• Design di genere, ripensare le città tra cura del paesaggio e delle aree verdi

    Aree verdi da attraversare da sole, sentendosi sicure. Paesaggi in abbandono che tornano ad essere tutelati per la loro biodiversità. La cura delle nostre città passa per le questioni di genere: un convegno organizzato dall’associazione «Donna, immagine città» spiega perché.

    Ripensare la città con uno sguardo nuovo, che parti da un linguaggio più ampio per arrivare ai diversi comparti che possono fare dei posti che viviamo, luoghi di benessere per tutte e tutti. Da questi presupposti si è mosso il convegno Città e design di genere. Linguaggio inclusivo, organizzata a Roma, all’Europa Experience, dall’associazione Donna, immagine città lo scorso 22 marzo.

    All’interno dell’evento che ha trattato in maniera estesa, e attraverso più panel, le diverse sfumature che riguardano la città e la presenza delle donne all’interno di essa partendo dal linguaggio, sono emersi spunti interessanti per quel che riguarda nello specifico l’urbanistica e le connessioni con il paesaggio, il verde pubblico e la viabilità ciclabile e pedonale: tutti aspetti strettamente connessi con il tema della conversione ecologica che necessitano però di un dialogo con le tematiche di genere.
    Aree verdi più sicure

    “Quando ragioniamo come progettisti e pianificatori delle città – ha detto nel corso dell’evento Barbara Negroni, consigliera nazionale CONAF Consiglio dell’Ordine Nazionale dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali – dobbiamo farlo in modo più complesso”.

    Oltre ad alcuni aspetti tecnici che riguardano ad esempio le piante da introdurre nelle aree verdi, gli interventi di depavimentazione e tutte quelle opere messe in campo per far fronte ed evitare le isole di calore, ci sono altri considerazioni da fare per rendere la città accogliente per tutte e tutti.

    “Se abbiamo bisogno di aree verdi e piazze, come spazi interconnessi tra di loro, abbiamo anche la necessità che la città diventi il più possibile vivibile da un punto di vista della sicurezza. Siamo abituati ad avere un’urbanistica e un disegno della città che vede una mobilità lineare, molto veloce, perché fatta più per gli uomini che compiono il tragitto casa-lavoro. Viceversa, le donne si muovono in maniera trasversale nella città perché fanno tante cose: lavorano ma portano anche bambine e bambini a scuola, fanno la spesa, si occupano del lavoro di cura delle persone anziane”.

    “A Casalecchio di Reno – dove Negroni è assessora alla Qualità dell’Ambiente e del Territorio – abbiamo fatto un’analisi di quella che è la mobilità ciclabile delle persone che vanno a lavorare in bicicletta: abbiamo così visto che gli uomini seguono le piste ciclabili in maniera retta sempre seguendo le strade principali, le donne invece vanno attraverso le piste o camminando all’interno delle città, per raggiungere i luoghi di destinazione”.

    “Nel ripensare le aree verdi non dobbiamo quindi considerare solo le specie più adatte per le alte temperature, che permettano di fare ombra, ma dobbiamo andare anche a ragionare sul loro disegno per dare trasparenza, così che siano anche permeabili alla vista perché quando le attraversiamo, dobbiamo avere una percezione di sicurezza. Nel momento in cui riusciamo a dare una trama verde alla città, che sia connessa e trasparente di fatto diventa una città sicura”.

    Quella della connessione delle aree verdi, come fa notare anche Negroni, è anche un tema di equità sociale: poter usufruire di aree verdi connesse tra loro attraversi piste ciclabili o percorsi pedonali è infatti un diritto fondamentale di tutti, e non deve restare solo appannaggio di chi vive nei quartieri più avvantaggiati della città, magari perché maggiormente centrali.

    E se l’esperienza di urbanistica di genere a Bologna, già raccontata su EconomiaCircolare.com, o la riprogettazione in corso a Casalecchio di Reno possono rappresentare degli esempi positivi in cui lo spazio urbano torna ad essere attraversato dalle persone, in modo più consapevole e sicuro e le aree verdi si riprendono il giusto spazio, l’altro lato della medaglia vede l’Italia detenere il record di consumo di suolo in Europa, con la cementificazione di 2,4 metri quadrati al secondo, secondo l’ultimo report sul consumo di suolo dell’Ispra relativo al 2023.

    Il terzo paesaggio

    “Nel suolo – ha spiegato Daniela Ducato, innovatrice green e Cavaliere della Repubblica per meriti ambientali – c’è il nostro futuro biologico, e il nostro futuro biologico è proprio nel terzo paesaggio, cioè in quegli spazi in natura che non disegniamo noi”.

    Con l’espressione terzo paesaggio, coniata da Gilles Clément, scrittore, architetto paesaggista ed ingegnere agronomo francese, si intende infatti un luogo che non subisce la progettazione umana, la cui evoluzione è determinata dall’insieme degli esseri biologici che vivono al suo interno. Questi luoghi sono situati ai margine di boschi, strade, fiumi, possono essere di dimensioni modeste, come il bordo di un campo, o il margine di una strada, o più estesi, come un terreno abbandonato dopo lo sfruttamento, ma anche un’ex cava o ex aree industriali dove la natura si è riappropriata dei propri spazi. Questi luoghi non sono spesso considerati dall’opinione pubblica e dalle amministrazioni e sono spessi i primi ad essere sacrificati, asfaltandoli o abbandonando rifiuti, fino a divenire delle vere e proprie discariche a cielo aperto.

    Ducato ha presentato invece il caso virtuoso del Comune sardo di Guspini (Sud Sardegna), il primo in Italia, dove un paesaggio, anzi proprio un terzo paesaggio, ha ottenuto la certificazione di risorsa sanitaria. Il comune, la cui area industriale aveva già ricevuto la certificazione pesticidi free, è stato infatti interessato da un progetto ideato da Ducato stessa, che vede in campo un team di ricerca scientifica con il comune di Guspini, l’Associazione Italiana di medicina forestale, in collaborazione con la Confcommercio Green, università e privati, e si basa sui benefici sulla salute umana apportati dalle medicina forestale, come: abbassamento della glicemia, aumento della concentrazione e dell’attenzione, rilassamento mentale e contrasto dell’insonnia, riequilibrio del tono dell’umore, stimolazione del sistema psiconeuroendrocrino e immunitario.

    Come ha spiegato l’esperta si tratta di un riconoscimento già avvenuto per parchi e giardini ma mai per un terzo paesaggio, quindi per un paesaggio marginale e periferico dove la natura fa da padrona. Ciò a cui spesso non si pensa di queste aree è infatti che non hanno bisogno di essere innaffiate o concimate, ma conservano una preziosissima biodiversità: “Nessun paesaggista al mondo riesce a fare quello che fa la natura”.

    Il modo in cui chiamiamo le cose, si sa, è legato a doppio filo alla percezione che ne abbiamo, e anche per questi luoghi c’è, secondo Ducati, un bias cognitivo: “Spesso sentiamo distanti questi paesaggi, li vediamo brutti, sporchi e cattivi: così consumiamo e maltrattiamo con il nostro linguaggio questi straordinari luoghi di biodiversità, per altro utilizzando un linguaggio violento, che spesso coincide con quello che si ha nei confronti delle donne”.

    Oltre al lavoro con medici, botanici e biologi, a Guspini si è fatto un lavoro anche sulla toponomastica, con l’intento di ridare dignità e identità alle zone industriali. Si sono intitolate 50 strade a donne: “non solo a donne famose ma a donne che hanno infranto tabu, regole, innovatrici, scienziate, ma anche casalinghe, lavandaie, parrucchiere, donne di tutto il mondo che ci hanno aperto delle strade di pensiero. Sono donne non sono nei libri di scuola ma le loro storie sono scritte nei nostri terzi paesaggi”.

    Quella della toponomastica di genere è un tema ricorrenti negli ultimi anni, anche perché rappresenta una nota dolente all’interno delle nostre città. Dopo aver esaminato i nomi di 155.468 strade in 32 grandi città europee, situate in 19 Paesi diversi, la piattaforma Mapping Diversity, sviluppata da Sheldon Studio e voluta da Obc Transeuropa con altri partner dell’European data journalism network, ha rilevato che oltre il 90% delle strade intitolate a persone sono dedicate a uomini bianchi.

    https://economiacircolare.com/design-di-genere-ripensare-citta-cura-paesaggio-aree-verdi
    #genre #terzo_paesaggio #toponymie #toponymie_féministe #femmes #noms_de_rue #Guspini #Italie #Sardaigne #tiers_paysage

    • Strade di Guspini intitolate alle donne. La zona industriale sarà al femminile

      I nomi delle vie saranno tutti al femminile. Lo ha deciso il Comune di Guspini che, per primo in Italia, ha deciso, con una delibera, di dedicare le vie della zona industriale alle donne che hanno aperto metaforicamente nuove strade, non solo nel commercio.

      Lo ha annunciato questa mattina Daniela Ducato, l’imprenditrice premiata come la più innovativa d’Italia, famosa in mezzo mondo per le sue produzioni realizzate con eccedenze e residui vegetali, in occasione della conferenza stampa sulle iniziative ‘green’ di Confcommercio. Si parte da Guspini, ma anche la vicina Arbus è pronta ad approvare una analoga iniziativa. “La toponomastica – ricorda Ducato – è quasi totalmente maschile, le donne sono al 3 per cento nei centri dove la situazione è migliore”. L’imprenditrice quasi non ci credeva. Poi è arrivata la delibera. E la speranza ora è che tanti Comuni seguano la stessa strada. Magari uscendo anche dalle zone industriali. Una richiesta che parte da lontano: la prima proposta fu formulata 30 anni fa. “Chiesi che la toponomastica fosse anche al femminile e che le strade della zona industriale di Guspini fossero intitolate alle donne. Donne pioniere – spiega l’imprenditrice – che hanno aperto la strada ad altre donne e al pensiero di tutti. Avevo perso la speranza: da oggi è realtà”.

      Spazio dunque alle nuove intitolazioni con le strade della zona industriale dedicate a Margherita Hack, la signora delle stelle; Elena Valentini Luzzato, prima italiana a laurearsi in architettura; Francesca Sanna Sulis, pioniera del commercio la cui seta, nel ‘700, varcò i confini dell’Isola; Pasqua Selis Zua, pasionaria ribelle che nel 1868 guidò la rivolta di Su Connotu; Eva Mameli Calvino, madre di Italo, prima donna a conseguire nel 1915 la libera docenza all’Università; Maria Lai, artista d’eccezione che con i suoi fili di stoffa celeste legò tutte le porte del suo paese, Ulassai, per ben 27 chilometri: la sua fu la prima opera di Arte relazione a livello mondiale.

      https://www.sardiniapost.it/cronaca/strade-di-guspini-intitolate-alle-donne-la-zona-industriale-sara-al-fem

    • “Il terzo paesaggio del Comune di Guspini primo in Italia in qualificazione per la medicina forestale. Daniela Ducato ideatrice del progetto” In evidenza

      Abbassamento della glicemia, aumento della concentrazione e dell’attenzione, rilassamento mentale e liberazione dai pensieri ricorrenti (rimuginio, ruminazione mentale) attivazione dei processi che contrastano l’insonnia, riequilibrio del tono dell’umore, stimolazione del sistema psiconeuroendrocrino e immunitario. Sono solo alcuni dei benefici certificati della medicina forestale con le immersioni a contatto con la natura guidati dal personale specializzato per trarre beneficio per la salute. E l’isola rappresenta il luogo ideale grazie ai suoi territori che contano oltre duemila specie spontanee e ai suoli millenari. Guspini in particolare fa un passo in avanti. Il suo terzo paesaggio è il primo in Italia in fase di qualificazione per la medicina forestale quale luogo idoneo alla prevenzione e alla promozione della salute grazie al Comune di Guspini con la sua referente e ideatrice del progetto Daniela Ducato, nota innovatrice green, prima specializzata in Sardegna in medicina forestale. La medicina forestale esiste da 40 anni ed è nata in Giappone da un team di ricerca di medici immunologi con suo ideatore l’immunologo Qing Li. Si tratta di una medicina integrativa per gli effetti vantaggiosi per la salute fisica e mentale, ed è già da molti anni presente nel servizio sanitario nazionale di diversi paesi del mondo come Canada, Danimarca, Scozia, Corea, Cina ecc. Questa tipologia di prevenzione oltre allo straordinario potenziale salutistico offre un importante risparmio economico stimato intorno all’8% di PIL mondiale per l’apporto prezioso sulla salute fisica e mentale di chi con assiduità si immerge in foresta. Con terzo paesaggio l’agronomo francese Gilles Clément, nel 2003 definì i luoghi marginali naturali, aree dismesse o abbandonate dall’uomo, dove spesso la natura si riprende il suo spazio, ex aree industriali ma anche spazi verdi più piccoli come i suoli urbani e di periferia. L’Italia detiene il triste primato europeo per consumo di suolo con di 2,4 metri quadri al secondo. Ed è Il terzo paesaggio, il primo ad essere cementificato, asfaltato, trasformato in discarica, maltrattato prima di tutto nell’immaginario collettivo che lo considera suolo inutile, degradato legittimandone così abusi e distruzione. L’impermeabilizzazione del suolo ritorna alla ribalta solo in caso di disastri e allagamenti. Dopo l’emergenza cala il silenzio. Il terzo paesaggio può invece diventare un’opportunità straordinaria di prevenzione della salute, addirittura una risorsa sanitaria e di benessere in ogni stagione? La risposta è sì se si mettono insieme ricerca, conoscenza e divulgazione scientifica, animazione e cura del territorio, ed azioni di prevenzione e di economia green senza consumo di suolo.

