• #Serbia – No Name Kitchen denuncia violenza e abusi di potere
    https://www.meltingpot.org/2024/06/serbia-no-name-kitchen-denuncia-violenza-e-abusi-di-potere

    Di Sofia Fanfani. Mercoledì 22 maggio No Name Kitchen ha pubblicato “Watch the camp: countermapping architectures of violence in Serbia”, un report di denuncia in cui vengono messe in luce le inaccettabili condizioni di vita all’interno di sei campi profughi serbi . Il progetto è il risultato di tre mesi di monitoraggio, da settembre a dicembre 2023. Tra servizi negati, violenti sgomberi e abusi di potere, le autrici svelano la corresponsabilità dell’UE e dell’UNHCR nella violazione dei diritti umani all’interno dei campi profughi serbi nel contesto dell’operazione speciale di polizia. Joint Action Against People Smuggling Come si evince dal (...)

    #Rapporti_e_dossier #Balcani #Confine_tra_Serbia_e_Ungheria #Confini_e_frontiere #CPR,_Hotspot,_CPA #Solidarietà_e_attivismo #Violazioni_e_abusi

  • 17 mars 2024 | Alain Marshal | Le Club
    https://blogs.mediapart.fr/alain-marshal/blog/170324/norman-finkelstein-les-accusations-de-crimes-sexuels-contre-le-hamas

    Norman Finkelstein, fils de survivants d’Auschwitz & du ghetto de Varsovie et autorité mondiale sur la Palestine, analyse le rapport de l’ONU sur les violences sexuelles commises le 7 octobre. Il établit que les preuves avancées sont très minces et conclut que l’allégation du recours par le Hamas au viol comme arme de guerre est aussi infondée que celle du bunker militaire sous l’hôpital al-Shifa.

    Les passages cités en italique dans cet article sont tirés du résumé et du corps du rapport de la mission Patten. ( ...)

    https://www.un.org/sexualviolenceinconflict/wp-content/uploads/2024/03/report/mission-report-official-visit-of-the-office-of-the-srsg-svc-to-israel-and-the-occupied-west-bank-29-january-14-february-2024/20240304-Israel-oWB-CRSV-report.pdf

    Norman Finkelstein : les accusations de crimes sexuels contre le Hamas sont infondées
    Par Norman Finkelstein, le 11 mars 2024 | Traduction Alain Marshal
    #7oct #viols

    • 15 Witnesses, Three Confessions, a Pattern of Naked Dead Bodies. All the Evidence of Hamas Rape on October 7
      Liza Rozovsky | Apr 18, 2024 | Haaretz
      https://www.haaretz.com/israel-news/2024-04-18/ty-article-magazine/witnesses-confessions-naked-dead-bodies-all-the-evidence-of-hamas-rape-on-oct-7/0000018e-f114-d92e-abfe-f77f7e3f0000

      Hamas’ acts of rape on October 7 have turned into one of the massacre’s most contentious topics. Each testimony and detail that emerges is weaponized in the clash between Israel’s supporters and its opponents. Now, based on conversations with dozens of sources, a Haaretz investigation delineates which proof exists for sex crimes committed by Hamas – and what is missing

      It became one of the most talked-about and controversial issues relating to the October 7 massacre. New information is published on the subject weekly, sometimes daily. Every new piece of testimony that is uncovered, every new detail revealed, immediately turns volatile.

      On the one hand, pro-Palestinian websites are conducting an intensive campaign of denial, endeavoring to call into question the reliability of findings and testimonies. On the other hand, Israeli spokespersons latch onto every gut-wrenching report in their efforts to persuade the world of the truth of the atrocities that were perpetrated, and in some cases also invoke them in order to excoriate the enemy and score political points. At times it seems as though the acts of rape committed by Hamas terrorists during the massacre have become almost the whole story. (...)

  • Macron, en marche vers l’#extrême_droite ?
    https://www.youtube.com/watch?v=G43ZVd7wN60

    En 2017, puis en 2022, Emmanuel Macron a remporté l’élection présidentielle face à Marine Le Pen. Mais sa fascination pour l’extrême-droite et sa complaisance vis-à-vis d’empires médiatiques qui propagent la xénophobie contribuent à « booster » le Rassemblement national. Au second tour de la présidentielle de 2022, Marine Le Pen recueillait 41,8% des voix. Un record. Et le résultat d’une politique. Depuis 2017, interdictions de manifestations, arrestations arbitraires et surveillance généralisée sont utilisés par l’exécutif pour mater des révoltes populaires contre des politiques libérales imposées sans concertation, et considérées comme « anti pauvres ».
    Demain, l’Etat de droit et la devise républicaine « Liberté, égalité, fraternité » ne seront ils plus qu’un lointain souvenir ? Durant quatre mois, Thierry Vincent et Daphné Deschamps ont interviewé d’anciens macronistes déçus par la dérive autoritaire du président et des figures conservatrices et d’extrême-droite qui se réjouissent qu’Emmanuel Macron leur prépare un « boulevard » pour 2027.
    À quelques semaines des élections européennes, enquête au coeur d’une France en marche vers l’extrême droite.

    #Macron #Emmanuel_Macron #ni_de_droite_ni_de_gauche #de_droite_et_de_gauche #monarchisme #action_française #en_marche #jeanne_d'arc #Puy_du_Fou #11_novembre_2018 #Maréchal_Pétain #Pétain #décivilisation #Renaud_Camus #autoritarisme #macronisme #islamo-gauchisme #front_national (#FN) #arc_républicain #Jean-Michel_Blanquer #Amélie_de_Montchalin #front_républicain #Rassemblement_national (#RN) #Patrick_Vignal #intersectionnalité #gauche_radicale #extrême_gauche #France_insoumise #tenue_vestimentaire #habits #retraite #xénophobie #racisme #Elisabeth_Borne #Valeurs_Actuelles #migrations #connivence #symbole #Bruno_Roger-Petit #Bolloré #Vincent_Bolloré #médias #groupe_Bolloré #François_Coty #punaises_de_lit #bouc_émissaire #Pascal_Praud #grand_remplacement #Pap_Ndiaye #Rima_Abdul_Malak #Rachida_Dati #Cyril_Hanouna #Geoffroy_Lejeune #Journal_du_Dimanche (#JDD) #Gérald_Darmanin #conservatisme #homophobie #homosexualité #violences_policières #loi_immigration #préférence_nationale

  • #COLD_CASES

    These three videos 2021-22 investigate the politics of ‘cold’ through the examination of a series of cases and contexts in which the thermostatic condition of cold and its differential experiences and effects are entangled with legal questions, human rights violations, but also claims for social and environmental justice.

    Through the analysis of a series of contemporary as well as historic ‘cold cases’ the project explores the strategic role of temperature and speculates about the emergence of a new thermo-politics defined by cold.

