate fires and heat that can be detected.

  • Ethiopie, la légende #Luciano_Vassalo n’est plus

    https://africafootunited.com/ethiopie-carnet-noir-la-legende-luciano-vassalo-nest-plus

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    LUCIANO VASSALLO : IL MAGNIFICO SUPERSTITE

    L’incredibile storia di Luciano Vassallo, italo-eritreo, protagonista assoluto della vittoria dell’Etiopia alla Coppa d’Africa del 1963, miglior calciatore della competizione, miglior calciatore etiope della storia, definito il «Di Stefano africano». Una bellissima storia di discriminazione razziale nell’Eritrea colonia italiana, di straordinari successi sportivi, di fuga dalla dittatura di Menghistu, fino alla nuova vita costruita a Roma. Di seguito la versione italiana del pezzo uscito oggi su France Football.

    http://www.antoniofelici.it/2013/01/luciano-vassallo-il-magnifico-superstite.html

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    Luciano Vassallo e Coppa Africa

    Nel 1968, prima di lasciare definitivamente l’Eritrea, dove sono nato e cresciuto, seguii per l’ultima volta come redattore sportivo del Quotidiano Eritreo la Coppa Africa di calcio, che si disputava in quello che era allora l’Impero Etiopico di Haile Sellassie I, Negus Neghesti, Re dei Re, Leone Conquistatore della Tribù di Giuda. Ricordo che la squadra del Congo era venuta all’Asmara per il girone di qualificazione e il suo gioco mi aveva incantato. Ricordo un giovane giornalista congolese con un nome che in italiano era femminile che era sorpreso di essere trattato alla pari da un collega bianco. Ricordo che le speranze etiopiche erano grandi perché sei anni prima la squadra di casa aveva vinto la finale contro l’Egitto ad Addis Abeba per 4-2 e il capitano aveva ricevuto il trofeo dalle mani dell’Imperatore. Quel capitano era il mio amico Luciano Vassallo, che aveva speso inutilmente qualche ora a tentare di insegnarmi come toccare la palla con la parte esterna del piede, da fermo, per spostarla lateralmente e lasciare in asso il difensore avversario. Era una mossa che aveva inventato lui e della quale era molto fiero. Non riuscii mai a farla come aveva tentato di insegnarmi.

    In quella Coppa Africa, vinta dalla squadra congolese che aveva un attacco brillante e un portiere fenomenale, l’Etiopia non arrivò alla finale, dovette accontentarsi del quarto posto, ma Luciano Vassallo fu votato miglior giocatore del torneo.

    Negli anni successivi ci fu la diaspora degli italiani dell’Eritrea. La guerra civile che covava dal 1962, anno in cui l’Etiopia aveva seppellito la Federazione e incamerato l’Eritrea fra le province dell’Impero, aveva portato alla rivoluzione e al terrore rosso del colonnello Menghistu Hailemariam. Io, che dal giornale avevo un osservatorio privilegiato, me n’ero andato già nel 1968, altri avevano tenuto duro fino al 1973-74, ma poi chi non se l’era sentita di unirsi ai partigiani eritrei e di andare nella boscaglia a combattere i carri armati e i jet etiopi aveva dovuto comunque prendere la strada dell’esilio. Fra loro Luciano Vassallo.

    Non ne avevo saputo più niente fino a quando, la settimana scorsa, Emanuela Curnis, già console d’Italia a Città del Capo, mi ha mandato da New York la copia di un ritaglio di giornale con la nota: “Ho appena letto l’articolo allegato e non ho potuto non pensare al Ciro asmarino che potrebbe avere anche conosciuto questa persona”. Grazie Emanuela.