      Ed è ciò che è avvenuto a Guspini con l’attuale fase di qualificazione di medicina forestale, una delle azioni all’interno di un articolato progetto sul terzo paesaggio ideato da Daniela Ducato ed un team di ricerca scientifica con il Comune di Guspini già certificato pesticide free, l’A.I.Me.F. (associazione Italiana di medicina forestale) in collaborazione con associazioni come la Confcommercio Green, privati, ordini professionali, realtà e progetti di innovazione e Università. Per le sue caratteristiche la Sardegna rappresenta un luogo di eccellenza per la Medicina forestale. Non solo le foreste ma anche il terzo paesaggio non più bistrattato ma valorizzato come dimostra Guspini prima in Italia in fase di validazione come risorsa di prevenzione medica. Inaugurando con il terzo paesaggio una assoluta novità in ambito nazionale ed internazionale.

      «A Guspini, per la prima volta in Italia, abbiamo iniziato la qualificazione di aree urbane caratterizzate dal Terzo Paesaggio, come luoghi idonei alla prevenzione e alla promozione della

      salute». Annuncia con soddisfazione il medico Paolo Zavarella presidente e fondatore dell’associazione italiana di medicina forestale il cui comitato scientifico è diretto da Giovanna Borriello neurologa e responsabile del centro di riferimento per la Sclerosi Multipla dell Ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma, Responsabile del Centro di ricerca clinica applicata alla Sclerosi Multipla del NCL Istituto di Neuroscienze di Roma. “L’A.I.Me.F. Associazione Italiana di Medicina Forestale nasce per portare anche in Italia ricerca, esperienze e formazione sulla Medicina Forestale, facilitando il processo di Riconoscimento Sanitario, in modo da farla diventare una importante pratica di salute all’interno del servizio sanitario nazionale prescrivibile dai medici, come già oggi accade con la Medicina Termale”, aggiunge Zavarella, “ la corretta immersione è in grado di aumentare del 50%, in modo stabile e sostenuto nel tempo, il numero delle Cellule NK (Natural Killer) che sono i linfociti o globuli bianchi presenti nel sistema immunitario umano e animale, strategicamente deputate al riconoscimento e alla eliminazione delle cellule tumorali e infette da virus. Aumentano, con risultati stabili per settimane, anche altre sostanze preziose in campo immunitario (endorfine, interferone, oppioidi endogeni), aumenta la serotonina (ormone della tranquillità), aumenta l’ossitocina (ormone della felicità) mentre si riduce l’attività del cortisolo e del sistema ortosimpatico (attivi nello stress)”. Sempre i dati certificati Aimef riportano anche immersioni più brevi (almeno un’ora per almeno tre volte settimanali) portano i seguenti benefici: Aumento della concentrazione e dell’attenzione, migliore stabilizzazione dell’umore, un aumento fino al 50% della capacità di problem solving, minore produzione di ormoni degli stress, contribuzione al regolarizzare la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca, contribuzione a gestire la depressione e gli stati d’ansia, aumento dell’attività del sistema nervoso parasimpatico, miglioramento della funzione psichica, delle prestazioni mnesico-attentive, aumento fino al 40% dell’attività dei linfociti NK, anche detti cellule natural killer, fondamentali nella difesa naturale contro virus e malattie.

      Daniela Ducato ideatrice del progetto è anche la prima in Sardegna, specializzata Aimef in medicina forestale con la tesi: “il terzo paesaggio come risorsa sanitaria per una urbanistica della salute. I bias cognitivi nella perdita di suolo e di salute. I benefici del non consumare ma del restituire suolo. L’esempio del Comune di Guspini certificato pesticida free e in qualificazione di idoneità per la Medicina Forestale per la prevenzione e la promozione della salute.”

      “Il terzo paesaggio non va abusato asfaltato ma ritrovato attraverso la consapevolezza e la scienza”, spiega la Ducato, “nel suolo c’è la nostra salute, la nostra farmacia a cielo aperto. E nella restituzione di suolo e non nel suo consumo c’è il nostro futuro biologico. Nel terzo paesaggio l’assenza umana genera spesso un inaspettato rifugio per il ripristino e la conservazione della biodiversità. Il suolo con le sue piante spontanee è elemento privilegiato dell’equilibrio ecologico e al contempo favorisce la salute umana anche attraverso il rilascio di molecole volatili. Per una efficace immersione è importante avere la guida di figure specializzate facilitatrici di medicina forestale quindi conoscitrici dei metodi e dei luoghi più idonei per una corretta balneazione. Ad esempio l’iter di qualificazione di Guspini, realizzata da esperti e medici AIMEF, in una delle sue fasi con la raccolta dei parametri biometrici del campione di partecipanti, si è svolta in una zona urbana di terzo paesaggio ricca di piante spontanee il cui entourage di molecole volatili si caratterizza, proprio in questa stagione, per l’importante proprietà immunomodulante, quindi di aiuto per il sistema immunitario”.

      Aggiunge Zavarella “Le piante emettono preziose molecole studiate e classificate come B-VOC (Biogenic Volatile Organic Compounds: Composti Organici Volatili di Origine Biogenica). Nel tempo, moltissime molecole di origine vegetale sono state isolate, tracciate, purificate, brevettate e riprodotte per sintesi chimica in laboratorio e costituiscono la maggior parte dei farmaci oggi conosciuti (95%). Importante ritornare ad immergersi in quelle molecole vegetali che hanno plasmato la nostra “fisiologia cellulare”.

      IL SUOLO RISORSA STRATEGICA INFRASTRUTTURA VERDE

      Gli eventi estremi di cambiamento climatico ci indicano che non si può più cancellare il suolo occorre mantenerlo facendone risorsa strategica. Così come ha fatto, in innumerevoli azioni green, il Comune di Guspini: dalla toponomastica femminile della zona industriale alle infrastrutture digitale e ai servizi per consentire smart working e uffici verdi tra gli alberi, e molto altro grazie al lavoro di tutti gli assessorati, ha restituito identità, immaginario, valore e abitabilità al terzo paesaggio come dono di salute orientando ad un sano sviluppo economico senza consumo di suolo. Guspini cittadina del Medio Campidano della Sardegna ha ottenuto la certificazione pesticide free, primo Comune al mondo ad avere esteso la sua certificazione all’area industriale e al terzo paesaggio.

      Marcello Serru ingegnere ambientale vicesindaco di Guspini e assessore all’Ambiente ha spiegato che: “Il terzo paesaggio di Guspini in percorso di validazione come Forest Bathing Center con i suoi bagni forestali anche in ambiente urbano è una preziosa opportunità di salute offerta dal nostro Comune e ne premia l’impegno costante nel tempo. Ne è dimostrazione la vegetazione arborea messa a dimora negli ultimi 8 anni con oltre 2000 nuove piante della macchia mediterranea tra centro urbano e territorio comunale con le aree del terzo paesaggio”.

      Il lavoro sul recupero del terzo paesaggio iniziato a Guspini circa 30 anni fa, diventa poi base di ricerca già dal 2022 anche grazie al progetto EquiliBio con Federico Ortenzi per la parte di bioacustica vegetale, diretto dal professore Andreas Macchia con la redazione di Luigi Campanella già professore ordinario di chimica dell’ambiente e dei beni culturali presso l’Università La Sapienza di Roma, e in collaborazione con INGV Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia diretto dal professore Carlo Doglioni. È poi proseguito nella direzione della medicina forestale con il percorso di qualificazione AIMEF e con la parte di coordinamento tecnico scientifico e di elaborazione dei dati ecosistemici affidati ad Alberto Musa nella sua doppia veste di biologo naturalista ed apicoltore. Nel progetto è centrale la multidisciplinarietà di settori e competenze scientifiche e di attori sociali comprese le associazioni che via via stanno aderendo e gli ordiniprofessionali.

      A far diventare il progetto del terzo paesaggio da sogno a realtà sono state la co-progettazione e le risorse finanziarie donate da Iole Garau di Guspini, ex insegnate di lettere da molti anni in pensione, conoscitrice del territorio sardo, tra i fondatori dello storico gruppo archeologico Neapolis. Ha selezionato diversi progetti per valutare quello più meritevole a cui destinare sia una parte dei suoi risparmi sia il suo contributo di ideazione e competenze. Ha scelto il progetto proposto da Daniela Ducato quale referente del Comune di Guspini intitolato “Dalle città invisibili al terzo paesaggio come risorsa sanitaria per una urbanistica della salute” il cui titolo è anche omaggio a Italo Calvino.Tra le molteplici motivazioni della scelta c’è “la sua valenza nel dare alla salute il ruolo di priorità per generare un nuovo approccio educativo, culturale, economico”. Partire dalle risorse del terzo paesaggio. Da quelle città invisibili che oggi a Guspini diventano visibili e salutari.”

      https://www.vivilasardegna.com/turismo/item/1250-il-terzo-paesaggio-del-comune-di-guspini-primo-in-italia-in-qua

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • ★ GUSTAV LANDAUER : UN SOCIALISTE LIBERTAIRE ALLEMAND - Socialisme libertaire

    (...) Cette conception du socialisme est, cependant, tout sauf nouvelle. Le socialisme non marxiste, en particulier les courants anarchistes et syndicalistes révolutionnaires, s’appuient depuis une centaine d’années sur ces réflexions qui émergent actuellement, de l’autre côté, dans la critique du socialisme d’État traditionnel. Il est clair que, pas plus que les autres systèmes politiques ou articles de foi sociale datant de l’époque d’avant 1914, les programmes spécifiques de ces tendances ne sauraient prétendre aujourd’hui à une validité immédiate ; mais certaines idées fondamentales du vieux socialisme antiautoritaire peuvent tout naturellement servir de base pour le développement d’un socialisme libertaire moderne.
     
    Gustav Landauer (né en 1870 à Karlsruhe, assassiné à Munich en 1919) incarne cette continuité. Aujourd’hui, son nom est de nouveau cité, ses idées sont discutées et il est considéré comme un des pionniers du socialisme libertaire à venir. Pourtant, on ne saurait concevoir la figure et l’œuvre de Gustav Landauer sans leur profond enracinement dans l’anarchisme historique, en particulier dans l’univers fédéraliste de Proudhon, mais aussi dans l’œuvre de Kropotkine et l’esprit de Bakounine. Gustav Landauer, qui voulait faire de « la liberté dans la plénitude de ses formes » le fondement vivant d’un ordre social d’association, réunit de la sorte l’ancien et le nouveau socialisme libertaire en une unité indivisible (...)

    #Gustav_Landauer #anarchisme #socialisme_libertaire #Allemagne #biographie #histoire...

    https://www.socialisme-libertaire.fr/2023/09/gustav-landauer-un-socialiste-libertaire-allemand.html

  • Géographie et #impérialisme. De la Suisse au #Congo entre #exploration géographique et conquête coloniale

    #Gustave_Moynier, cofondateur de la Croix-Rouge, a-t-il également cofondé l’État indépendant du Congo ? Ce régime brutal d’extraction du caoutchouc dirigé par Léopold II voit le jour en 1885 à la suite d’une décennie d’événements exploratoires et conquérants. La Suisse participe à ces événements par le biais des sociétés de géographie dont #Moynier fait partie.
    Loin de se limiter à dévoiler un aspect sombre de la vie de cet homme, l’ouvrage de #Fabio_Rossinelli montre l’intégration – économique, culturelle, voire politique – de la bourgeoisie helvétique à l’#impérialisme_colonial du xIxe siècle. Pour ce faire, l’histoire des associations géographiques en Suisse est analysée en perspective internationale. Jusqu’à la Grande Guerre, ces sociétés représentent, à côté d’autres milieux, des cénacles où se produit un discours raciste accompagné d’actions expansionnistes.

    https://www.alphil.com/livres/1134-1255-geographie-et-imperialisme.html

    #livre
    #colonialisme #Suisse_coloniale #colonialisme_suisse

    pdf en open access :
    https://www.alphil.com/index.php?controller=attachment&id_attachment=261

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #Suisse_coloniale :
    https://seenthis.net/messages/868109

    • Book review : Géographie et impérialisme : de la Suisse au Congo entre exploration géographique et conquête coloniale

      What was Switzerland’s role in colonization? If you have ever wondered about this, Rossinelli’s historical account can provide a rich and detailed interpretation of a lesser-known part of the story: the role of Swiss geographic societies and Swiss participation in Belgian King Leopold II’s project to colonize a vast part of central Africa (today’s Democratic Republic of Congo). Rossinelli’s conclusion shows how political the discipline and practice of geography is, bringing geography beyond a technical exercise, showing how expansionist politics by Swiss geography associations were part of a broader dynamic typical of other European geography associations at the time. What makes the Swiss endeavour different is that although Switzerland never formally colonized another country, it supported the efforts of others, benefitting economically from these efforts, while also identifying new places, such as Brazil, for Switzerland’s economic migrants.1 Swiss imperialism, as skilfully demonstrated by Rossinelli, was presented publicly under the guise of a “civilizing” mission of African peoples along with anti-slavery campaigns, led by the Swiss bourgeoisie. But as Rossinelli shows us in great detail, this contradictory mission was often overshadowed by economic and other aspects. How does the author lead us to these conclusions? Rossinelli draws on archival sources to immerse the reader in the national and international meetings in which the imperialistic Swiss projects were discussed and in the texts which these institutions published. The reader often feels as if they have attended a conference in question, knowing the order of events, speakers, and key aspects of their speeches and conclusions.