    Each of these COLD CASES exposes the degree to which temperature becomes a register of violence. One that includes the leagcies of climate colonialism, longstanding socio-economic inequalities, and ongoing structural racism.

    https://susanschuppli.com/COLD-CASES-1

    #architecture_forensique #froid #décès #violence #température #thermopolitique #thermo-politique #racisme_structurel #Susan_Schuppli #mourir_de_froid #peuples_autochtones #eau #abandon #Canada

    ping @reka @fil @karine4

  • Alina, non una di meno
    (pour archivage)

    Tutti assolti perché “il fatto non costituisce reato” i poliziotti e dirigenti della questura accusati di sequestro di persona e omicidio colposo per la morte di #Alina_Bonar_Diachuk, morta suicida a 32 anni il 16 aprile 2012 nel commissariato di Opicina. Il 14 aprile era stata prelevata da una volante al carcere del Coroneo dove aveva finito di scontare una pena per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ed era stata portata a quello che fu subito definito il “commissariato degli orrori”.
    Alina Bonar Diachuk era in attesa d’espulsione ma non in stato di fermo, non c’era alcun motivo legale per portarla al commissariato e trattenerla lì. Aveva già tentato il suicidio, dopo due giorni si è impiccata con il cordino della felpa davanti alle telecamere di sorveglianza. La sua agonia è durata 40 minuti, nessuno si è accorto di niente né tantomeno è intervenuto.

    Le indagini hanno permesso di scoprire che Alina non era stata l’unica ad aver subito un sequestro di persona in commissariato: era una prassi abituale. Nel corso delle perquisizioni si è scoperto che il funzionario dirigente Carlo Baffi aveva cambiato il cartello dell’ufficio immigrazione con la scritta “ufficio epurazione” che teneva in bella mostra vicino a un busto di Mussolini. All’epoca, Baffi era anche membro della Commissione territoriale di Gorizia che esaminava le domande d’asilo presentate in Friuli Venezia Giulia: Baffi ha continuato a partecipare alle riunioni della Commissione anche dopo il suicidio di Alina. L’allora questore Padulano disse che i poliziotti coinvolti avevano fatto il loro “dovere”.

    A febbraio 2018 il pm De Bortoli aveva chiesto pene per 20 anni e 9 mesi per i poliziotti coinvolti. A sei anni dalla morte di Alina, era giunta l’assoluzione per tutti in primo grado: il giudice Nicoli aveva ritenuto che i poliziotti avessero messo in atto direttive della Questura, conosciute e condivise ai massimi livelli istituzionali, anche dalla Pretura, secondo quanto riportato dalla stampa. In breve, i poliziotti hanno fatto il loro dovere e hanno obbedito agli ordini. Tuttavia, nonostante l’omertà istituzionale, noi sappiamo che il sequestro di persona non è legale in Italia e la detenzione di Alina e delle altre centinaia di persone a Opicina era abusiva. Ora, dopo due anni, arriva il giudizio in appello: tutti assolti non più perché “il fatto sussiste” ma perché “il fatto non costituisce reato”.

    È la banalità del male: non c’è reato e nessuno è responsabile dell’annientamento della vita di una giovane donna.

    Siamo in attesa di leggere le motivazioni della sentenza ma già possiamo dire che non ci stiamo: Alina, donna e migrante, è stata per la seconda volta uccisa da questa seconda sentenza che non condanna nessuno per la sua morte.

    Verità e giustizia per Alina. Le vite delle donne contano tutte, NON UNA DI MENO!

    Nell’immagine, l’azione toponomastica di rinominazione di via del Coroneo, dove si trova il carcere di Trieste, con il nome di Alina Bonar Diachuck, vittima di Stato.

    https://www.rivoluzioneanarchica.it/alina-non-una-di-meno
    #suicide #asile #réfugiés #migrations #Opicina #homicide #détention #Italie #violences_policières #Carlo_Baffi #détention_arbitraire

    #toponymie #toponymie_politique #toponymie_migrante #victime_d'Etat

  • Flamme olympique : « Quatre Robocops me sont immédiatement tombés dessus », plaqué au sol pour avoir brandi un drapeau palestinien sur le passage du flambeau
    Écrit par Dorian Naryjenkoff | Publié le 30/05/2024
    https://france3-regions.francetvinfo.fr/pays-de-la-loire/mayenne/laval/flamme-olympique-quatre-robocops-me-sont-immediatement-

    Le directeur de théâtre Jean-Luc Bansard, a été verbalisé jeudi 29 mai à Laval, en Mayenne, à l’occasion du passage de la flamme olympique pour « participation à une manifestation interdite ». Le mis en cause a reçu plusieurs soutiens, tandis que de nombreux militants associatifs dénoncent un climat de plus en plus liberticide à l’approche des JO 2024.

    Alors que la flamme olympique poursuit son trajet jusqu’à Paris et faisait étape à Laval (Mayenne) ce jeudi 29 mai, Jean-Luc Bansard, le directeur du théâtre du Tiroir, a voulu profiter de la visibilité de l’événement pour brandir un drapeau palestinien, cause à laquelle il est très attaché.

    Il entend ainsi alerter sur le drame humanitaire qui s’y joue, depuis qu’Israël a lancé une offensive en réponse à l’attaque terroriste du Hamas sur son sol le 7 octobre dernier.

    « J’ai trois amis dans le domaine du théâtre qui sont actuellement à Gaza dans des camps de réfugiés et qui risquent les bombardements chaque jour », explique le directeur de théâtre, qui a fait plusieurs voyages dans l’enclave depuis 1999.

    « Tout ça m’horrifie, on laisse les athlètes israéliens participer sous les couleurs de leur drapeau alors qu’on l’a refusé à la Russie après l’invasion de l’Ukraine, ça sonne vraiment comme un deux poids, deux mesures pour moi. » Ses plans ont néanmoins très rapidement été contrariés par l’intervention des gendarmes.
    Verbalisé pour un drapeau

    Alors qu’il se rend à l’événement, le drapeau dissimulé dans son parapluie, en compagnie de quelques amis pour immortaliser en photo son geste, Jean-Luc Bansard raconte avoir immédiatement été approché par des gendarmes aux abords du parcours.

    « Ils ont prétendu que c’était un contrôle aléatoire, puis qu’ils auraient besoin de m’emmener au poste pour vérifier que ma carte d’identité est bien une vraie. »

    Des explications auxquelles ne croit pas l’intéressé, qui voit surtout dans cette démarche un moyen de lui faire rater le passage de la flamme.

    « Je suis retourné sur le parcours en courant aussitôt après qu’ils m’ont relâché, mais j’ai à peine eu le temps de sortir mon drapeau que quatre Robocops (nom donné au robot policier du film éponyme ultra-violent de l’Américain Paul Verhoeven, ndlr) me sont tombés dessus. Là, j’ai eu le droit au visage collé par terre pendant cinq minutes, à une fouille jusqu’aux parties intimes et une menace de garde à vue. »

    Le militant s’est finalement vu infliger une amende de 135 € pour violation de l’arrêté préfectoral du 24 mai 2024, qui interdit toute manifestation ou rassemblement revendicatif non déclarée au préalable et « de nature à troubler l’ordre public » ou « susceptible d’affecter le respect de la dignité de la personne humaine ». (...)