    Eccovi dunque la storia di Luciano Vassallo come è stata pubblicata dall’Avvenire il 31 gennaio 2013:

    Vassallo, il re del gol cancellato dall’Etiopia –

    La vicenda sportiva e umana di un eritreo (figlio di un ufficiale italiano) che negli anni Sessanta era il capitano della nazionale etiope di cui è ancora il recordman con 104 gare disputate e 90 gol segnati –

    Massimiliano Castellani –
    Avvenire del 31 gennaio 2013 –

    Girma alza le braccia sotto il cielo di Nelspruit (Sudafrica). Esulta felice, quasi incredulo per il gol segnato ai campioni d’Africa dello Zambia. Grazie a quella rete, l’Etiopia è riuscita a pareggiare la sua prima (e sola) partita di Coppa d’Africa dopo 31 anni di assenza dalla competizione continentale.

    Spento il televisore il nostro primo pensiero è stato: chissà se Girma ha mai sentito parlare di Luciano Vassallo? Un eroe dimenticato del calcio africano, un capitano, come Girma, la “bandiera” di quella nazionale che riportò ad Addis Abeba l’unica Coppa d’Africa conquistata dall’Etiopia. Il perche di questa «storia insabbiata», ce lo racconta la viva voce del 77enne Luciano Vassallo dalla sua casa di Marcellina (Roma).

    «I ricordi mi fanno stare ancora male, ma questa storia vorrei tanto che arrivasse al cuore dei giovani etiopi e anche di quelli italiani…».

    Quella di Luciano è stata una giovinezza e un’esistenza tutta in salita. «Nostra madre Mebrak (“Luce” in italiano) ad Asmara mi mise al mondo nel 1935 – l’anno dell’invasione delle truppe italiane – e cinque anni dopo nacque il mio “fratellino” Italo», comincia il racconto in un italiano che conserva forte l’accento dell’«eritreo, cattolico apostolico e romano», dice orgoglioso.

    «Nostro padre, Vittorio Vassallo, era un ufficiale dell’esercito coloniale di Mussolini, ma noi non lo abbiamo mai conosciuto. Di suo c’è rimasto solo il cognome. Così la mamma, tra stenti e mille rinunce, ci ha cresciuti da sola povera donna». L’infanzia di due ragazzini meticci, orfani di un padre di cui si persero subito le tracce e che vennero emarginati fin dai banchi di scuola. «Gli etiopi ci consideravano dei “bastardi”. Con gli italiani era la stessa storia. Per via delle leggi razziali anche i coloniali ci trattavano con disprezzo. Eravamo additati come i “figli delIa colpa”. Sfottuti e umiliati tutti i giorni, così in terza elementare ho abbandonato gli studi».

    Quello che poi ha appreso e gli è servito nella vita gliel’ha insegnato la strada, dove cominciò presto a tirare calci ad un pallone fatto di stracci. «Ma il calcio è sempre venuto dopo il lavoro. Grazie a un milanese, un certo Cattaneo, entrai, ragazzino, nell’officina delle Ferrovie e imparai il mestiere di meccanico. Finito il turno mi allenavo con una formazione di soli meticci, la Stella Asmarina. Il nostro “meticciato” si riconosceva già dalla maglia: era nera con una striscia sottile, bianca, che indicava il colore della pelle del genitore che ci aveva generati».

    Dalla squadra dei meticci al Gaggiret e poi in una formazione di italiani, il Gs Asmara. “Un anno eravarno arrivati a un passo dalla vittoria del titolo nazionale, ma la federazione fece di tutto per impedirlo e ci riuscì». In quel campionato al quale partecipavano 12 squadre, Vassallo ci tiene a sottoIineare che «c’erano tanti calciatori di notevole livello tecnico che non avrebbero sfigurato nel campionato italiano. Uno di questi era mio fratello Italo, la punta di diamante dell’Hamasien». Due fratelli unitissimi fuori, ma mai in campo, almeno con le squadre di club si ritrovarono sempre da avversari. Poi, finalmente, assieme nella nazionale del 62. «Eravamo una squadra fortissima come non si e più rivista in Etiopia. Io e Italo disputammo una Coppa d’Africa eccezionale e nella finale di Addis Abeba, vinta contro l’Egitto, due dei 4 gol (la gara finì 4-2) li segnammo noi, i fratelli Vassallo». Una rete del bomber ltalo e una di Luciano, il capitano, il primo a salire sul palco delle autorità per ricevere la Coppa direttamente dalle mani dell’Imperatore, sua maestà Haile Selassie (foto). «Un grande uomo Selassie, fatto fuori (scomparso misteriosamente il 27 agosto 1975) da quelle “iene” del regime militare, il terrorismo rosso scatenato da Menghistu Haile Mariam».