      The book is divided into four parts. After the introduction, the second part of the book is dedicated to understanding the foundational objectives and operations of eight Swiss geographical associations. Each of these associations held different objectives: some focused on furthering the textile or watch-making markets abroad by using the colonies of other European countries as a place of commerce, other associations were interested in finding places for Swiss to migrate, while yet others focused on collaborating with Swiss missionaries to document local cultures or make natural-history collections. Some of these efforts resulted in Switzerland’s largest collections of ethnographic and natural-history objects. Such collections today contribute to current debates on the restitution of these objects (Sarr and Savoy, 2018), as well as the modern role of these institutions (Vergès, 2023). Rossinelli demonstrates how Switzerland’s geographic associations contributed to imperialistic ideologies and created a pressure from within Switzerland to participate in colonization projects in Africa in particular. The third part of the book reviews and analyses the Swiss production of academic journals, their context, and their influences. Here we see the diffusion of geographic journals throughout Europe and in relation to other European colonization projects.

      In the fourth part of the book, Rossinelli explores how Swiss geographic societies supported one of the largest colonial projects in Africa: that of the former Belgian Congo. The reader finds out how the project was launched internationally through the International African Association, soliciting support of European countries to the king’s private project, including Switzerland. Geographic exploration is seen as a catalyst of colonial expansion in Central Africa. Swiss geographers formed a national chapter to support the initiative and held a series of conferences throughout Switzerland. One of the more interesting roles explored is that of arbitrator. Given that Switzerland had not directly colonized any part of Africa, the country was seen as neutral and able to judge cases of conflict between colonizing countries such as Belgium and Portugal disputing rights to trade at the mouth of the Congo River. During this time, we see Switzerland launch geographic journals as well as the monthly Afrique explorée et civilisée (1879–1894), as part of a communication campaign to the general public. Rossinelli makes connections between Swiss bourgeoisie involvement in both the Red Cross and colonial developments and discusses the role of Swiss banks in the Belgian project.

      I can critique two aspects of this highly engaging and informative work. First, the attention to detail is sometimes to an extreme. The author often opens and closes long detailed parenthetical statements about specific people, events, or places. This sometimes makes reading through parts of the work laborious. But this detail is also at times necessary to make his arguments. Secondly, Rossinelli at times uses the word indigène rather than autochthone to refer to African peoples. This is surprising but perhaps not intentional. In the Francophone literature, especially regarding movements for Indigenous rights and from the United Nations (African Commission on Human and Peoples’ Rights and International Work Group for Indigenous Affairs, 2005; Bellier, 2009), this word is expressly avoided because it links their identity to colonialism. The colonial-era policy of the indigénat, a regime in French colonies which classified Africans as French nationals without citizenship rights, viewed local people as labourers for colonial projects (Tsanga et al., 2022). Even if this book recounts colonial expansion in Africa, the African people affected have histories well beyond their colonial encounters with Europeans: their history does not start or stop with colonialism (Táíwò, 2019), and so the word indigène could have been replaced with autochthone more regularly to strongly signal this issue.

      Throughout the book, Rossinelli interprets the racist history of Swiss geographical associations vis-a-vis Africa, examining why these associations viewed Africa – unlike Asia – as a place without history. The author shows how despite the critical report about the Belgian Congo’s treatment of Congolese people by African-American lawyer George Washington Williams highly reported in European newspapers, the Swiss press defended the Belgian project, insisting that treatment was no worse than that of agricultural workers in Switzerland. Rossinelli also details several racial discourses found in the geographical-society journals, how missionaries were vectors of racism and cultural-superiority exercises, and how cartographic exercises and related reports held a colonial gaze of racial superiority and environmental determinism.

      Rossinelli’s work joins others on the topic of Switzerland and colonization.2 This book situates geographical societies of Switzerland in their colonial roots. And it joins works querying the colonial history of Switzerland (Purtschert and Fischer-Tiné, 2015); racial aspects of colonial history (dos Santos Pinto et al., 2022); and recent efforts focusing on decolonizing it, such as those of the city of Zurich (Brengard et al., 2020), the Musée d’Ethnographie de Genève (de Genève, 2020), requests for removals of colonial-era statues (Fall, 2020), or efforts to decolonize the Zoo Zurich (Sithole et al., 2021). Overall, this work, in all its detail, is a must-read for those who are interested in Switzerland’s imperialist agenda at the time and the various roles it held in Europe’s colonial expansion in Africa.

      https://gh.copernicus.org/articles/78/337/2023

  • « Le macronisme : une haine bien ordonnée de la démocratie »
    https://www.politis.fr/articles/2023/03/le-macronisme-une-haine-bien-ordonnee-de-la-democratie

    La philosophe Barbara Stiegler évoque l’exercice du pouvoir d’Emmanuel Macron, un homme « qui s’est rendu ivre de son pouvoir, jusqu’à plonger tout le pays dans une crise sans retour »

    ... En Macronie, la démocratie est remplacée par un régime électif où le peuple, parce qu’il est considéré comme irrationnel et incapable de se gouverner lui-même, doit se dessaisir (par les élections) de la totalité de son pouvoir.

    • Réforme des retraites : Macron affirme que « la foule » n’a « pas de légitimité » face « au peuple qui s’exprime à travers ses élus »

      La colère des opposants à la réforme des retraites ne retombe pas au lendemain du rejet de deux motions de censure par l’Assemblée nationale. Des actions étaient menées dans toute la France ce mardi

      sure 😃 Macron, le peuple, il sait ce que c’est ; la légitimité aussi.

      https://www.liberation.fr/economie/social/en-direct-reforme-des-retraites-reunions-manifestations-requisitions-suiv

    • #Légitimité
      Ça passe mieux avec Françoise Degois ?@colporteur :))

      « Bonjour, je m’appelle Emmanuel Macron. J’adore jeter de l’huile sur le feu. Et je continue encore et encore parce que je ne peux pas perdre, je ne sais pas perdre, je ne veux pas perdre.
      Stratégie perverse et volontaire de tension par un homme rusé et sans éclat. »

      Si les foules sont “illégitimes” comme le dit doctement #EmmanuelMacron, alors le 14 Juillet n’a pas sa place dans notre récit national et républicain car, ce jour là, c’est bien la victoire d’une foule illégitime que nous célébrons tous. Manier des mots ne suffit pas pour gouverner.

      En disant qu’il faut en terminer avec la Vieme, je ne parle aucunement de destitution et autres bêtises du genre dictature. Je dis simplement qu’une réforme des institutions est vitale et pas la soupe qu’on nous sert régulièrement. Non, nous devons changer sinon nous irons de soulèvements en soulèvements. L’exemple des retraites est exemplaire. Le gouvernent était battu par les représentants du peuple et il a choisi l’argument d’autorité rendu possible constitutionnellement. En terminer.

      J’espère de tout coeur que Macron sera le dernier président de la #Vième. Il est temps de tout changer, d’aérer, de démocratiser, d’en terminer enfin avec la monarchie républicaine, avec cet étouffoir qui nous emmène la où nous en sommes aujourd’hui.
      https://twitter.com/francoisedegois/status/1638439694361935872?cxt=HHwWgIC-hZSO9LwtAAAA

      En même temps. #MacronDestitution

    • Et avec Mathilde Larrere aussi ?

      « Vous n’étiez qu’une foule, vous êtes un peuple maintenant ». Quand Hugo écrit cela il ne parle pas d’un « peuple » qui s’exprime par ses élus, mais des Parisiens et Parisiennes qui ont renversé le régime de Charles X avec les barricades des trois journées insurrectionnelles de 1830.

      Notre histoire est celle d’un peuple qui se soulève, se saisit de sa souveraineté contre ceux qui la lui ravissent, qui proclame le droit de résistance à l’oppression et l’applique.

      Que l’on ait chercher à vider la souveraineté de sa substance en la limitant par l’urne, qu’on ait cherché à réduire le citoyen à l’électeur est une constance dont Macron est ici un des tristes avatars.

      Mais contrairement à ce qu’il dit, le déficit de légitimité du pouvoir actuel a justement pour effet de légitimer toutes les résistances qui s’exercent et s’y opposent.

      Dans Paris soulevé en juin 1848, une affiche proclamait sur une barricade « peuple, souviens-toi que tu es souverain ». On pourrait le redire aujourd’hui.

      https://twitter.com/LarrereMathilde/status/1638294801492725760

    • Et avec Vincent Tiberj c’est plus respectable ? :

      Cette phrase en dit énormément sur la conception macronienne du pouvoir, des citoyens et de la démocratie.
      Elle montre aussi l’incompréhension des évolutions sociopolitiques et la méconnaissance des travaux de science politique contemporain.

      Un thread sur tout ça👇

      2/n : d’abord l’utilisation de « foule ». Il ne l’emploie sans doute pas par hasard ; hors cela renvoie au travail de Gustave Le Bon.

      Et Gustave, comme beaucoup parmi les élites de la 3ème république, se méfie du mouvement social et des « classes laborieuses, classes dangereuses »

      3/n : Pour ce bon Gustave ; l’individu en foule
      ➡️n’est plus rationnel
      ➡️est dominé par ses émotions
      ➡️et surtout est à la merci de meneurs qui vont les manipuler

      4/n : D’où l’importance du vote qui va être construit comme la « bonne » (et seule) manière de participer, en raison.

      Les sociohistoriens (notamment Y.Deloye analysent cela comme une entreprise de « forclusion de la violence » voire une « orthopédie sociale » (Garrigou).

      5/n : cette image en dit beaucoup, où l’ouvrier est incité à troquer le fusil pour le bulletin

      Je conseille ce bel article d’Olivier Ihl sur ce point : https://t.co/RHlfZKL8Dk

      6/n : Dans cette conception du vote et particulièrement en France, on fait la part belle à la délégation/ représentation.
      ➡️Ici on élit, et on ne choisit pas toujours (à la différence d’un référendum)
      ➡️Pas de mandat impératif pour les élus et ils ne peuvent être renvoyer

      7/n : d’où cette phrase : le « peuple [qui] s’exprime à travers ses élus ».

      Des élus ventriloques ?
      ➡️ N’oublions pas l’impact du mode de scrutin. Un député au final est souvent élu avec une minorité des voix, même exprimées
      ➡️ c’est oublier tous les biais de représentation.

      8/n : en France, les élus sont majoritairement des hommes, plutôt âgés, plutôt des classes sociales supérieures.

      2017 a permis un renouvellement, mais partiel et qui reste socialement marqué.

      9/n : Enfin les citoyens changent. Ils ont pu être des « sujets », des citoyens allégeants", des « citoyens déférents », dans la « remise de soi », qui laissent parler les élus/ grandes personnes.

      Mais c’est fini... Et pas qu’en France

      9/n : « voter ne suffit plus », notamment parce que d’autres formes de participation sont devenues légitimes et sont utilisées

      10/n : en résumé :
      « Va falloir un peu bosser...
      Revoir son logiciel parce que la démocratie par les élus c’est fini et on ne peut se contenter d’un "grand débat" avec des citoyens qui posent poliment sa question (et en plus quels citoyens ?) »

      https://twitter.com/VTiberj/status/1638476105937035264?cxt=HHwWgIC9tcvVhL0tAAAA

  • Gustave Roud : un poète que j’ai découvert il y a peu, grâce à une correspondance avec Philippe Jaccottet. Une émission aujourd’hui sur RFI (De vives voix) m’inspire ce partage :

    Publication critique des Œuvres complètes du poète, traducteur, critique et photographe Suisse romand, Gustave Roud (1897-1976)

    https://www.fabula.org/actualites/109987/gustave-roud-uvres-completes-sous-la-dir-de-claire-jaquier.html

    – Le volume 1 (1456 pages) comprend les œuvres poétiques : recueils, textes publiés en revue et textes inédits.

    – Le volume 2 (1088 pages) rassemble l’essentiel des Traductions : recueils consacrés à #Novalis, #Hölderlin, Rilke, Trakl dont Roud est un des premiers traducteurs en français ; traductions publiées en revue ou dans des volumes collectifs – notamment de #Wilhelm_Müller, #Goethe, #Clemens_Brentano, #Hildegard_von_Bingen ou encore #Eugenio_Montale.

    – Le volume 3 (1280 pages) livre les notes de journal (1916-1976) dans toute leur diversité archivistique – feuillets épars, manuscrits et dactylogrammes, carnets, cahiers, agendas. Événements du jour, réflexions sur soi, descriptions de paysages, projets, propos sur l’art, poèmes…

    – Le volume 4 (1296 pages) réunit l’ensemble des articles et études critiques que Roud a consacrés, tout au long de sa vie, à des poètes, écrivains et peintres, le plus souvent contemporains.