    #JO. #Violences_policières

  • Native American children endured years of sexual abuse at boarding schools - ‘In the name of God’
    https://www.washingtonpost.com/investigations/interactive/2024/sexual-abuse-native-american-boarding-schools/?itid=hp-top-table-main_p001_f001

    These firsthand accounts and other evidence documented by The Washington Post reveal the brutality and sexual abuse inflicted upon children who were taken from their families under a systematic effort by the federal government to destroy Native American culture, assimilate children into White society and seize tribal lands.

    From 1819 to 1969, tens of thousands of children were sent to more than 500 boarding schools across the country, the majority run or funded by the U.S. government. Children were stripped of their names, their long hair was cut, and they were beaten for speaking their languages, leaving deep emotional scars on Native American families and communities. By 1900, 1 out of 5 Native American school-age children attended a boarding school. At least 80 of the schools were operated by the Catholic Church or its religious affiliates.

    The Post investigation reveals a portrait of pervasive sexual abuse endured by Native American children at Catholic-run schools in remote regions of the Midwest and Pacific Northwest, including Alaska.

    At least 122 priests, sisters and brothers assigned to 22 boarding schools since the 1890s were later accused of sexually abusing Native American children under their care, The Post found. Most of the documented abuse occurred in the 1950s and 1960s and involved more than 1,000 children.

  • Cronache dalla polvere

    Nel 1936 l’esercito italiano conquista la capitale dell’impero etiope, Addis Abeba. Per quelle popolazioni un nuovo inizio: la #pace_romana, come la definì Benito Mussolini. Cronache dalla polvere racconta questa pagina di storia dell’Italia dimenticata e troppo a lungo taciuta: l’occupazione dei territori dell’Abissinia da parte delle truppe fasciste. Il regime ambiva a farne il fiore all’occhiello dell’Impero italiano ma si trovò a reprimere con atroce violenza la resistenza dei fieri guerriglieri arbegnuoc. Le truppe italiane insieme alle camicie nere si resero protagoniste di rastrellamenti, distruzioni e massacri di uomini, donne e bambini, abbandonando umanità e pietà. Perdute per sempre in quelle terre lontane da Roma. Le popolazioni locali non hanno mai dimenticato quel passato di inaudita violenza. Cronache dalla polvere è un’occasione per ricordare l’orrore della guerra e delle ideologie di superiorità della razza. Questa storia batte al tempo inesorabile dei tamburi di guerra, respira polvere e vento e ha gli occhi dei suoi protagonisti: soldati italiani, guerriglieri etiopi e alcune misteriose presenze. Fantasmi. Il paesaggio africano del secolo scorso rivive con una vena fantastica grazie al racconto corale del collettivo di scrittrici, scrittori e illustratori in tutta la sua spettacolare intensità e drammaticità.

    https://www.bompiani.it/catalogo/cronache-dalla-polvere-9788830100220
    #livre #colonialisme_italien #Italie_coloniale #colonialisme #Italie #histoire_coloniale #Abyssinie #fascisme #arbegnuoc #résistance #violence #Ethiopie #guerre_d'Ethiopie #Rodolfo_Graziani #massacre

    –-

    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

  • « Je n’ai plus aucune confiance » : les patients face à la maltraitance verbale des médecins | Slate.fr
    https://www.slate.fr/story/266711/maltraitance-medicale-verbale-blagues-lourdes-remarques-mepris-sexisme-racisme

    Certaines paroles des soignants ne sont pas sans conséquences, particulièrement dans cette relation fondée sur une forme de #dépendance.

    « Lors d’une consultation, alors que je n’allais pas bien du tout psychologiquement, le médecin m’a dit qu’il pourrait remplacer mon père pour prendre soin de moi mais qu’il était un “père incestueux”, raconte Anita, 28 ans. Sur le moment, j’ai été sidérée, j’ai ri comme si je n’avais pas compris, mais je n’ai jamais pu retourner le voir. J’ai dû chercher un autre médecin. »
    Ayant vécu une longue errance diagnostique et ayant été confrontée à maintes reprises à diverses violences verbales de la part de soignants, j’ai d’abord voulu voir si j’étais un cas isolé. J’ai aussi souhaité comprendre l’impact que ces violences pouvaient avoir sur les patients, sur leur suivi, l’observance de leur traitement et sur la relation qu’ils entretiennent désormais avec le corps médical.

    #médecins #soignants #patients #santé #soin

  • « Je n’ai pas pensé mon combat comme féministe. Je sauvais ma peau » | Julie Quéré
    https://www.la-meridienne.info/Julie-Quere-Je-n-ai-pas-pense-mon-combat-comme-feministe-Je-sauvais-

    Douze ans avant #MeToo, le procès du réalisteur Jean-Claude Brisseau, accusé d’avoir fait subir à des dizaines d’actrices des « essais » pornographiques, fut la première grande affaire de violences sexuelles à éclater dans le cinéma français. Source : La méridienne

  • Étudiant·es, soignant·es, patient·es : ensemble contre les violences sexistes et sexuelles en santé !

    Le monde de la santé, loin d’être épargné par les violences sexistes et sexuelles, en est au contraire un terreau particulièrement fertile. La culture du viol et l’omerta sont nourries par les fortes hiérarchies professionnelles, le management pathogène, l’esprit de corps et la « culture carabine ».

    Les femmes, qu’elles soient étudiantes, professionnelles des établissements de santé ou patientes, sont les premières victimes de ces violences patriarcales, qui touchent toutefois également des hommes et des enfants.

    Aujourd’hui, les langues se délient et les témoignages se font de plus en plus nombreux. Nous, organisations féministes et représentatives d’étudiant·es, de professionnel·les des établissements de santé et de patient·es, nous mobilisons ensemble pour dénoncer ces pratiques.

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/05/28/etudiant·es-soignant·es-patient·es-ensemble-co

    #santé #violence

  • Strage di Pylos: dopo l’assoluzione dei 9 superstiti egiziani parlano gli avvocati
    https://www.meltingpot.org/2024/05/strage-di-pylos-dopo-lassoluzione-dei-9-superstiti-egiziani-parlano-gli-

    Il 21 maggio, la Corte d’Appello di Kalamata ha ritenuto i 9 imputati egiziani non colpevoli del reato di “traffico illegale di esseri umani” e di “ingresso illegale“, mentre si è dichiarata non competente a giudicare i reati di organizzazione criminale e di naufragio, in quanto la nave affondò in acque internazionali. Il team legale nei giorni successivi ha rilasciato questa dichiarazione . I nostri assistiti, nove sopravvissuti al naufragio al largo di Pylos, sono stati ingiustamente detenuti per undici mesi nelle carceri, accusati di gravi reati e stigmatizzati dai media tradizionali che, fin dal primo momento, non solo (...)