    Menghistu era anche il nome del calciatore che segnò il 4° gol nella finale della Coppa d’Africa del ’62. «E infatti per l’omonimia con quell’aguzzino, nell’albo ufficiale tutti e 4 i gol adesso risultano realizzati da Menghistu. Hanno scandalosamente cancellato i nostri nomi dalle statistiche dei marcatori». Luciano Vassallo a tutt’oggi invece sarebbe il calciatore con più presenze nella nazionale d’Etiopia. «Ho indossato quella maglia 104 volte e sono anche il miglior marcatore di sempre con 90 gol – ci tiene a precisare -. Era stato eletto anche miglior giocatore della Coppa d’Africa del ’68, ma anche quel riconoscimento non risulta più negli annali della federazione. Il regime del resto voleva cancellarmi anche fisicamente. Cominciarono, complice l’allenatore Milosevic, con il togliermi il posto di lavoro al cotonificio di Dire Dawa, a 1.400 km da Asmara. Lavoravo duro e giocavo con la squadra locale per mandare i soldi a casa a nostra madre. Percepivo uno stipendio da 630 dollari al mese, quando un etiope a malapena arrivava a 40». Soldi guadagnati lavorando sodo e reinvestiti ad Addis Abeba per costruire una casa con annessa officina di quasi 3mila metri quadrati.

    «Mi hanno confiscato tutto, ma prima mi fecero arrestare dalle “squadracce della morte”. Quelle arrivavano con una Volkswagen verdolina, ti caricavano su e poi sparivi per sempre. A migliaia sono finiti così… Grazie a Dio mi sono salvato. In carcere un militare che era mio tifoso, mi ha riconosciuto e ha fatto in modo che potessi fuggire in Italia”. Nel ’70 Luciano lascia per sempre il suo Paese per venire in quello dell’uomo che non ha mai potuto chiamare papà. «Ero troppo vecchio per continuare a giocare, però sentivo di poter dare ancora qualcosa al calcio e così mi sono iscritto al corso per allenatori a Coverciano». Suoi compagni di corso erano Cesare Maldini, Luis Vinicio e Armando Picchi, i quali trovarono subito una panchina in Serie A, mentre l’eritreo Vassallo dovette accontentarsi di aprire una scuola calcio ad Ostia.

    http://www.ethioroma.com/luciano-vassallo-e-coppa-africa

    #football #Erythrée #Ethiopie #Luciano_Vassallo #métisse #métissage #Italie_coloniale

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  • #Tempo_di_uccidere (#film)
    Le Raccourci

    Etiopia, 1936: il Tenente Silvestri soffre di un terribile mal di denti e intraprende un viaggio per raggiungere l’accampamento militare più vicino munito di servizi ospedalieri. Durante il percorso, incontra un’indigena e, incapace di controllarsi di fronte alla sua bellezza, la violenta. Silvestri fa fuoco nel tentativo di tener lontane alcune bestie feroci ma la donna viene ferita a morte da un proiettile vagante, al che il tenente, per non incorrere in un processo militare, ne nasconde il cadavere. Raggiunto l’ospedale militare egli viene colto dal rimorso per il terribile incidente e, via via roso dal sospetto di essere stato contagiato dalla lebbra durante lo stupro, perde la ragione.

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    L’action se déroule pendant l’invasion de l’Éthiopie par l’Italie en 1936.