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    Quand le Journal de Gustave Roud ouvre l’accès à toute l’Oeuvre.
    https://www.revuelepassemuraille.ch/quand-le-journal-de-gustave-roud-ouvre-lacces-a-toute-loeuvre

    Dans les coulisses du chantier Gustave Roud
    Les « Œuvres complètes » du grand écrivain romand sont désormais publiées chez Zoé. Claire Jaquier et Daniel Maggetti évoquent cet ambitieux projet qu’ils ont codirigé.
    https://wp.unil.ch/allezsavoir/dans-les-coulisses-du-chantier-gustave-roud%EF%BF%BC

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    « Œuvres complètes » du poète Gustave Roud, l’amour est dans le blé (Libération)

    « Je marche dans mes rêves anciens, mes pensées anciennes », écrit le poète suisse romand Gustave Roud. Mais où commence le rêve, où démarre la pensée chez cet homme toujours par les chemins du Haut-Jorat, région de collines douces, le berceau de toute une vie ? En janvier 1942, il note dans son journal un rêve tout neuf. Dans la grande ferme de Carrouge, héritée de la famille paysanne maternelle, Roud dort sous les combles. Sa sœur aimée, Madeleine, est là. C’est une « vieille fille », comme lui est « vieux garçon ». Il y a aussi la tante Clara, insupportable par ses bouderies. Gustave Roud endormi voit un homme remplir sa bouche de vers luisants « et une voix me dit que de cette bouche illuminée (que je voyais toute phosphorescente) devait sortir la voix des morts ». Dans sa vie éveillée, le poète né en 1897 cherche aussi à abolir le temps, à effacer ce qui sépare les morts des vivants. « Je suis fait d’absences et de présences », note-t-il et parfois il croit sentir celle de sa mère, disparue en 1933.

    Avec la marche à pied véritable, #Gustave_Roud trouve une manière d’exténuer le corps, état propice à l’illumination poétique. Depuis une « ballade » de quatre jours alors qu’il avait 19 ans, il a pris le goût de cette ivresse, qui le fait se sentir en adhérence avec le paysage, avec les arbres, les bêtes croisées. Il aime s’enfoncer dans la nuit, sa canne à la main et en compagnie de son « ombre trébuchante ». Mais c’est à la lumière du jour, que les paysans du #Haut-Jorat ont pris l’habitude de voir sa mince et longue silhouette vêtue comme à la ville, équipée de calepins – il écrit surtout dehors, assis sur un banc, un tronc – et d’un appareil photo.

    Romantisme allemand

    Gustave Roud est une des voix majeures de la poésie suisse romande. La publication d’un livre de #Philippe_Jaccottet chez Seghers en 1968 lui a permis de dépasser les frontières nationales. Pourtant il reste un peu méconnu en France. La publication cet automne chez Zoé de ses œuvres complètes rend honneur à l’ampleur de son travail d’écriture. Quatre volumes sont présentés en coffret : les œuvres poétiques, le journal, les traductions (les romantiques allemands, #Rilke, #Trakl), et ses critiques artistiques et littéraires. De nombreuses passerelles permettent de circuler entre les volumes, Gustave Roud aimait les reprises et puisait dans son journal pour composer ses recueils.

    Le poète n’était pas aussi reclus qu’on a pu le dire. Ami de Ramuz notamment, autre écrivain du monde rural, il participait à des remises de prix, des jurys et œuvrait dans des revues, à un moment de particulière effervescence de la littérature suisse romande. Pour cela, il effectuait « la traversée », prenait un vieux tram brinquebalant le menant en une heure à Lausanne. Mais le cœur de Gustave Roud, poète à l’inquiétude fondamentale, n’était pas en ville. Ce qui l’intéresse avant tout, ce sont les andains, les rangées d’herbe fauchée, les murs de céréales abattus pendant la récolte, et les personnages qui habitent ces paysages de l’été  : les « moissonneurs fauves ». Il les photographie en plein travail avec leur assentiment, torses nus, ils sont ses amis paysans. Toute sa vie, Gustave Roud, dont l’homosexualité n’a jamais été nommée, ira ainsi d’un amour secret à un autre. Le désir érotique se retrouve clai­rement, exalté, dans sa poésie. Comme dans Bain d’un faucheur du recueil Pour un moissonneur. Premières strophes  : « Un dimanche sans faux comblé de cloches pures / Ouvre à ton corps brûlé la gorge de fraîcheur / Fumante, fleuve d’air aux mouvantes verdures / Où tu descends, battu de branches et d’odeurs. / Ce tumulte de lait dans la pierre profonde / De quel bouillonnement va-t-il enfin briser / L’âpre bond de ta chair ravie au linge immonde / Vers une étreinte d’eau plus dure qu’un baiser  ! »

    Un personnage dénommé Aimé, composite de ses amis paysans, mais surtout inspiré par le premier, Olivier Cherpillod, est au cœur de l’œuvre. La poésie va prendre en charge ce que dans la vie réelle Roud ne pouvait exprimer. Le poète est plus explicite dans le Journal, même s’il se cache derrière la notion d’amitié. Son besoin inassouvi de la présence d’Olivier, Fernand, Robert, René, au total une douzaine d’hommes au long d’une cinquantaine d’années, le renvoie à ce qu’il appelle sa « différence ». Il parle de la beauté des visages, du lisse des torses, des bras gonflés. Il aimerait pouvoir toucher ces épaules, ces mains, mais ne le peut pas. Journal, octobre 1926 : « Tu marches avec des branchages sur un labour aux vives arrêtes de terre sombre […] un linge bleu s’entrebâille sur cette poitrine nue où je voudrais tant poser sans rien dire ma tête écouter battre ce cœur digne de vivre digne d’être heureux. »

    Le poète a laissé un corpus de 13 000 images

    Sous le prétexte de promenades, il se rend chez l’un, chez l’autre (suscitant parfois l’hostilité des femmes de leur famille), il connaît « la honte des bras ballants », parfois il participe un peu aux travaux des champs. Il y a de beaux moments de compagnonnage, en particulier avec Olivier  : Olivier fauchant, Olivier se rasant, Olivier tressant des paniers d’osier. Mais surtout Roud photographie. Le poète a laissé un corpus de 13 000 images. Il a appris par son père, paysan éclairé, le maniement des appareils. Il développe et agrandi lui-même ses clichés dans une petite pièce de la maison de #Carrouge. Du noir et blanc majoritairement, mais aussi des clichés couleur, des autochromes.

    Fernand Cherpillod, neveu d’Olivier Cherpillod, est un modèle de ­premier ordre. Il aime poser, se plie à des mises en scène de paysan au travail. Certains clichés sont typiques, avec leur contre-plongée, d’une esthétique des années 30 célébrant les corps en pleine nature. Pour Roud, au-delà du désir non dit, il y a l’idée toute poétique d’hommes devenus des intercesseurs d’un monde paysan glorifié, d’une harmonie touchant à l’éternité. Dans son dernier recueil, Campagne perdue, il dira tout son désarroi devant la modernisation de l’agriculture, qui tue des gestes ancestraux, casse des accords anciens avec la nature.

    Gustave Roud est alors un homme vieillissant. Il se sent dépossédé, tandis que sa notoriété est grandissante. Des jeunes écrivains font le pèlerinage à Carrouge, comme Jacques Chessex ou Maurice Chappaz. Une photo les montre avec leurs trench-coats, venus sur une « motocyclette » – le bruit effraie Roud. En 1965, il a les honneurs d’un film diffusé à la télévision. Un moyen métrage signé du cinéaste Michel Soutter. La caméra explore la maison : la cuisine, le corridor, le bureau, les murs où sont disposées les photos des amis paysans, le salon. L’ambiance est un peu spectrale. Roud apparaît vulnérable. On le voit à la fin, comme un monsieur Hulot un peu guindé, partir dans le jardin. Michel Soutter interroge la sœur, gauche aussi. Elle parle d’intérêt pour le cosmos. Le jeune romancier suisse Bruno Pellegrino a poursuivi cette piste dans une très belle fiction biographique sur le « couple » Roud. Son roman, sorti en 2019, Là-bas, août est un mois d’automne, redonne une visibilité à Madeleine.

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    #Claire_Jaquier : « Gustave Roud puise dans son journal, en partie son atelier de création »

    Huit chercheurs ont été mobilisés pendant quatre années pour permettre la sortie des Œuvres complètes de Gustave Roud. A leur tête : en codirection avec Daniel Maggetti, Claire Jaquier, professeur émérite de littérature à l’université de Neuchâtel, en Suisse. Libération l’a interviewée.

    Comment est né ce projet de publication ?

    C’était nécessaire, il n’existait pas de véritables œuvres complètes. Un très petit coffret Gustave Roud était paru en 1978 mais il ne comprenait que les dix recueils de poésie, sans aucune note. Des textes sont ensuite sortis en poche de manière très dispersée. Il y a eu aussi des publications de correspondance, de textes critiques et, progressivement, on a pris conscience de l’extrême richesse des archives qui permettent de comprendre cette œuvre. Grâce au Fonds national suisse de la recherche scientifique, notre équipe de chercheurs a pu travailler pendant quatre ans et réunir cet immense matériau documentaire pour mener à bien une édition complète, génétique et critique.

    La découverte du Journal a été présentée comme une surprise à la mort de Roud…

    Philippe Jaccottet, exécuteur testamentaire de l’œuvre, disait qu’il ne savait pas que Roud tenait un journal. Il est probable que Roud ne le lui a pas dit formellement mais il ne pouvait pas l’ignorer car un certain nombre de textes parus dans des revues portent comme titre « Notes de journal ». Je pense que ce qui a incité Jaccottet à tenir un tel propos, c’est que Roud ne lui a donné aucune consigne sur l’avenir de son œuvre et n’a pas dit un mot du Journal. Il était donc un peu mal à l’aise, d’autant plus qu’il s’est rendu compte en le lisant à quel point il y avait des choses intimes qui étaient dites et cela le gênait peut-être lui-même, d’où sa première édition, partielle, en 1982 chez Bertil Galland.

    Pourquoi y trouve-t-on ce doute permanent, cette inquiétude ?

    C’est une œuvre magnifique, mais qui a une couleur sombre. Lorsque j’ai édité le Journal en 2004 avec Anne-Lise Delacrétaz chez Empreintes, en deux volumes couvrant les années 1916 à 1971, j’ai avancé l’hypothèse que cela avait une origine liée au genre diariste. Au XVIIIe siècle, en pays protestant, comme la confession n’existait pas, la pratique du journal était en fait recommandée aux croyants comme exercice d’examen de conscience, on les invitait à creuser leur intimité, leur moi. Et il n’est pas exclu que cette tradition colore le journal de Roud. C’est peut-être ce qui explique qu’il y apparaît chroniquement insatisfait, mais il ne faudrait pas en induire que tout son tempérament était là, il pouvait être gai, espiègle, plein d’humour, on le voit dans sa correspondance.

    Est-il exact que le Journal est le réservoir de tous les autres textes ?

    Ce n’est vrai que pour certains textes. Il constitue une part seulement de l’atelier de création. Roud puise dans son journal, mais souvent il va en tirer juste un paragraphe, quelques phrases, ou un petit texte. Ce qui constitue le corps de beaucoup de recueils de Roud ce sont de longues proses poétiques, dont des premières versions sont parues dans des revues. Il s’est rendu compte très tôt que la stimulation de ces commandes où il était forcé de remettre la copie à temps lui était indispensable. Dans le premier volume de notre édition, Œuvres poétiques, nous donnons 120 textes publiés initialement en revue, et donc devenus inaccessibles.

    On est frappé par le nombre de reprises, au fil de la lecture…

    Il y a beaucoup de reprises, parce que notre parti pris est de privilégier la logique documentaire, les supports. Gustave Roud pour son journal utilisait des cahiers, et aussi des carnets, des feuilles volantes, des agendas. Puisant dans son journal pour écrire des textes, souvent il recopie certaines phrases issues d’années différentes, parfois il dactylographie de grands ensembles de notes, donc on dispose de dactylogrammes. Cela montre que Roud reprenait ce matériau de manière continue. L’atelier de création de Roud, c’est très souvent de la reprise. Il donne lui-même le titre de « Rhapsodie », en 1931, à une sélection de textes réunis, ce qu’aujourd’hui on appellerait le couper-coller. Il aime beaucoup rassembler des textes anciens, ôter quelquefois juste deux phrases et les intégrer dans un nouveau contexte, il fait ça constamment.

    Pour revenir à la #poésie, n’y a-t-il pas un tournant du lyrisme à partir du recueil Adieu ?

    Adieu est très particulier, Roud est encore sous l’influence de la grande poésie symboliste française, il a eu de la dévotion pour #Mallarmé autour de l’âge de 20 ans. Adieu se sent encore de cette influence, la poésie comme haut langage, à la limite de l’hermétisme et puis il se défait de cette influence, il voit que cette pureté ne lui convient pas. Il a abandonné assez vite le vers et adopté cette prose lyrique qui ne va pas vraiment changer. Il y a une signature stylistique de Roud, des phrases amples, mélodieuses, syntaxiquement charpentées, qui produisent un effet de lenteur et de douceur. Je ne fais que redire ce que beaucoup de critiques de l’époque ont dit, l’un d’eux parlait d’une prose d’une obsédante douceur. Il y a aussi une gravité du ton constante. La phrase roudienne, est souvent longue, avec des subordonnées qui s’enchaînent et qui retombent bien, on observe aussi de fréquents jeux avec les sonorités. Même si l’œuvre évolue, si le contenu change, si le lyrisme se modifie, cette voix particulière est reconnaissable du début à la fin.