    #Comunicati_stampa_e_appelli #Notizie #Grecia #Strage_di_Pylos_GR_ #Trattenimento_-_detenzione #Violazioni_e_abusi

  • Migrants subsahariens en Tunisie : « Ayez pitié de nous et laissez-nous partir d’ici ! »
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/05/25/migrants-subsahariens-en-tunisie-ayez-pitie-de-nous-et-laissez-nous-partir-d

    Migrants subsahariens en Tunisie : « Ayez pitié de nous et laissez-nous partir d’ici ! »
    Par Monia Ben Hamadi (El-Amra, El-Hamaizia, Tunisie,
    Il ne dort plus à la belle étoile dans les champs d’oliviers, mais sous une tente de fortune, faite de branchages et de tuyaux, recouverte d’une bâche en plastique. Originaire de Freetown, capitale de la Sierra Leone, Musa* a échoué à Henchir Ben Farhat, domaine agricole privé situé à El-Amra, il y a plus de huit mois, en septembre 2023. Comme des centaines de migrants et demandeurs d’asile venues de divers pays d’Afrique subsaharienne, il ne pensait pas rester aussi longtemps dans cette petite localité du centre-est de la Tunisie devenue l’un des principaux points de départ vers l’île italienne de Lampedusa.
    Faute de mieux, le Sierra Léonais de 36 ans s’est improvisé épicier. Devant sa tente, il a monté un petit stand qui propose des fruits et légumes, quelques pâtes, des produits d’hygiène. Pour s’approvisionner, il doit parcourir plusieurs kilomètres à pied jusqu’au marché d’El-Amra avant de revenir au camp pour les entreposer. Une opération risquée. « En ville, on peut être arrêtés par la police, c’est plus dangereux qu’ici », explique-t-il.
    Depuis les déclarations du président Kaïs Saïed en février 2023, qui affirmait que l’arrivée de Subsahariens faisait partie d’un « plan criminel pour modifier la composition démographique » du pays, les autorités ont considérablement durci leur approche envers les migrants. A El-Amra, les patrouilles de la garde nationale, renforcées par des unités venues de Tunis, sont constamment sur le qui-vive. Régulièrement, des migrants sont expulsés des oliveraies où ils s’étaient installés, arrêtés ou conduits à la frontière.
    Fin avril, les agents de la garde nationale ont détruit le campement de Henchir Ben Farhat lors d’une opération sécuritaire. Musa, qui a perdu tout son stock de marchandises, a tenté la traversée vers l’Europe une seconde fois, sans succès. Son embarcation en métal a de nouveau pris l’eau. Depuis, il a remonté son commerce, en attendant une nouvelle occasion de quitter le pays.
    Dans le campement, la violence des forces de l’ordre a laissé des cicatrices visibles sur le corps des hommes. Amos, 34 ans, né au Liberia, montre des traces de brûlures sur son bras et son épaule causées, selon lui, par les bombes de gaz lacrymogènes lancées par les forces de l’ordre lors de la destruction du camp. Lui non plus ne parvient pas à quitter le pays. « Ils ne veulent pas de nous, mais ils nous empêchent de partir, pourquoi ? Ils préfèrent nous voir souffrir et mourir ici ? », s’interroge-t-il.
    En mai, les garde-côtes tunisiens ont annoncé avoir intercepté ou secouru 28 147 personnes depuis le début de l’année, et environ 79 635 en 2023. Car la Tunisie reste essentiellement un pays de transit : d’après le ministre de l’intérieur, lors d’une audition au Parlement, 23 000 migrants subsahariens en situation irrégulière se trouveraient sur le territoire tunisien. Le 6 mai, le président tunisien Kaïs Saïed, lors d’un conseil de sécurité, a néanmoins accusé certaines associations d’inciter les Subsahariens à « coloniser » la Tunisie. Des propos suivis de l’adoption de nouvelles restrictions contre les migrants et les voix critiques du chef de l’Etat.
    Une dizaine d’organisations venant en aide aux migrants ont été ciblées par les autorités, et au moins cinq responsables associatifs arrêtés, mis en examen et écroués, dont Saadia Mosbah, militante antiraciste et présidente de l’association Mnemty, qui lutte contre les discriminations raciales en Tunisie.
    Deux responsables du Conseil tunisien pour les réfugiés (CTR) ont aussi été placés en détention préventive pour « association de malfaiteurs dans le but de faciliter l’accès de personnes au territoire tunisien ». Ils sont accusés d’avoir publié un appel d’offres pour la location d’un hôtel destiné à accueillir des réfugiés ou demandeurs d’asile, dans le cadre de leur mission avec le Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR).
    Parallèlement à ces arrestations, une proposition de loi a été déposée par treize députés au Parlement le 6 mai, visant à modifier la loi sur les conditions de séjour des étrangers. Cette version amendée prévoit jusqu’à trois ans de prison pour toute personne qui aiderait un étranger à entrer ou à séjourner illégalement dans le pays. Le gouvernement tunisien étudie un projet d’amendement du décret-loi sur les associations afin de restreindre et de contrôler les financements étrangers.
    A El-Amra, depuis le 6 mai, le contrôle des transferts financiers en provenance de l’étranger s’est considérablement intensifié. Amos ne peut plus désormais retirer lui-même l’argent que sa famille et ses proches lui envoient par la poste et dépend de citoyens tunisiens ou de migrants en situation régulière pour recevoir à sa place les transferts qui lui permettent de vivre et d’économiser pour la prochaine traversée.
    Le discours de Kaïs Saïed sur un supposé financement étranger destiné à encourager les migrants à s’installer en Tunisie trouve un écho parmi la population. « Ils sont chaque jour plus nombreux, on a peur », assure Dhouha, accusant les étrangers d’être responsables d’une augmentation de la criminalité, bien que ces allégations ne soient pas corroborées par des chiffres. L’éducatrice en crèche de 42 ans et mère de famille soupçonne les migrants de vouloir s’approprier les terres des Tunisiens, et souhaiterait que les autorités durcissent encore la répression. « Il faudrait fermer les frontières terrestres et les laisser passer par la mer, mais les responsables ne veulent pas. Meloni est venue et a fait ce qu’elle voulait. On se sent comme les gardiens de l’Europe ici », accuse-t-elle, en référence aux visites récurrentes de la présidente du Conseil italien à Tunis depuis la signature de l’accord de « partenariat stratégique complet » entre l’Union européenne et la Tunisie, le 16 juillet 2023. Cet accord prévoit des aides financières pour réduire les départs de migrants depuis les côtes tunisiennes vers l’Italie. Bien que Kaïs Saïed avait affirmé en octobre que la Tunisie n’avait vocation à garder que ses propres frontières, la coopération en matière de contrôle s’est effectivement intensifiée.
    Face à l’augmentation du nombre de Subsahariens qui campent dans les environs d’El-Amra, la tension monte désormais entre les groupes de migrants eux-mêmes, particulièrement dans la sous-localité d’El-Hamaizia, à quelques kilomètres du centre-ville. Des affrontements violents y ont éclaté, mercredi 15 mai, faisant plusieurs blessés selon des témoins. Les forces de l’ordre ont dû intervenir pour rétablir le calme. « Ayez pitié de nous et laissez-nous partir d’ici ! », implore Kevin, 36 ans, originaire du Nigeria, installé avec son épouse et sa fille de 5 ans dans un camp d’El-Hamaizia. « Il y a des groupes de migrants qui nous terrorisent. Ils nous battent, prennent nos téléphones ou demandent de l’argent à nos familles avant de nous relâcher », témoigne-t-il, en se saisissant, pour le faire cuire, un poulet qu’il vient de plumer.
    Quand la chaleur de la journée se dissipe, peu avant le coucher du soleil, il arrive qu’une ferveur inattendue gagne les oliveraies. C’est l’heure des matchs de football. Ce soir-là, dans l’un des camps d’El-Hamaizia, les femmes sont à l’honneur. Des cages de but faites de tuyaux et recouvertes de plastique ont été installées, et des dizaines de spectateurs entourent le terrain, délimité par des traces sur le sable. Les acclamations, les rires et les applaudissements rythment la rencontre. Pendant ce temps, d’autres vont bientôt se préparer à prendre la mer, portés par l’espoir d’atteindre les rives de l’Europe.