    Ethiopie, 1936. Parce qu’il a raté un virage avec son camion, le jeune lieutenant Enrico Silvestri se retrouve à pied, et prend un raccourci qui le conduit dans la brousse. Il y rencontre une jeune indigène, Mariam, qu’il viole. Il la tue accidentellement, et l’enterre sur place. La terreur d’être découvert le transforme en animal traqué : il s’enfuit, prêt à tout pour ne pas être pris. Une angoisse proche de la névrose s’empare de lui quand il croit avoir contracté la lèpre...

    https://it.wikipedia.org/wiki/Tempo_di_uccidere_(film)
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Le_Raccourci

    Le film est tiré du roman homonyme de #Ennio_Flaiano :

    «Quando la campagna sarà finita non po­chi si precipiteranno a scrivere dei libri» annota Flaiano nel febbraio del 1936, men­tre, sottotenente del Genio, partecipa alla guerra d’Etiopia. «Già immagino il con­tenuto e i titoli: “Fiamme nel Tigrai”, “Africa te teneo”, “Tricolore sull’Amba”!». Non a caso, attenderà dieci anni prima di rica­vare da quella sofferta esperienza – fatta di sete e stanchezza, caldo e paura – un ro­manzo. Un romanzo sconcertante, tanto più in pieno clima neorealista, che ha come sfondo non la «terra ideale dei films Para­mount», ma il paese triste, ingrato, ambi­guo, sfuggente delle iene (e che dunque cela di necessità «qualcosa di guasto»), e al centro una vicenda «assolutamente fan­tastica»: un delitto futile e fatale, che scate­na in chi l’ha commesso un corrosivo deli­rio. E gli trasmette il morbo di un «impe­ro contagioso», di un senso di colpa in­scindibile dal rancore, di una pietà com­mista a disprezzo per un mondo ignoto, l’Africa – «lo sgabuzzino delle porcherie», dove gli occidentali vanno «a sgranchirsi la coscienza».

    https://www.adelphi.it/libro/9788845935152
    #livre

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    #cinéma #Ethiopie #colonialisme #colonialisme_italien #colonisation #viol

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  • Violence coloniale, violence de guerre, violence totalitaire

    The conquest of Ethiopia was the only colonial enterprise overseas carried out by a totalitarian power. Miss-timed in history, it was a war of expansion taking place in a period when decolonization was already underway in several empires. Being a colonial war, it was also a national and total war due to the range of Italian mobilization on the military, political and ideological levels. The question remains : was it war of Fascism or a Fascist war ? This query is dealt with in the present article as seen through the prism of violence. The object is not so much to present an inventory of crimes and massacres perpetuated in Abyssinia – well-known thanks to the historiography of the last thirty years – but to examine the effects of the arbitrariness of Fascist totalitarianism and the “permanent exception” that was colonial rule. Already tested on a large scale by Fascism in Lybia and Somalia, the violence employed in Ethiopia was first a means, as in other colonial contexts, to cause submission and to dominate. However, in studying these administrative modalities from the top echelons of the state to the implementers, it seems that violence was not only a means, but also a value in itself.

    https://www.cairn.info/revue-revue-d-histoire-de-la-shoah-2008-2-page-431.htm?contenu=resume

    #impérialisme #Italie #colonialisme_italien #Italie_coloniale #histoire #colonialisme #colonisation #Italie #violence #violence_coloniale #guerre #violence_totalitaire #Ethiopie #fascisme #domination #arbitraire #exception_permanente

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  • “Ti saluto, vado in Abissinia”. Parma e Africa Orientale tra colonialismo e post-colonialismo. Archivio, didattica e ricerca storica

    L’articolo presenta il progetto di costruzione di un archivio sulla memoria coloniale e post-coloniale locale. Condotto dall’Istituto della Resistenza e dell’età contemporanea di Parma e dall’ong #Parma_per_gli_altri, il progetto ha l’obiettivo di tracciare – attraverso fotografie, testimonianze e documenti vari – i rapporti recenti tra la città e le ex-colonie italiane del Corno d’Africa, soprattutto Etiopia ed Eritrea. Infine, sulla base del materiale raccolto, sono stati elaborati percorsi didattici proposti alle scuole di secondo grado.

    https://e-review.it/vitale-archivio-colonialismo

    #Parme #Parma #Italie #colonialisme #colonisation #mémoire #mémoire_coloniale #Ethiopie #Erythrée

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