    #journal_intime #poète #suisse_romande #poésie #littérature

  • #GustavLandauer #anarchisme #autogestion #émancipation #écologie #antimilitarisme #anticléricalisme #fédéralisme_libertaire #feminisme #antiétatisme #anticapitalisme #antifascisme #internationalisme

    ★ L’ANARCHIE, C’EST LA VIE !...

    « L’anarchie, c’est la vie ; la vie qui nous attend une fois que nous nous serons débarrassés du joug. Le seul objectif de l’anarchisme est de mettre fin à la lutte des hommes contre les hommes et d’unir l’humanité afin que chaque individu puisse déployer son potentiel naturel sans obstruction. » ★ Gustav Landauer

    https://www.socialisme-libertaire.fr/2016/08/l-anarchie-c-est-la-vie.html

  • #GustavLandauer #violence #non-violence
    #anarchisme #autogestion #émancipation #écologie #antimilitarisme #anticléricalisme #fédéralisme_libertaire #feminisme #antiétatisme #anticapitalisme #antifascisme #internationalisme

    ★ GUSTAV LANDAUER : PENSÉES ANARCHISTES SUR L’ANARCHISME (1901)...

    « (...) Les anarchistes aussi ont été jusqu’ici des esprits par trop systématiques, enserrés dans des concepts étroits et rigides ; et c’est là l’ultime réponse à la question de savoir pourquoi les anarchistes accordent une certaine valeur au meurtre d’êtres humains. Ils ont pris l’habitude de s’occuper de concepts, et non plus des hommes. Pour eux, il y a deux classes distinctes et séparées qui se dressent l’une contre l’autre ; quand ils tuaient, ils ne tuaient point des hommes, mais le concept d’exploiteur, d’oppresseur ou d’homme d’État. La conséquence a été que précisément ceux qui font preuve le plus souvent d’une grande humanité dans la vie intime et les sentiments se laissent aller à l’inhumanité dans les activités publiques. Ils n’éprouvent alors plus aucune émotion ; ils agissent comme des êtres purement pensants qui, à l’instar du culte rendu par Robespierre à la déesse Raison, se font les serviteurs d’une divinité qui classe et juge les hommes. Les condamnations à mort que les anarchistes prononcent froidement s’expliquent par des jugements rendus en vertu d’une logique froide, sans profondeur, abstraite et hostile à la vie. L’anarchie n’a pourtant rien de cette évidence, de cette froideur, de cette clarté que les anarchistes ont cru pouvoir y trouver ; quand l’anarchie deviendra un rêve sombre et profond, au lieu d’être un monde accessible au concept, alors leur éthos et leur pratique seront d’une seule et même espèce. »

    https://www.socialisme-libertaire.fr/2017/11/gustav-landauer-pensees-anarchistes-sur-l-anarchisme.html

  • En 1958, #Rothko doit faire trente deux peintures pour un restaurant d’entreprise. Une fois les tableaux réalisés, pris d’un doute, il va dîner dans le restaurant qui vient d’ouvrir. Ce n’est pas du tout la cantine pour employés qu’il imaginait, mais un restaurant luxueux pour gens fortunés : Quiconque peut manger cette sorte de nourriture pour cette sorte de tarif ne regardera jamais une de mes peintures, dit-il à l’un de ses proches. Plus tard, au bar d’un paquebot alors qu’il revient d’un voyage en Europe, il fera encore cette remarque : Un lieu où les salauds les plus riches de New-York viennent pour bouffer et se montrer. Rothko rend le chèque au commanditaire et garde les tableaux.

    (Jacques Lèbre, À bientôt, 72)

  • Un quartier de #Berlin rebaptise des lieux avec les noms de résistants africains à la #colonisation

    Une rue et une #place portant le nom de personnalités phares du colonialisme allemand ont été débaptisées, début décembre, dans le quartier de #Wedding. Elles ont désormais le nom de résistants ayant œuvré, au début du XXe siècle, contre l’action de l’Allemagne en Afrique.

    “Fini d’honorer les dirigeants de la colonisation.” Comme le rapporte le Tagesspiegel, plusieurs lieux du “quartier africain” de Berlin ont été rebaptisés, dans le cadre d’une initiative menée par les autorités locales. “L’ancienne place #Nachtigal est devenue la place #Manga-Bell ; et la rue #Lüderitz, la rue #Cornelius-Fredericks”, détaille le titre berlinois. Le tout au nom du “travail de mémoire” et du “#décolonialisme”.

    #Gustav_Nachtigal et #Adolf_Lüderitz, dont les noms ornaient jusqu’à présent les plaques du quartier, avaient tous deux “ouvert la voie au colonialisme allemand”. Ils ont été remplacés par des personnalités “qui ont été victimes de ce régime injuste”.

    À savoir Emily et Rudolf Manga Bell, le couple royal de Douala qui s’est opposé à la politique d’expropriation des terres des autorités coloniales allemandes au #Cameroun, et Cornelius Fredericks, résistant engagé en faveur du peuple des #Nama, avant d’être emprisonné et tué dans le camp de concentration de #Shark_Island, dans l’actuelle #Namibie.

    “Indemnisation symbolique”

    “Les noms des rues du quartier africain ont fait polémique pendant plusieurs années”, assure le journal berlinois. Lorsqu’en 2018 l’assemblée des délégués d’arrondissement de ce quartier, Wedding, dans l’arrondissement de #Berlin-Mitte, avait proposé pour la première fois de changer les noms de certains lieux, près de 200 riverains étaient montés au créneau, critiquant notamment le coût de la mesure. Ils assuraient par ailleurs qu’“on ne peut pas faire disparaître l’histoire des plaques de rue”.

    Mais les associations des différentes diasporas africaines, elles, considèrent que les changements de noms sont importants, dans un pays “où les crimes du colonialisme allemand ne sont pas éclaircis systématiquement”. L’Empire allemand a en effet été responsable de diverses atrocités commises pendant sa courte période coloniale – comme le génocide des Héréro et des Nama, entre 1904 et 1908, dans ce que l’on appelait à l’époque le “Sud-Ouest africain allemand” et qui correspond aujourd’hui à la Namibie.

    Cet épisode de l’histoire n’a été reconnu par l’Allemagne qu’en mai 2021, rappellent les organisations décoloniales d’outre-Rhin. “Elles demandent de nouveaux noms de rue à titre d’indemnisation symbolique pour les victimes, mais également à titre éducatif.”

    https://www.courrierinternational.com/article/memoire-un-quartier-de-berlin-rebaptise-des-lieux-avec-les-no

    #toponymie #toponymie_politique #colonialisme #résistance #noms_de_rue #rebaptisation #colonialisme_allemand #Allemagne_coloniale #Allemagne #toponymie_coloniale #mémoire

    ping @cede @nepthys

    • Keine Ehre für Kolonialherren in Berlin: Straßen im Afrikanischen Viertel werden umbenannt

      Aus dem Nachtigalplatz wird am Freitag der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße. Anwohner hatten gegen die Umbenennung geklagt.

      Nach jahrelangen Protesten werden ein Platz und eine Straße im Afrikanischen Viertel in Wedding umbenannt. Aus dem bisherigen Nachtigalplatz wird der Manga-Bell-Platz und aus der Lüderitzstraße die Cornelius-Fredericks-Straße.

      „Straßennamen sind Ehrungen und Teil der Erinnerungskultur“, sagte Bezirksbürgermeisterin Stefanie Remlinger (Grüne). Daher sei es eine wichtige Aufgabe, Namen aus dem Berliner Straßenbild zu tilgen, die mit Verbrechen der Kolonialzeit im Zusammenhang stehen.

      Gustav Nachtigal und Adolf Lüderitz waren Wegbereiter des deutschen Kolonialismus, der im Völkermord an den Herero und Nama gipfelte. An ihrer Stelle sollen nun Menschen geehrt werden, die Opfer des deutschen Unrechtsregimes wurden.

      Das Königspaar Emily und Rudolf Duala Manga Bell setzte sich nach anfänglicher Kooperation mit deutschen Kolonialautoritäten gegen deren Landenteignungspolitik zur Wehr. Cornelius Fredericks führte den Widerstandskrieg der Nama im damaligen Deutsch-Südwestafrika, dem heutige Namibia, an. Er wurde 1907 enthauptet und sein Schädel zur „Erforschung der Rassenüberlegenheit“ nach Deutschland geschickt und an der Charité aufbewahrt.

      Über die Straßennamen im Afrikanischen Viertel wurde viele Jahre gestritten. Im April 2018 hatte die Bezirksverordnetenversammlung Mitte nach langem Hin und Her beschlossen, den Nachtigalplatz, die Petersallee und die Lüderitzstraße umzubenennen. Dagegen hatten 200 Gewerbetreibende sowie Anwohnende geklagt und die Namensänderungen bis jetzt verzögert. Im Fall der Petersallee muss noch über eine Klage entschieden werden.

      Geschichte könne nicht überall von Straßenschildern getilgt werden, argumentieren die Gegner solcher Umbenennungen. Denn konsequent weitergedacht: Müsste dann nicht sehr vielen, historisch bedeutenden Personen die Ehre verweigert werden, wie etwa dem glühenden Antisemiten Martin Luther?
      Klagen verzögern auch Umbenennung der Mohrenstraße

      Ein anderes viel diskutiertes Beispiel in Mitte ist die Mohrenstraße, deren Namen als rassistisch kritisiert wird. Auch hier verzögern Klagen die beschlossene Umbenennung. Gewerbetreibende argumentieren auch mit Kosten und Aufwand für Änderung der Geschäftsunterlagen.

      Vor allem afrodiasporische und solidarische Organisationen wie der Weddinger Verein Eoto und Berlin Postkolonial kämpfen für die Straßenumbenennungen. Sie fordern sie als symbolische Entschädigung für die Opfer, aber auch als Lernstätte. Denn bis heute fehlt es oft an Aufklärung über die deutschen Verbrechen. Die Debatte darüber kam erst in den letzten Jahren in Gang.

      Wenn am Freitag ab 11 Uhr die neuen Straßenschilder enthüllt werden, sind auch die Botschafter Kameruns und Namibias sowie König Jean-Yves Eboumbou Douala Bell, ein Nachfahre des geehrten Königspaares, dabei. Die Straßenschilder werden mit historischen Erläuterungen versehen. (mit epd)

      https://www.tagesspiegel.de/berlin/bezirke/keine-ehre-fur-kolonialherren-in-berlin-strassen-im-afrikanischen-viert

    • Benannt nach Kolonialverbrechern: #Petersallee, Nachtigalplatz - wenn Straßennamen zum Problem werden

      Die #Mohrenstraße in Berlin wird umbenannt. Im Afrikanischen Viertel im Wedding dagegen wird weiter über die Umbenennung von Straßen gestritten.

      Die Debatte über den Umgang mit kolonialen Verbrechen, sie verläuft entlang einer Straßenecke im Berliner Wedding. Hier, wo die Petersallee auf den Nachtigalplatz trifft, wuchert eine wilde Wiese, ein paar Bäume werfen kurze Schatten, an einigen Stellen bricht Unkraut durch die Pflastersteine des Bürgersteigs. Kaum etwas zu sehen außer ein paar Straßenschildern. Doch um genau die wird hier seit Jahren gestritten.

      Am Mittwoch hat die Bezirksverordnetenversammlung Berlin-Mitte beschlossen, die Mohrenstraße in Anton-Wilhelm-Amo-Straße umzubenennen, nach einem widerständigen afrikanischen Gelehrten. Im gleichen Bezirk hat die Organisation „Berlin Postkolonial“ in dieser Woche ein Informationszentrum zur deutschen Kolonialgeschichte in der Wilhelmstraße eröffnet – in den kommenden vier Jahren soll es von Erinnerungsort zu Erinnerungsort ziehen.

      Das Zentrum ist die erste speziell dem Thema gewidmete öffentliche Anlaufstelle in der Stadt.

      Andernorts aber kämpft man seit Jahren nach wie vor erfolglos für eine Umbenennung von Straßennamen mit Bezügen zur Kolonialzeit. In ganz Deutschland gibt es noch immer mehr als 150 – im Berliner Wedding treten sie besonders geballt im sogenannten Afrikanischen Viertel auf. Orte wie die Petersallee, der Nachtigalplatz und die Lüderitzstraße. Orte, die nach deutschen Kolonialverbrechern benannt sind.
      #Carl_Peters wurde wegen seiner Gewalttaten „blutige Hand“ genannt. Gustav Nachtigal unterwarf die Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika.

      Carl Peters (1856–1918) war die treibende Kraft hinter der Gründung der ehemaligen deutschen Kolonie #Deutsch-Ostafrika, seine Gewalttätigkeit brachte ihm die Spitznamen „Hänge-Peters“ und „blutige Hand“ ein. Gustav Nachtigal (1834– 1885) nahm eine Schlüsselrolle ein bei der Errichtung der deutschen Herrschaft über die drei westafrikanischen Kolonien Togo, Kamerun und Deutsch-Südwestafrika, das heutige Namibia. Und der Bremer Kaufmann Adolf Eduard Lüderitz (1834–1886) gilt als der Mann, der das deutsche Kolonialreich mit einem betrügerischen Kaufvertrag in Gang setzte.