    #Covid-19#migrant#migration#tunisie#italie#mediterranee#UE#migrationirreguliere#droit#sante#violence

  • Dal Poli occupato : di #non_neutralità_della_scienza e #violenza_algoritmica@0
    https://radioblackout.org/2024/05/di-non-neutralita-della-scienza-e-violenza-algoritmica

    Che l’ambito dell’istruzione e della ricerca sia un terreno importante su cui si sta giocando la partita della mobilitazione bellica generale, ma anche il suo possibile incepparsi, è evidente, e anche qui a Torino ne abbiamo parlato in alcuni incontri relativi alla scuola. Gli aspetti più espliciti della questione riguardano la produzione materiale e culturale […]

    #L'informazione_di_Blackout #guerra #politecnico_occupato
    https://cdn.radioblackout.org/wp-content/uploads/2024/05/politecnico.mp3

  • Lumière sur les #financements français et européens en #Tunisie

    Alors que la Tunisie s’enfonce dans une violente #répression des personnes exilées et de toute forme d’opposition, le CCFD-Terre Solidaire publie un #rapport qui met en lumière l’augmentation des financements octroyés par l’Union européenne et les États européens à ce pays pour la #sécurisation de ses #frontières. Cette situation interroge la #responsabilité de l’#UE et de ses pays membres, dont la France, dans le recul des droits humains.

    La Tunisie s’enfonce dans l’#autoritarisme

    Au cours des deux dernières années, la Tunisie sous la présidence de #Kaïs_Saïed s’engouffre dans l’autoritarisme. En février 2023, le président tunisien déclare qu’il existe un “un plan criminel pour changer la composition démographique de la Tunisie“, en accusant des “hordes de migrants clandestins“ d’être responsables “de violences, de crimes et d’actes inacceptables“.

    Depuis cette rhétorique anti-migrants, les #violences à l’encontre des personnes exilées, principalement d’origine subsaharienne, se sont exacerbées et généralisées dans le pays. De nombreuses associations alertent sur une montée croissante des #détentions_arbitraires et des #déportations_collectives vers les zones frontalières désertiques de l’#Algérie et de la #Libye.

    https://ccfd-terresolidaire.org/lumiere-sur-les-financements-francais-et-europeens-en-tunisie
    #EU #Union_européenne #externalisation_des_frontières #migrations #réfugiés #désert #abandon

    ping @_kg_

  • Comment l’argent de l’UE permet aux pays du Maghreb d’expulser des migrants en plein désert
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/05/21/comment-l-argent-de-l-union-europeenne-permet-aux-pays-du-maghreb-de-refoule