      Eine Ehrung für außergewöhnliche Leistungen

      Straßennamen sollen eine besondere Ehrung darstellen, sie sollen an Menschen erinnern, die außergewöhnlich Gutes geleistet haben. Das deutsche Kolonialreich aufgebaut zu haben, fällt nicht mehr in diese Kategorie. Aus diesem Grund wurden in der Geschichte der Bundesrepublik bislang allein 19 Straßen umbenannt, die Carl Peters im Namen trugen. Das erste Mal war das 1947 in Heilbronn. Der aktuellste Fall findet sich 2015 in Ludwigsburg. Auch nach dem Ende des Nationalsozialismus und dem der DDR hat man im großen Stil Straßen umbenannt, die als Würdigung problematischer Personen galten.

      Im Wedding ist wenig passiert, in der Welt zuletzt viel. Die Ermordung des schwarzen US-Amerikaners George Floyd hat Proteste ausgelöst, weltweit. Gegen Rassismus, gegen Polizeigewalt. Aber auch gegen die noch immer präsenten Symbole des Kolonialismus, dem diese Ungerechtigkeiten, diese Unterdrückungssysteme entspringen. Im englischen Bristol stürzten Demonstranten die Statue des Sklavenhändlers Edward Colston von ihrem Sockel und versenkten sie im Hafenbecken.

      „Krieg den Palästen“

      Ein alter Gewerbehof in Kreuzberg unweit des Landwehrkanals, Sommer 2019. Tahir Della, Sprecher der Initiative Schwarze Menschen in Deutschland, sitzt an seinem Schreibtisch in einem Co-Working-Space. Um ihn herum Bücher, Flyer. Hinter Della lehnen zwei große Plakate. Auf dem einen steht: „Black Lives Matter“. Auf dem anderen: „Krieg den Palästen“. Ein paar Meter über Dellas Kopf zieht sich eine großformatige Bildergalerie durch die ganze Länge des Raums. Fotos von Schwarzen Menschen, die neue Straßenschilder über die alten halten.

      „Die kolonialen Machtverhältnisse wirken bis in die Gegenwart fort“, sagt Della. Weshalb die Querelen um die seit Jahren andauernde Straßenumbenennung im Wedding für ihn auch Symptom eines viel größeren Problems sind: das mangelnde Bewusstsein und die fehlende Bereitschaft, sich mit der deutschen Kolonialvergangenheit auseinanderzusetzen. „Die Leute haben Angst, dieses große Fass aufzumachen.“

      Denn wer über den Kolonialismus von damals spreche, der müsse auch über die Migrations- und Fluchtbewegungen von heute reden. Über strukturellen Rassismus, über racial profiling, über Polizeigewalt, darüber, wo rassistische Einordnungen überhaupt herkommen.

      Profiteure der Ausbeutung

      „Deutsche waren maßgeblich am Versklavungshandel beteiligt“, sagt Della. In Groß Friedrichsburg zum Beispiel, an der heutigen Küste Ghanas, errichtete Preußen schon im 17. Jahrhundert ein Fort, um von dort aus unter anderem mit Sklaven zu handeln. „Selbst nach dem sogenannten Verlust der Kolonien hat Europa maßgeblich von der Ausbeutung des Kontinents profitiert, das gilt auch für Deutschland“, sagt Della.

      Viele Menschen in diesem Land setzen sich aktuell zum ersten Mal mit dem Unrechtssystem des Kolonialismus auseinander und den Privilegien, die sie daraus gewinnen. Und wenn es um Privilegien geht, verhärten sich schnell die Fronten. Weshalb aus einer Debatte um die Umbenennung von kolonialen Straßennamen in den Augen einiger ein Streit zwischen linkem Moralimperativ und übervorteiltem Bürgertum wird. Ein Symptom der vermeintlichen Empörungskultur unserer Gegenwart.

      Ein unscheinbares Café im Schatten eines großen Multiplexkinos, ebenfalls im Sommer 2019. Vor der Tür schiebt sich der Verkehr langsam die Müllerstraße entlang, dahinter beginnt das Afrikanische Viertel. Drinnen warten Johann Ganz und Karina Filusch, die beiden Sprecher der Initiative Pro Afrikanisches Viertel.
      Die Personen sind belastet, aber die Namen sollen bleiben

      Ganz, Anfang 70, hat die Bürgerinitiative 2010 ins Leben gerufen. Sie wünschen sich eine Versachlichung. Er nennt die betreffenden Straßennamen im Viertel „ohne Weiteres belastet“, es sei ihm schwergefallen, sie auf Veranstaltungen zu verteidigen. Warum hat er es dennoch getan?

      Seine Haltung damals: Die Personen sind belastet, aber die Straßennamen sollten trotzdem bleiben.

      „Da bin ich für die Bürger eingesprungen“, sagt Ganz, „weil die das absolut nicht gewollt haben.“ Und Filusch ergänzt: „Weil sie nicht beteiligt wurden.“

      Allein, das mit der fehlenden Bürgerbeteiligung stimmt so nicht. Denn es gab sie – obwohl sie im Gesetz eigentlich gar nicht vorgesehen ist. Für die Benennung von Straßen sind die Bezirksverwaltungen zuständig. Im Falle des Afrikanischen Viertels ist es das Bezirksamt Mitte. Dort entschied man, den Weg über die Bezirksverordnetenversammlung zu gehen.
      Anwohner reichten 190 Vorschläge ein

      In einem ersten Schritt bat man zunächst die Anwohner, Vorschläge für neue Namen einzureichen, kurze Zeit später dann alle Bürger Berlins. Insgesamt gingen etwa 190 Vorschläge ein, über die dann eine elfköpfige Jury beriet. In der saß neben anderen zivilgesellschaftlichen Akteuren auch Tahir Della, als Vertreter der Schwarzen Community. Nach Abstimmung, Prüfung, weiteren Gutachten und Anpassungen standen am Ende die neuen Namen fest, die Personen ehren sollen, die im Widerstand gegen die deutsche Kolonialmacht aktiv waren.

      Die #Lüderitzstraße soll in Zukunft #Cornelius-Fredericks-Straße heißen, der Nachtigalplatz in Manga-Bell-Platz umbenannt werden. Die Petersallee wird in zwei Teilstücke aufgeteilt, die #Anna-Mungunda-Allee und die #Maji-Maji-Allee. So der Beschluss des Bezirksamts und der Bezirksverordnetenversammlung im April 2018. Neue Straßenschilder hängen aber bis heute nicht.

      Was vor allem am Widerstand der Menschen im Viertel liegt. Mehrere Anwohner haben gegen die Umbenennung geklagt, bis es zu einer juristischen Entscheidung kommt, können noch Monate, vielleicht sogar Jahre vergehen.

      Eine Generation will endlich gehört werden

      Auf der einen Seite ziehen sich die Prozesse in die Länge, auf der anderen steigt die Ungeduld. Wenn Tahir Della heute an die jüngsten Proteste im Kontext von „Black Lives Matter“ denkt, sieht er vor allem auch eine jüngere Generation, die endlich gehört werden will. „Ich glaube nicht, dass es gleich nachhaltige politische Prozesse in Gang setzt, wenn die Statue eines Versklavungshändlers im Kanal landet“, sagt Della, „aber es symbolisiert, dass die Leute es leid sind, immer wieder sich und die offensichtlich ungerechten Zustände erklären zu müssen.“

      In Zusammenarbeit mit dem Berliner Peng-Kollektiv, einem Zusammenschluss von Aktivisten aus verschiedenen Bereichen, hat die Initiative kürzlich eine Webseite ins Leben gerufen: www.tearthisdown.com/de. Dort findet sich unter dem Titel „Tear Down This Shit“ eine Deutschlandkarte, auf der alle Orte markiert sind, an denen beispielsweise Straßen oder Plätze noch immer nach Kolonialverbrechern oder Kolonialverbrechen benannt sind. Wie viel Kolonialismus steckt im öffentlichen Raum? Hier wird er sichtbar.

      Bemühungen für eine Umbenennung gibt es seit den Achtzigerjahren

      Es gibt viele Organisationen, die seit Jahren auf eine Aufarbeitung und Auseinandersetzung mit dem Unrecht des Kolonialismus drängen. Zwei davon sitzen im Wedding, im sogenannten Afrikanischen Viertel: EOTO, ein Bildungs- und Empowerment-Projekt, das sich für die Interessen Schwarzer, afrikanischer und afrodiasporischer Menschen in Deutschland einsetzt, und Berlin Postkolonial.

      Einer der Mitbegründer dieses Vereins ist der Historiker Christian Kopp. Zusammen mit seinen Kollegen organisiert er Führungen durch die Nachbarschaft, um über die Geschichte des Viertels aufzuklären. Denn Bemühungen, die drei Straßen umzubenennen, gibt es schon seit den achtziger Jahren.

      Kopp erzählt auch von der erfolgreichen Umbenennung des Gröbenufers in Kreuzberg im Jahr 2010, das seitdem den Namen May-Ayim-Ufer trägt. „Vor zehn Jahren wollte niemand über Kolonialismus reden“, sagt Kopp. Außer man forderte Straßenumbenennungen. „Die Möglichkeit, überhaupt erst eine Debatte über Kolonialismus entstehen zu lassen, die hat sich wohl vor allem durch unsere Umbenennungsforderungen ergeben.“

      Rassismus und Raubkunst

      2018 haben sich CDU und SPD als erste deutsche Bundesregierung überhaupt die „Aufarbeitung des Kolonialismus“ in den Koalitionsvertrag geschrieben. Auch die rot-rot-grüne Landesregierung Berlins hat sich vorgenommen, die Rolle der Hauptstadt in der Kolonialzeit aufzuarbeiten.

      Es wird öffentlich gestritten über das koloniale Erbe des Humboldt-Forums und dem Umgang damit, über die Rückgabe von kolonialer Raubkunst und die Rückführung von Schädeln und Gebeinen, die zu Zwecken rassistischer Forschung einst nach Deutschland geschafft wurden und die bis heute in großer Zahl in Sammlungen und Kellern lagern.

      Auch die Initiative Pro Afrikanisches Viertel hat ihre Positionen im Laufe der vergangenen Jahre immer wieder verändert und angepasst. War man zu Beginn noch strikt gegen eine Umbenennung der Straßen, machte man sich später für eine Umwidmung stark, so wie es 1986 schon mit der Petersallee geschehen ist. Deren Name soll sich nicht mehr auf den Kolonialherren Carl Peters beziehen, sondern auf Hans Peters, Widerstandskämpfer gegen den Nationalsozialismus und Mitglied des Kreisauer Kreises.

      Straßen sollen vorzugsweise nach Frauen benannt werden

      Heute ist man bei der Initiative nicht mehr für die alten Namen. Für die neuen aber auch nicht wirklich. Denn diese würden nicht deutlich genug im Kontext deutscher Kolonialgeschichte stehen, sagt Karina Filusch, Sprecherin der Initiative. Außerdem würden sie sich nicht an die Vorgabe halten, neue Straßen vorzugsweise nach Frauen zu benennen.

      An Cornelius Fredericks störe sie der von den „Kolonialmächten aufoktroyierte Name“. Und Anna Mungunda habe als Kämpferin gegen die Apartheid zu wenig Verbindung zum deutschen Kolonialismus. Allgemein wünsche sie sich einen Perspektivwechsel, so Filusch.

      Ein Perspektivwechsel weg von den weißen Kolonialverbrechern hin zu Schwarzen Widerstandskämpfern, das ist das, was Historiker Kopp bei der Auswahl der neuen Namen beschreibt. Anna Mungunda, eine Herero-Frau, wurde in Rücksprache mit Aktivisten aus der Herero-Community ausgewählt. Fredericks war ein Widerstandskämpfer gegen die deutsche Kolonialmacht im heutigen Namibia.
      Bezirksamt gegen Bürger? Schwarz gegen Weiß?

      Für die einen ist der Streit im Afrikanischen Viertel eine lokalpolitische Auseinandersetzung zwischen einem Bezirksamt und seinen Bürgern, die sich übergangen fühlen. Für die anderen ist er ein Symbol für die nur schleppend vorankommende Auseinandersetzung mit der deutschen Kolonialgeschichte.

      Wie schnell die Dinge in Bewegung geraten können, wenn öffentlicher Druck herrscht, zeigte kürzlich der Vorstoß der Berliner Verkehrsbetriebe. Angesichts der jüngsten Proteste verkündete die BVG, die U-Bahn-Haltestelle Mohrenstraße in Glinkastraße umzutaufen.

      Ein Antisemit, ausgerechnet?

      Der Vorschlag von Della, Kopp und ihren Mitstreitern war Anton-W.-Amo- Straße gewesen, nach dem Schwarzen deutschen Philosophen Anton Wilhelm Amo. Dass die Wahl der BVG zunächst ausgerechnet auf den antisemitischen russischen Komponisten Michail Iwanowitsch Glinka fiel, was viel Kritik auslöste, offenbart für Della ein grundsätzliches Problem: Entscheidungen werden gefällt, ohne mit den Menschen zu reden, die sich seit Jahrzehnten mit dem Thema beschäftigen.