    Comment l’argent de l’UE permet aux pays du Maghreb d’expulser des migrants en plein désert
    Par Nissim Gasteli (Tunis, correspondance), Maud Jullien (Lighthouse Reports), Andrei Popoviciu (Lighthouse Reports) et Tomas Statius (Lighthouse Reports)
    s des droits humains et avec le renfort de moyens européens.
    A Rabat, au Maroc, Lamine (toutes les personnes citées par un prénom ont requis l’anonymat), un jeune Guinéen, a été arrêté six fois par la police, en 2023, avant d’être renvoyé sans ménagement à l’autre bout du pays. En Mauritanie, Bella et Idiatou, également guinéennes, ont été abandonnées en plein désert après avoir été interpellées, puis incarcérées. Leur crime ? Avoir pris la mer pour tenter de rejoindre l’Espagne. En Tunisie, François, un Camerounais, s’est orienté comme il a pu après que les forces de sécurité l’ont lâché, au beau milieu des montagnes, près de la frontière avec l’Algérie. C’était la troisième fois qu’il était déporté en l’espace de quelques mois.
    Ces trois récits de personnes migrantes se ressemblent. Ils se déroulent pourtant dans trois Etats différents du nord de l’Afrique. Trois pays distincts qui ont en commun d’être les étapes ultimes des principales routes migratoires vers l’Europe : celle de la Méditerranée centrale, qui relie les côtes tunisiennes à l’île italienne de Lampedusa ; celle de la Méditerranée occidentale, qui part du Maghreb vers l’Espagne ou encore la route dite « Atlantique », qui quitte les rivages du Sénégal et du Sahara occidental pour rejoindre les îles Canaries.
    Pour cette raison, le Maroc, la Tunisie et la Mauritanie ont aussi en commun de faire l’objet de nombreuses attentions de l’Union européenne (UE) dans la mise en place de sa politique de lutte contre l’immigration irrégulière. Alors que la question migratoire crispe les opinions publiques et divise les Etats membres sur fond de montée de l’extrême droite dans de nombreux pays, l’Europe mobilise d’importants moyens pour éviter que les Subsahariens candidats à l’exil ne parviennent jusqu’à la mer. Au risque que l’aide apportée aux gouvernements du Maghreb participe à des violations répétées des droits humains.
    Depuis 2015, les trois Etats ont perçu plus de 400 millions d’euros pour la gestion de leurs frontières, rien que par l’entremise du fonds fiduciaire d’urgence (FFU), lancé par l’UE lors du sommet sur la migration de La Valette, capitale de Malte. Une somme à laquelle s’ajoutent des aides accordées directement par certains Etats membres ou relevant d’autres programmes. En juillet 2023, l’UE a encore signé un accord avec la Tunisie, qui inclut une aide de 105 millions d’euros pour lutter contre l’immigration irrégulière. Peu de temps avant, le 19 juin, le ministre de l’intérieur français, Gérald Darmanin, en déplacement à Tunis, s’était engagé à verser plus de 25 millions d’euros à Tunis pour renforcer le contrôle migratoire. Plus récemment, le 8 février, la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, annonçait de Nouakchott la signature d’un soutien financier pour 210 millions d’euros à destination de la Mauritanie, dont une partie serait allouée à la « gestion des migrations ».
    A travers quelles pratiques ? Au terme de près d’un an d’enquête, Le Monde, le média à but non lucratif Lighthouse Reports et sept médias internationaux partenaires ont pu documenter pour la première fois le recours à des arrestations massives et à des expulsions collectives dans ces trois Etats. Au Maroc, en 2023, près de 59 000 migrants auraient été interpellés sur le territoire par les forces de sécurité, d’après un décompte officiel. Une partie d’entre eux ont été déportés vers le sud et vers l’intérieur du pays comme à Agadir, Khouribga, Errachidia, Béni Mellal. En Mauritanie, plusieurs bus rejoignent chaque semaine les étendues arides de la frontière avec le Mali et y abandonnent des groupes de migrants sans ressources. En Tunisie, ce sont onze renvois collectifs vers les frontières libyenne et algérienne, organisés par les forces de sécurité entre juillet 2023 et mai 2024, que nous avons pu documenter grâce à des témoignages, des enregistrements audio et vidéo. Une pratique aux conséquences dramatiques : au moins 29 personnes auraient péri dans le désert libyen, selon un rapport de la mission d’appui des Nations unies en Libye, paru en avril.
    Des migrants subsahariens abandonnés par la police tunisienne sans eau ni abri, dans le désert, non loin de la ville frontalière libyenne d’Al-Assah, le 16 juillet 2023.
    Interrogé sur le cas tunisien, en marge du discours sur l’état de l’Union devant le Parlement européen, le 15 septembre, le vice-président de la Commission européenne, le Grec Margaritis Schinas, assurait : « [Ces pratiques] ne se déroulent pas sous notre surveillance, et ne font pas partie de nos accords. L’argent européen ne finance pas ce genre de tactiques. » Notre enquête démontre le contraire.
    En Tunisie, des pick-up Nissan utilisés par la police pour arrêter les migrants correspondent à des modèles livrés par l’Italie et l’Allemagne entre 2017 et 2023. Au Maroc, les forces auxiliaires de sécurité, à l’origine de nombreuses arrestations, reçoivent une partie de l’enveloppe de 65 millions d’euros alloués par l’UE au royaume chérifien, entre 2017 et 2024, pour le contrôle de la frontière. En Mauritanie, les Vingt-Sept financent, dans les deux principales villes du pays et pour une enveloppe de 500 000 euros, la reconstruction de deux centres de rétention. Ceux-là mêmes où des migrants sont enfermés avant d’être envoyés dans le désert, acheminés dans des pick-up Toyota Hilux en tout point similaires à ceux livrés par l’Espagne en 2019. Des exemples, parmi d’autres, qui démontrent que ces opérations, contraires à la Convention européenne des droits de l’homme, bénéficient du soutien financier de l’UE et de ses Etats membres.
    Lamine, 25 ans, connaît les rues de Rabat comme sa poche. Le jeune homme, natif de Conakry, est arrivé au Maroc en 2017 « pour suivre une formation » de cuisine, relate-t-il lorsque nous le rencontrons, en octobre 2023, dans le quartier de Takaddoum, devenu le lieu de passage ou d’installation des migrants. Le jeune homme est enregistré auprès du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR) comme demandeur d’asile, ce qui est censé le protéger d’une expulsion.
    Au fil des années, Lamine s’est habitué aux « rafles » quotidiennes par les forces auxiliaires de sécurité marocaines visant des migrants comme lui. A Takaddoum, nombreux sont ceux qui assurent avoir été témoins de l’une de ces arrestations de ressortissants subsahariens. « Tous les Blacks savent que s’ils sortent entre 10 et 20 heures, ils risquent de se faire embarquer », ajoute Mafa Camara, président de l’Association d’appuis aux migrants mineurs non accompagnés. Une affirmation « sans fondement », selon le ministère de l’intérieur marocain. Sollicité, le HCR confirme qu’« il arrive parfois que les réfugiés et les demandeurs d’asile soient arrêtés ». La suite est également connue : les personnes sont amenées dans des bâtiments administratifs faisant office de centres de rétention, avant d’être transférées dans un commissariat de la ville où des bus viennent les récupérer. Elles sont alors déportées, le plus souvent dans des zones reculées ou désertiques. Ce harcèlement serait un des maillons essentiels de la stratégie du royaume pour lutter contre l’immigration irrégulière. « Le but est bien sûr de rendre la vie des migrants difficile, soutient un consultant requérant l’anonymat. Si l’on vous emmène dans le Sahara deux fois, la troisième, vous voulez rentrer chez vous. » L’homme, qui a participé au Maroc à plusieurs projets de développement financés par l’UE, soutient que les autorités marocaines agissent de la sorte pour justifier les nombreux financements européens qu’elles reçoivent, dont 234 millions d’euros uniquement du FFU. « La relocalisation des migrants vers d’autres villes est prévue par la législation nationale. Elle permet de les soustraire aux réseaux de trafic et aux zones dangereuses », oppose, de son côté, le ministère de l’intérieur marocain.
    Début 2023, Rabat soutenait avoir empêché plus de 75 000 départs vers l’Europe, dont 59 000 sur son territoire et 16 000 en mer. En 2023, Lamine, lui, a été arrêté à six reprises avant d’être envoyé à l’autre bout du pays.
    Pendant plusieurs jours, nous avons suivi et filmé les minivans des forces auxiliaires qui sillonnent les rues de Rabat. Des témoignages, des vidéos et des enregistrements audio réunis par ailleurs attestent de l’ampleur du phénomène de harcèlement des migrants de Tanger à Fès, de Nador à Laayoune. Au cours de notre enquête, nous avons pu identifier deux types de véhicules utilisés pour ces opérations, achetés grâce à des financements européens. Comme ces utilitaires Fiat Doblo, visibles sur une vidéo d’arrestation de migrants, diffusée en mai 2021 à la télévision marocaine, identiques à ceux d’un lot acheté à partir de 2019 grâce au FFU. Ou ces 4 × 4 Toyota Land Cruiser, utilisés lors d’arrestations dont les images ont été diffusées sur les réseaux sociaux, et qui correspondent aux modèles achetés par l’Espagne, puis par l’Europe dans le cadre du FFU.
    Au Maroc, les forces auxiliaires de sécurité, à l’origine de nombreuses arrestations, filmées à Rabat, le 19 octobre 2023.
    Au Maroc, les forces auxiliaires de sécurité, à l’origine de nombreuses arrestations, filmées à Rabat, le 19 octobre 2023.
    Lors de ces arrestations collectives, le mode opératoire est toujours identique : deux minivans blancs stationnent dans un quartier fréquenté par des migrants, tandis que plusieurs agents en civil se mêlent à la foule. Ils contrôlent, puis appréhendent les migrants, avant de les faire monter dans les véhicules. Une vingtaine de personnes, que nous avons interrogées, assurent avoir été témoins ou victimes de violences policières lors de ces arrestations.
    Le 19 octobre 2023 à l’occasion d’une opération que nous avons documentée, un bus des forces auxiliaires a pris la direction de Khouribga, une bourgade à 200 kilomètres au sud de Rabat. En pleine nuit, les officiers ont déposé une dizaine de jeunes hommes à l’entrée de la petite ville. Ces derniers ont ensuite marché vers la gare routière, avant de rejoindre un petit groupe de migrants, eux-mêmes déportés quelques jours plus tôt. Parmi eux, Aliou, un Guinéen de 27 ans, affirme avoir été déplacé de la sorte « près de 60 fois » depuis son arrivée au Maroc, en 2020.

    C’est une valse incessante qui se joue ce 25 janvier, en fin de matinée, devant le commissariat du quartier de Ksar, à Nouakchott. Des véhicules vont et viennent. A l’intérieur de l’un d’eux – un minibus blanc –, une dizaine de migrants, le visage hagard. A l’arrière d’un camion de chantier bleu, une cinquantaine d’exilés se cramponnent pour ne pas basculer par-dessus bord. Tous ont été arrêtés par la police mauritanienne. Chaque jour, ils sont des centaines à découvrir l’intérieur décrépi de ces petits baraquements ocre. Cette étape ne dure que quelques jours au plus. « Il y a plusieurs bus par semaine qui partent vers le Mali », confirme un visiteur du commissariat faisant office de centre de rétention.
    Sur ces images filmées en Mauritanie, en caméra cachée, plus d’une dizaine de migrants sont sur le point d’être déposés devant le centre de rétention de Ksar, à Nouakchott, avant d’être déportés loin de la ville, le 25 janvier 2024.
    Sur ces images filmées en Mauritanie, en caméra cachée, plus d’une dizaine de migrants sont sur le point d’être déposés devant le centre de rétention de Ksar, à Nouakchott, avant d’être déportés loin de la ville, le 25 janvier 2024. Certains migrants ont été appréhendés dans les rues de Nouakchott. « Le bus des policiers se promène dans les quartiers où vivent les migrants, comme le Cinquième [un quartier à l’ouest de Nouakchott], témoigne Sady, un Malien arrivé en Mauritanie en 2019. Les policiers entrent dans les boutiques. Ils demandent aux gens : “Tu es étranger ?” Puis ils les emmènent. A chaque fois, j’ai vu des gens se faire frapper, maltraiter. On vit avec la crainte de ces refoulements. »
    « Les éventuelles interpellations concernant les étrangers en situation irrégulière se font conformément aux conventions, lois et règlements en vigueur, sans arbitraire ni ciblage de zones ou de quartiers spécifiques », assure le porte-parole du gouvernement mauritanien, Nani Ould Chrougha. Bella et Idiatou ont, quant à elles, été interceptées en mer par des gardes-côtes, lors d’une tentative de traversée en direction des îles Canaries, confettis d’îles espagnoles à plusieurs centaines de kilomètres des côtes africaines. Le traitement qui leur a été réservé est le même que pour les autres migrants, alors qu’elles bénéficiaient d’un titre de séjour mauritanien : une expulsion manu militari vers les frontières sud du pays. « Des expulsions vers le Sénégal et le Mali, sur des bases raciales, ont eu lieu entre 1989 et 1991, souligne Hassan Ould Moctar, spécialiste des questions migratoires. Mais les demandes répétées de l’Union européenne en matière migratoire ont réactivé cette dynamique. »Pour Bella et Idiatou comme pour Sady, la destination finale est Gogui, à la frontière malienne, une zone désertique à plus de 1 000 kilomètres de Nouakchott. « Ils nous ont jetés hors du bus, puis ils nous ont poussés vers la frontière. Ils nous ont chassés comme des animaux et ils sont partis », raconte, révoltée, Idiatou, quand nous la rencontrons au Sénégal, où elle a trouvé refuge. Ce récit, neuf migrants au total l’ont confié au Monde. Sady, qui vivait à Nouakchott grâce à des petits boulots, a été repoussé deux fois. Selon un document interne du HCR, que Le Monde a consulté, plus de 300 personnes dénombrées par le Haut-Commissariat ont fait l’objet du même traitement en 2023. La majorité d’entre elles assurent avoir été victimes de violations des droits humains. Sollicité, un porte-parole du HCR confirme avoir « reçu des rapports faisant état de cas de refoulement vers le Mali » et « plaider auprès des autorités mauritaniennes pour mettre fin à de telles pratiques ». « Les migrants en situation irrégulière sont reconduits aux postes-frontières officiels de leur pays de provenance », se défend le porte-parole du gouvernement mauritanien, selon lequel le procédé est conforme à la loi et réalisé en assurant une « prise en charge totale – nourriture, soins de santé, transport ». La Mauritanie est depuis quinze ans l’un des verrous des routes migratoires qui mènent en Espagne. D’après notre décompte, sans inclure l’argent promis début 2024, plus de 80 millions d’euros ont été investis par l’UE dans le pays depuis 2015, destinés surtout au renforcement des frontières, à la formation des effectifs de police ou encore à l’achat de véhicules. Les groupes d’action rapide-surveillance et intervention (GAR-SI), des unités d’élite financées par l’UE dans plusieurs pays du Sahel à travers le FFU, ont également fait partie du dispositif. En 2019, ils ont ainsi livré à la police mauritanienne 79 personnes appréhendées sur le territoire, d’après un document interne de l’UE. Un rapport non public de l’Organisation internationale pour les migrations (OIM), daté de février 2022, mentionne qu’une bonne partie de leurs effectifs – plus de 200 hommes – a été déployée à Gogui pour des missions de « surveillance frontalière ».
    En outre, plusieurs véhicules utilisés pour assurer les expulsions de Nouakchott vers le sud du pays correspondent à des modèles livrés par des Etats membres. Comme ces pick-up Toyota Hilux fournis par l’Espagne, « pour la surveillance du territoire ou la lutte contre l’immigration irrégulière ». Depuis 2006 et en vertu d’un accord bilatéral de réadmission de migrants entre les deux pays, une cinquantaine de policiers espagnols sont déployés en permanence à Nouakchott et à Nouadhibou, les deux principales villes du pays. Des moyens techniques, dont des bateaux, sont également mis à disposition. En 2023, près de 3 700 interceptions en mer ont ainsi été réalisées par des patrouilles conjointes, d’après un décompte du ministère de l’intérieur espagnol, consulté par Le Monde. Plusieurs sources policières et un visiteur des centres de rétention mauritaniens attestent de la présence fréquente de policiers ibériques à l’intérieur. Bella et Idiatou assurent avoir été prises en photo par ces derniers au commissariat de Nouakchott. Interrogée sur ce point, l’agence espagnole Fiiapp, principal opérateur de ces projets de coopération policière, a nié la présence d’agents dans le centre de rétention. Les autorités mauritaniennes, quant à elles, ont confirmé l’existence d’« échange d’informations dans le domaine de la lutte contre l’immigration clandestine », mais « dans le respect de la vie privée des personnes et de la protection de leurs données personnelles ». Selon un autre document du HCR, daté de janvier 2023, des migrants rapportent que les Espagnols ont participé aux raids les visant. « Parfois, ils essayaient même d’expulser des gens qu’on avait identifiés comme réfugiés », se souvient un salarié de l’agence, que nous avons interrogé. « Notre équipe de policiers sur le terrain n’est pas au courant de telles pratiques », assure la Fiiapp. Quand le ministère de l’intérieur espagnol se borne à répondre que ses effectifs travaillent « dans le respect des droits de l’homme, et en accord avec la législation nationale et internationale ».
    Un matin de novembre 2023, dans la ville tunisienne de Sfax, Moussa, un demandeur d’asile camerounais de 39 ans, et son cousin sortent d’un bureau de poste lorsqu’ils sont interpellés par les autorités. En quelques heures, les deux hommes se retrouvent à la frontière libyenne, remis aux mains d’une milice, puis enfermés dans l’un des centres de détention pour migrants du pays. Pendant plusieurs mois, ils subissent des violences quotidiennes.