      Am Dienstag dieser Woche ist der Berliner Senat einen wichtigen Schritt gegangen: Mit einer Änderung der Ausführungsvorschriften zum Berliner Straßengesetz hat er die Umbenennung umstrittener Straßennamen erleichtert. In der offiziellen Mitteilung heißt es: „Zukünftig wird ausdrücklich auf die Möglichkeit verwiesen, Straße umzubenennen, wenn deren Namen koloniales Unrecht heroisieren oder verharmlosen und damit Menschen herabwürdigen.“

      https://www.tagesspiegel.de/gesellschaft/petersallee-nachtigalplatz-wenn-strassennamen-zum-problem-werden-419073

  • Leben und Sterben auf dem Fluss: auf den Hausbooten in Rummelsburg
    https://www.berliner-zeitung.de/mensch-metropole/feiern-musik-und-drogen-ueber-das-leben-auf-den-hausbooten-in-rumme

    https://m.kauperts.de/Strassen/Rummelsburger-See-10317-Berlin

    https://www.openstreetmap.org/way/10295991#map=14/52.4916/13.4768

    21.8.2022 von Ode Maria Punamäe - Vom Rummelsburger Ufer aus sind sie gut zu sehen. Oder auch vom Treptower Park aus: mehrere Boote, die auf der Mitte des Flusses zusammengebunden sind. Sie wirken fast wie schwimmende Inseln, sie bewegen sich nur leicht, wie im Fluss verankert. Manchmal kann man Menschen sehen, die darauf herumlaufen. Wer lebt dort? Juan sitzt am Ufer der Rummelsburger Bucht. Er sagt: „Ja, ich wohne auf einem der Boote.“ Und: „Klar, komm mit, ich zeig es dir, mein Zuhause.“

    Boot 1: „Berlin ist so anstrengend und stressig“

    Eine Minute später fährt Juan mit seinem kleinen Motorboot herum, vorbei an mehreren Hausbooten. Einige sehen aus, als würden sie bald zusammenfallen oder untergehen. Andere sind größer und schicker. Eine ältere Frau winkt im Vorbeifahren. „Für viele Menschen hier“, sagt Juan, „ist das Boot ihr einziges Zuhause.“ Das sei bei rund der Hälfte der Menschen der Fall.

    Nach ein paar Minuten Fahrt steigen wir auf sein Boot. Als der Motor abgestellt ist, wird es plötzlich ganz still. Kein Großstadtlärm ist mehr zu hören, nur das Rauschen der Wellen und leise Musik aus einem kleinen Radio irgendwo. Aber die Musik kommt nicht von Juans Boot, sondern von einem der anderen Boote, die mit seinem verbunden sind. Die Boote haben sich zusammengeschlossen, vor allem aus Sicherheitsgründen: Wenn einer der Bewohner ans Ufer fährt, kann ein anderer sein Haus im Auge behalten.

    Juans Freundin heißt Tatjana, sie wohnt mit ihm schon seit längerem auf dem Boot. „Das ist gut für die Seele“, sagt sie. „Ich bin hier viel mehr mit der Natur verbunden.“ Sie habe zwar eine eigene Wohnung in der Stadt, aber so oft wie möglich sei sie auf dem Boot. Im September wird sie ihre Wohnung in Friedrichshain ganz aufgeben. „Ich mag nicht, dass mein ganzes Geld für die Miete draufgeht“, sagt sie, „außerdem habe ich mich schon daran gewöhnt, auf dem Wasser zu leben.“ Wenn es im Winter zu kalt werde, könne sie in der Wohnung ihrer Mutter schlafen.

    Es ist meine Entscheidung, auf dem Boot zu leben. Torsten, Ex-Lkw-Fahrer

    In den Sommermonaten, so berichten es die Bewohner, ist das Leben leicht. Die Leute unternehmen etwas zusammen, verbringen fröhliche Nächte miteinander. Im Winter ist die Atmosphäre etwas rauer, und die Leute, die das ganze Jahr über hier wohnen, geraten leichter in Streit. Gerade dann wird klar, dass man die Gemeinschaft der anderen braucht. Immer ist etwas zu reparieren, und allein wird es schnell langweilig.

    Tatjana ist in Berlin geboren, aber hat die Stadt nie wirklich gemocht. „Berlin ist so anstrengend und stressig“, sagt sie. „Ich habe dort auch nie richtig gute Freunde gefunden.“ Auf dem Fluss habe sie das Gefühl, zu einer Gemeinschaft zu gehören. „Wir haben alle die gleiche Leidenschaft für Boote und Wasser.“ Aber das heißt nicht, dass es keine Probleme gebe.

    Boot 2: „Irgendwann geht es wahrscheinlich nicht mehr“

    Ein kleines Boot schwimmt vorbei. Es ist beladen mit Baumstämmen, Seilen und allerlei Baumaterial. Inmitten all dieser Dinge sitzt Torsten, der gerade aus seinem Bootshaus gekommen ist. Der 59-jährige Mann lebt seit neun Jahren auf dem Fluss. Früher hat er als Lkw-Fahrer gearbeitet, jetzt lässt seine Gesundheit das nicht mehr zu. „Es ist meine Entscheidung, auf einem Boot zu leben.“ Bis vor zwei Jahren war er Teil der größten Bootsinsel in der Mitte der Spree, „Neu-Lummerland“. Aber Torsten erzählt, das sie sich entschieden haben, auseinander zu fahren, wegen interner Spannungen, aber auch wegen der vielen Regeln des Senats.

    Mit den Jahren sei es immer schwieriger geworden, eine Stelle zu finden, wo man ankern darf. Außerdem gibt es immer mehr Vorschriften für den Bau eines Hausboots: Die Boote dürfen eine bestimmte Größe nicht überschreiten und wenn doch, werden sie sofort ans Ufer geschickt. Die Wasserschutzpolizei fährt jeden Tag eine Runde und fordert die Boote manchmal auf, näher ans Ufer zu rücken oder fragt nach ihren Papieren.

    Torsten aber fühlt sich wohl hier. „Die Gruppe der Rummelsburger Bootshausgemeinde ist in den letzten Jahren sogar gewachsen“, sagt er, „wohl auch, weil die Mieten in der Stadt immer höher werden.“ Er glaubt, dass es bald keinen Platz mehr auf dem Wasser für neue Leute geben wird. „Es gibt auch immer mehr Geschäfte und Touristenboote.“ Gentrifizierung ist auch auf dem Wasser ein Thema. Ob Torsten hier für den Rest seines Lebens bleibe, weiß er noch nicht. „Irgendwann geht es wahrscheinlich einfach nicht mehr“, sagt er, „weil es anstrengend ist und ich älter werde.“

    Boot 3: „Das Einzige, was fehlt, ist eine Kirche“

    Nicht jeder Bootsbewohner will öffentlich sprechen. Manche sind hier, weil sie sich von der Stadt und auch von der Welt abgrenzen wollen. Da ist Candy, der gerade sein Boot bemalt. Der 51-Jährige hat an einer Reality-Show teilgenommen und hat kein Problem mit Öffentlichkeit: „Ich bin sowieso überall im Internet.“ Er lebt erst seit einer Woche auf dem Boot und besucht einen Freund. Es sei wie überall: Manche wollen Partys, andere nur Geld verdienen. „Das hier ist wie ein Dorf in der Stadt“, sagt Candy, „das Einzige, was fehlt, ist eine Kirche."

    Tatsächlich, wer genauer hinblickt, merkt: Hier auf dem Fluss lebt ein Querschnitt der Berliner Gesellschaft. Es gibt Obdachlose, die von staatlicher Hilfe leben, direkt neben gutverdienenden IT-Spezialisten, deren Boot ihr Homeoffice ist, bis hin zu reichen Geschäftsleuten, die Bootsfahrten für Touristen anbieten. Manche leben hier, weil sie nichts Besseres gefunden haben, aber die meisten schlafen einfach lieber auf dem Wasser.

    Candy zeigt auf die Wohnhäuser direkt am Fluss und erzählt von den Leuten in den schicken Wohnungen mit Wasserblick. Der Unterschied könnte größer nicht sein. Eine 3-Zimmer-Wohnung koste hier rund eine Million Euro, das billigste Boot sei nur 1000 bis 2000 Euro wert. Die Menschen auf dem Fluss haben eine WhatsApp-Gruppe mit über 300 Mitgliedern. Dort reden sie über nötige Reparaturen von Booten, sie fragen, ob jemand ein Kanu vermisse oder schimpfen über die Reichen am Ufer. Im Chat gibt es aber auch einige Nachrichten, die von einer Person handeln, die letzte Woche auf ihrem Boot verstorben ist.

    Boot 4: „Wir versuchen, ihm zu helfen, ins Leben zurückzukehren“

    Alle Bewohner auf den ersten drei Booten haben einen „Kapitän“ erwähnt. Zum Abschluss der Tour fährt Juan noch ein dunkelrotes Boot an. Es ist, so sagt man sich, das älteste Boot im Fluss, 135 Jahre alt ist es. „Das ist der Maestro“, sagt Juan und zeigt auf einen langhaarigen Türken namens Cahit. Der 61-Jährige ist der, zu dem alle kommen, wenn es Probleme gibt. „Ich bin so etwas wie ein Friedensstifter", sagt Cahit. Mal hat jemand ein Paddel gestohlen, mal ist Benzin verschwunden. „Es ist ein Kindergarten hier!“ Nur Gewalt wird nicht geduldet. Wer schlägt, der muss ans Ufer.

    Cahits Boot liegt seit drei Jahren an der Rummelsburger Bucht, er lebt seit 25 Jahren auf diesem Boot. Sein Zimmer ist nur zehn Quadratmeter groß, in einer Ecke ist die Toilette, einen Meter weiter die Küche. Ein Bett, ein Tisch. Mehr brauche er nicht. In 25 Jahren ist sein Boot zweimal gesunken und wieder zusammengebaut worden, und das sieht man auch, es sieht abgenutzt aus. Trotzdem will Cahit für immer auf diesem Boot bleiben. Er könne nicht mehr in einem Haus leben, dann würde er sich wie eingesperrt fühlen.

    Zweimal pro Woche macht er Musik in den Clubs. Der Mann hat weder eine Krankenversicherung noch ein Bankkonto, aber das Geld, das er durch das Auflegen von Techno und Elektro in den Clubs verdient, reicht ihm. „Im Gegensatz zu mir leben hier viele Leute vom Staat“, sagt er.

    Neulich sei die Gemeinschaft wieder gewachsen. Das war im letzten Winter, da schliefen sieben Leute direkt am Ufer in einem Busch. Damals war ein Boot übrig, sie luden die Menschen auf das Boot und diese blieben bis heute. Sie leben jetzt wie eine Gemeinschaft zusammen und sind sehr dankbare Menschen.

    Am Ende erzählt Cahit von dem toten Mann aus dem WhatsApp-Chat. Der Mann, der letzte Woche auf einem Boot gestorben ist, war der siebte Tote, den Cahit in seinen drei Jahren hier gesehen hat. „Einer war Alkoholiker, die anderen hatten eine Überdosis Speed oder Kokain, alles Mögliche.“ Man könne den Drogenkonsum auf den Booten nicht regulieren. „Aber wenn wir sehen, dass jemand zu viel nimmt, versuchen wir einfach, ihm zu helfen, wieder ins Leben zurückzukehren.“

    Der Kapitän zeigt auf einen kleinen Zettel an einer Wand. Er erzählt, dass er statt zu Gott zur Mutter Erde bete. Auf dem Zettel habe er Regeln aufgeschrieben, um besser mit Mutter Erde zusammenzuleben. Mit grünem Filzstift stehen dort zehn Wörter untereinander: Liebe, Empathie, Glücklich sein, Wissen, Verantwortung, Vergebung, Dankbarkeit, Respekt, Ehrlichkeit, Nachhaltigkeit. Candy hatte gesagt, dass es in diesem seltsamen Dorf keine Kirche gibt. Wenn es eine gebe, dann wäre es dieses alte Boot des Kapitäns.

    #Berlin #Lichtenberg #Treptow-Köpenick #Treptow #Rummelsburg #Wohnen #Rummelsburger_Bucht #Rummelsburger_See #Fladchenkai #Fischzug #Nixenkanal #Bartholomäusufer #Paul_und_Paula-Ufer #Hansa-Ufer #Bolleufer #Zillepromenade #Alt-Stralau #Tunnelstraße #Gustav-Holzmann-Straße #Zur_alten_Flussbadeanstalt #Liebesinsel #Kratzbruch

    #Insel_der_Jugend
    https://www.openstreetmap.org/way/22769137
    #Bulgarische_Straße

    #Regattaufer #Caroline-Tübbecke-Ufer

  • [BD] #Margarethe_Hardegger (1882-1963)
    https://www.partage-noir.fr/bd-margarethe-hardegger-1882-1963

    Margarethe Hardegger naît le 20 février 1882 à Berne (Suisse). Adhérant aux idées socialistes, elle fonde à 23 ans son premier syndicat au sein de l’Association bernoise des travailleurs du textile. MLT & OLT

    / Margarethe Hardegger, #Gustav_Landauer

    #MLT_&_OLT

  • Allemagne, un mouvement anarchiste méconnu
    https://www.partage-noir.fr/allemagne-un-mouvement-anarchiste-meconnu

    L’histoire du mouvement anarchiste allemand est à peu près inconnue eh France. Certes, on a entendu parler de militants comme #Gustav_Landauer, #Erich_Mühsam ou #Rudolf_Rocker sans pour autant saisir la portée réelle de leur engagement ni avoir une approche conséquente du mouvement anarchiste organisé. Ce manque de connaissance est en partie lié à l’absence de traductions des ouvrages laissés par ces grands défenseurs de l’anarchie. Pourtant, l’histoire du mouvement anarchiste allemand est riche. Les (...) [Partages noirs]

    / Erich Mühsam, Gustav Landauer, Rudolf Rocker, #Ernst_Toller, #Itinéraire_-_Une_vie,_une_pensée, [Source : (...)

    #[Partages_noirs] #[Source :_@narlivres]
    https://www.partage-noir.fr/IMG/pdf/itineraire_rocker2-2.pdf

  • #Gustav_Landauer (1870-1919)
    https://www.partage-noir.fr/gustav-landauer-1870-1919

    Ce texte est la traduction réalisée par Michel Hirtzler (TAC) d’un texte consacré à Gustav Landauer et publié dans le numéro 54 de la revue Anarchy. Cette traduction est parue en décembre 1966 dans le numéro 1 de Recherches libertaire-. #Partages_noirs

    / Gustav Landauer, #Erich_Mühsam, Révolution allemande (1918-1919], #Ernst_Toller

    #Révolution_allemande_1918-1919]
    http://archivesautonomies.org/spip.php?article2118

  • Maltraitances dans un institut pour enfants sourds : les tutelles regardent ailleurs - Page 1 | Mediapart
    https://www.mediapart.fr/journal/france/050421/maltraitances-dans-un-institut-pour-enfants-sourds-les-tutelles-regardent-

    #Violences verbales, physiques et psychologiques, #tentatives_de_suicide et de #fugue : à l’Institut public #Gustave-Baguer, qui accueille des #enfants #sourds et #handicapés, les incidents se multiplient depuis l’arrivée d’un nouveau directeur. Alertée depuis plus d’un an, l’agence régionale de santé ne réagit toujours pas.

  • Petit guide de survie - Fiches pratiques pour entreprendre des projets musicaux
    https://www.culture.gouv.fr/Regions/Drac-Grand-Est/Actualites/Actualites-Creation/Petit-guide-de-survie-Fiches-pratiques-pour-entreprendre-des-projets-mu

    Parution le 15.02.2020

    Réalisé sous forme de fiches pratiques, présentées par thématiques, ce guide, disponible gratuitement en version pdf ou papier, a pour ambition de clarifier les informations essentielles à connaitre pour les porteurs de projet musical, afin de leur permettre de développer leur projet en toute sérénité.

    Bah ce guide récent est bien fait et relativement complet !
    #musiciens #spectacle #intermittence #guso #conventions_collectives #concerts ...

  • Considérations sur les temps qui courent (IIIb)

    Georges Lapierre

    https://lavoiedujaguar.net/Considerations-sur-les-temps-qui-courent-IIIb

    Le fil qui, de nos jours, lie la production à l’échange est perdu chez ceux qui travaillent à la production d’un bien à échanger. Ce fil n’est pas perdu pour tout le monde, il n’est pas perdu pour les banquiers et ceux que l’on dit capitalistes qui ont investi de l’argent dans la production d’une marchandise et qui comptent bien le récupérer avec intérêt quand la marchandise entrera dans le vaste circuit des échanges. Les ouvriers, eux, vont travailler pour un salaire, pour un moment de l’argent, pour un moment dans le mouvement de la pensée, pour un moment éphémère englouti dans le mouvement général de l’argent ; le mouvement lui-même et son universalité leur échappe et il ne les concerne pas, ils n’ont que le particulier de l’argent, l’argent pauvre.

    La production intensive, la création des usines, la révolution industrielle, ce que l’on nomme encore avec plus de justesse la domestication industrielle, aura marqué les esprits, celui de Karl Marx ou celui de Karl Polanyi et celui de bien d’autres théoriciens du marché, comme si l’activité marchande et ce qu’ils appellent le capitalisme devaient commencer à cette époque. (...)

    #anthropologie #Malinowski #Marx #Polanyi #échange #marchandises #salaire #domestication #capitalisme #argent #Gustav_Landauer #Pierre_Clastres #pensée_magique #esprit #aliénation #État

  • Gustav Landauer
    Appel au socialisme

    Renaud Garcia

    https://lavoiedujaguar.net/Gustav-Landauer-Appel-au-socialisme

    Il est peu de textes alliant au même degré profondeur philosophique, acuité politique et beauté stylistique. Joyau de la littérature socialiste, l’Appel au socialisme de Gustav Landauer est de ceux-là. Né en 1870 à Karlsruhe, en Allemagne, Landauer fut un révolutionnaire sa vie durant, toujours à contretemps des tendances idéologiques de son époque. Lecteur de Spinoza, Schopenhauer et Nietzsche, il est exclu de l’université à vingt-trois ans et considéré par les services de l’empire comme l’« agitateur le plus important du mouvement révolutionnaire radical ». Il collabore à plusieurs journaux, participe à la fondation de théâtres populaires, essuie des peines de prison au tournant du siècle pour incitation à l’action révolutionnaire — temps pendant lequel il se livre notamment à la traduction des écrits du mystique médiéval Maître Eckhart. Par la suite, il se fera passeur décisif en langue allemande de textes de Proudhon, Kropotkine, Mirbeau, La Boétie, avant d’être à l’origine de multiples expérimentations (notamment le journal Der Sozialist) et groupements socialistes, dont le plus connu fut l’Alliance socialiste (qui aurait compté à son apogée une quinzaine de groupes de dix à vingt membres chacun). Commissaire à l’Instruction publique et à la Culture fortement impliqué dans la république des conseils de Bavière, Landauer meurt lynché par un groupement de corps francs en mai 1919. (...)

    #Gustav_Landauer #Renaud_Garcia #socialisme #anarchisme #Allemagne #Maître_Eckhart #révolution #communauté #marxisme #décroissance #Jacques_Ellul #consommation #coopératives #Moyen_Âge #Anthropocène

  • Le possible d’un monde sans inégalités et sans injustices | Entre les lignes entre les mots
    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2020/02/12/le-possible-dun-monde-sans-inegalites-et-sans-injustice

    Profitant de la parution récente du livre « Twitter & les gaz lacrymogènes », cette année, C&F propose un petit livre numérique autour de Zeynep Tufekci, intitulé « Le monde révolté : Zeynep Tufekci, une sociologue engagée », ce livre contient :

    un texte autobiographique très émouvant de Zeynep Tufekci à propos de sa grand-mère, dont elle parle dans le livre ;

    un texte de Gustave Massiah qui commence par sa propre lecture du livre pour s’étendre sur les questions soulevées pour les mouvements sociaux connectés à la lueur de son expérience et de son engagement.

    Ce livre numérique est disponible gratuitement sur le site :

    https://cfeditions.com/monde-revolte

    Sans (re)faire) une analyse du livre ou du texte de Gus Massiah, je souligne quelques éléments pour inciter à lire ce petit livre gratuit ainsi que le livre paru en 2019.

    #Zeynep_Tufekci #Gustave_Massiah

  • La révolte à l’ère du numérique : nouvelle efficacité, nouvelles faiblesses
    https://reporterre.net/La-revolte-a-l-ere-du-numerique-nouvelle-efficacite-nouvelles-faiblesses

    par Gustave Massiah

    Dans « Twitter et les gaz lacrymogènes », Zeynep Tufekci analyse de manière remarquable la nouvelle génération de mouvements sociaux marqués par l’ère numérique. Si les réseaux sociaux accélèrent les mobilisations, l’espace public numérique dépend des monopoles de l’économie du web.

    Pour Zeynep Tufekci, l’espace public connecté modifie la sociabilité des mouvements sociaux et leurs formes de mobilisation. La connectivité numérique permet de partager des liens faibles contrairement à la culture politique qui organisait des liens forts, souvent exclusifs — ce qui est nouveau et considérable. Internet connecte presque toutes les régions de la planète, des ordinateurs sont dans toutes les poches, les algorithmes influencent les décisions dans toutes les sphères de la vie.

    L’idée de fonctionner sans organisation formelle, sans leader, sans infrastructures importantes, remonte aux années 1960. Les mouvements sans leader n’ont pas de porte-parole désigné, pas de leader élu ou institutionnel. Ils courent moins le risque d’être décapités par l’arrestation, la cooptation ou la corruption d’une poignée de chefs. L’absence de structures décisionnelles conduit cependant à ce que Zeynep Tufekci nomme « une paralysie tactique ». Elle cite ainsi « La tyrannie de l’absence de structure », un article de la militante féministe Jo Freeman, écrit en 1970. Cette absence rend difficile le règlement des désaccords et la capacité de négocier.

    #Zeynep_Tufekci #Gustave_Massiah #Mouvements_sociaux #C&F_éditions

    • Le livre a l’air bien. Sur le même sujet, j’en profite pour reposter cet article qui était déjà mauvais il y a dix ans, avec Lincoln et Obama présentés comme des modèles démocratiques.

      Démocratie & Internet à l’ère du numérique - Revue Critique d’Ecologie Politique
      http://ecorev.org/spip.php?article854

      De même, alors que dans son roman 1984
      Orwell critique le communisme de 1948 qui
      n’a nul besoin de l’internet pour contrôler la
      population, il est étonnant de voir revenir sans
      cesse l’argument selon lequel l’informatique
      permettrait « l’Orwellisation » de la société [2] ;
      d’autant que les technologies de surveillance
      peuvent au contraire alléger la surveillance
      effective et les forces de répression en étant
      détournées [3].

      Dans la ligne de la conclusion de L’immatériel,
      nous postulons avec André Gorz que l’informatique
      est une « technique ouverte », un « outil
      convivial » (Illich), profitable à une écologie
      définie comme « homéotechnique » (Sloterdijk).
      A nous de nous focaliser sur l’essentiel : défendre notre liberté. En permanence à
      reconquérir, elle est le fruit de l’aptitude des
      humains à redéfinir l’autonomie et à mettre en
      œuvre la démocratie dans un contexte social
      et technologique donné. De ce point de vue,
      l’internet renferme un extraordinaire potentiel
      d’expression des droits civiques et de communication
      des valeurs humaines (Manuel
      Castells).

      Internet c’est en effet la parole donnée à
      chacun sans exclusive et quel que soit son
      handicap, y compris celui d’appartenir à
      une classe sociale défavorisée. Wikipédia en
      est un exemple édifiant. La diffusion du
      savoir et des connaissances n’est pas conditionnée
      par le statut social de l’individu mais
      par le contenu même de sa production.
      L’évaluation des diplômes ne vient pas court-circuiter
      sa participation. Pour autant il n’y
      est pas produit n’importe quoi, grâce au
      développement d’une vigilance critique qui
      en régule le contenu.

      « Face aux questions et métriques que
      produisent les pratiques sur l’internet,
      l’autorégulation et la critique constructive
      des internautes eux-mêmes sont peut-être les
      réponses les plus intéressantes au défi qui est
      lancé en terme de démocratie. » (Hubert
      Guillaud)

      Internet c’est ainsi l’intelligence collective au
      bénéficie de tou-te-s et la possibilité d’un
      travail collaboratif qui permet à des
      individus isolés d’entrer en contact, de se
      mobiliser et de participer à des actions
      collectives, comme ce fut le cas à Seattle
      avec la coordination internationale des altermondialistes
      via la toile, ou encore pour la
      mobilisation des malades du Sida à l’échelle
      mondiale.

      Les outils de diffusion de cette intelligence
      collective sont d’ores et déjà opérationnels.

      Toujours dans cette idée de diffusion
      démocratique, la télémédecine et le téléenseignement,
      pratiques encore trop peu
      développées principalement par manque de
      volonté politique, pourraient dès aujourd’hui
      améliorer grandement la qualité de l’accès
      aux soins et aux savoirs.

      L’Internet est une agora planétaire qui met à
      mal les hiérarchies des ordres anciens distinguant
      auteurs et lecteurs, experts et profanes.
      la mise en lien via ce réseau permet la
      construction d’une intelligence collective de
      manière horizontale : une construction qui
      parie sur la confiance et l’expertise des
      individus et se fonde sur l’interactivité entre
      citoyens et citoyennes responsables.
      Le partage, maître mot du réseau comme de
      la démocratie, est inscrit dans l’histoire de la
      toile.

      C’est à ces usages que peut s’adosser l’écologie-
      politique, et permettre enfin une façon
      plus écologique de faire de la politique,
      grâce à une démocratie des minorités ancrée
      dans le local, et le face à face, à l’opposé de
      toute dictature majoritaire, pouvant constituer
      à terme une véritable démocratie cognitive
      en interaction entre agir local et pensée
      globale (Jean Zin).

      Je sais pas comment ils ont fait pour faire du retour-chariot dans tout le texte...

  • #Augustin_Souchy 1 - Attention : anarchiste ! [21]
    https://www.partage-noir.fr/augustin-souchy-1-attention-anarchiste-21

    Quand Albert Jensen retrouva la liberté après avoir purgé sa peine, ses compagnons d’idées lui réservèrent accueil solennel à Malmö, auquel je tins à participer en compagnie de quelques amis de Copenhague. Augustin Souchy 1 - Attention : anarchiste !

    / Augustin Souchy, #Gustav_Landauer

    #Augustin_Souchy_1_-_Attention :_anarchiste !