    Selon la Mission d’appui des Nations unies en Libye (Manul), près de 9 000 personnes ont été « interceptées » depuis l’été 2023 par les autorités de Tripoli, à la frontière tunisienne. Dans une note interne que nous avons consultée, la Manul déplore des « expulsions collectives » et des « retours forcés sans procédure », exposant les migrants à de « graves violations et abus des droits humains, avec des cas confirmés d’exécution extrajudiciaire, de disparition, de traite, de torture, de mauvais traitement, d’extorsion et de travail forcé ». « Ils repartent d’où ils viennent, car ils causent des problèmes », justifie, sous le couvert de l’anonymat, un agent de la garde nationale. Sollicité, le ministère des affaires étrangères tunisien réfute les accusations d’« expulsion de migrants d’origine subsaharienne vers des zones désertiques », les qualifiant d’« allégations tendancieuses ».
    Dès le 7 juillet 2023, Frontex, l’agence européenne de garde-frontières, est pourtant informée – selon un rapport interne dont nous avons pris connaissance – de ces « opérations » consistant à « conduire des groupes de ressortissants subsahariens jusqu’à la frontière [de la Tunisie] avec la Libye et l’Algérie, en vue de leur refoulement ». Frontex ajoute que ces opérations sont surnommées sur les réseaux sociaux « ménage de blacks ». Une source européenne anonyme, au fait du dossier, veut croire qu’« aucune ressource provenant de l’UE n’a contribué à ce processus [d’expulsion] », mais reconnaît toutefois qu’il est « très difficile de tracer une limite, car [l’UE soutient] les forces de sécurité ».
    Utilisation de ressources européennes
    Depuis une dizaine d’années, de fait, l’UE participe au renforcement de l’appareil sécuritaire tunisien, d’abord à des fins de lutte contre le terrorisme, puis contre l’immigration irrégulière. Jusqu’en 2023, elle a investi plus de 144 millions d’euros dans la « gestion des frontières », auxquels s’ajoutent les aides directes des Etats membres, permettant l’achat d’équipements comme ​​des navires, des caméras thermiques, des radars de navigation… Près de 3 400 agents de la garde nationale tunisienne ont par ailleurs reçu des formations de la part de la police fédérale allemande entre 2015 et août 2023 ; et deux centres d’entraînement ont été financés par l’Autriche, le Danemark et les Pays-Bas, à hauteur de 8,5 millions d’euros.
    L’enquête du Monde et de ses partenaires montre que certaines de ces ressources ont directement été utilisées lors d’expulsions. Ainsi, Moussa a formellement identifié l’un des véhicules dans lequel il a été déporté vers la Libye : un pick-up Navara N-Connecta blanc du constructeur Nissan – modèle analogue aux 100 véhicules offerts à la Tunisie par l’Italie, en 2022 pour « lutter contre l’immigration irrégulière et la criminalité organisée ». A Sfax, en Tunisie, ces véhicules utilisés par la police lors d’une arrestation collective sont du même modèle que ceux fournis par l’Italie en 2022, comme le montre un document nos équipes se sont procuré.
    En 2017, le gouvernement allemand avait, lui aussi, offert à la Tunisie 37 Nissan Navara, en plus d’autres équipements, dans le cadre d’une aide à la « sécurisation des frontières ». Deux vidéos publiées sur les réseaux sociaux, et que nous avons vérifiées, montrent également l’implication des mêmes véhicules dans les opérations d’arrestation et d’expulsion menées par les autorités tunisiennes dans la ville de Sfax. Contacté, le ministère de l’intérieur allemand s’est dit attaché « à ce que les équipements remis dans le cadre de la coopération bilatérale soient utilisés exclusivement aux fins prévues », tout en estimant que les véhicules décrits par notre enquête sont « très répandus en Afrique ». Les autorités italiennes n’ont pas répondu à nos sollicitations.
    En dépit de la situation, largement relayée par la presse, de centaines de migrants repoussés dans les zones frontalières du pays, l’UE a signé, le 16 juillet 2023, un mémorandum d’entente avec la Tunisie, devenue le premier point de départ des migrants vers le continent. Un accord érigé en « modèle » par Mme von der Leyen. La médiatrice européenne, Emily O’Reilly, a toutefois ouvert une enquête sur ce mémorandum : « Le financement de l’UE (…) ne doit pas soutenir les actions ou mesures susceptibles d’entraîner des violations des droits de l’homme dans les pays partenaires », a rappelé Mme O’Reilly à Mme von der Leyen, dans une lettre rendue publique le 13 septembre 2023.
    « Les Etats européens ne veulent pas avoir les mains sales. Ils sous-traitent donc à des Etats tiers des violations des droits de l’homme, estime, pour sa part, Marie-Laure Basilien-Gainche, professeure de droit public à l’université Jean-Moulin-Lyon-III. Mais, du point de vue du droit, ils pourraient être tenus pour responsables. » La Commission européenne nous informe par la voix d’un porte-parole que « l’UE attend de ses partenaires qu’ils remplissent leurs obligations internationales, y compris le droit au non-refoulement » et que « tous les contrats de l’UE contiennent des clauses relatives aux droits de l’homme permettant à la Commission d’ajuster leur mise en œuvre si nécessaire ». Or, des documents que nous nous sommes procurés attestent de la connaissance que les instances de l’UE ont de ces arrestations et de ces déportations collectives. Une décision de la Commission européenne, de décembre 2019, à propos des financements de l’UE au Maroc, fait par exemple référence à une « vaste campagne de répression » contre des migrants subsahariens, se traduisant par des arrestations et des expulsions « illégales » dans des zones reculées. Dans un rapport finalisé en 2019, la Cour des comptes européenne s’inquiétait, déjà, de l’opacité avec laquelle les fonds attribués par les Vingt-Sept aux autorités marocaines étaient utilisés, ainsi que du manque de « procédures de contrôle ».
    En Mauritanie, plusieurs officiels du HCR, de l’OIM ou des forces de police espagnoles confient avoir connaissance de la pratique d’expulsion en plein désert. Des éléments repris dans un rapport et une recommandation du Parlement européen datés de novembre 2023 et janvier 2024. Alors que le déploiement de Frontex en Mauritanie est en cours de discussion, l’agence rappelait, en 2018, dans un guide de formation à l’analyse de risques, destiné aux Etats africains partenaires dans la lutte contre l’immigration irrégulière, que la « charte africaine des droits de l’homme et des peuples interdit les arrestations ou détentions arbitraires ». En dépit de cette attention, Frontex a ouvert une cellule de partage de renseignement à Nouakchott, dès l’automne 2022, et procédé à la formation de plusieurs policiers. Parmi eux se trouvent plusieurs agents en poste au centre de rétention de Nouakchott. Celui-là même par lequel transitent chaque jour des migrants victimes de déportation collective.

    #Covid-19#migrant#migrant#UE#tunie#maroc#mauritanie#espagne#frontex#oim#hcr#droit#sante#refoulement#violence#migrationirreguliere#politiquemigratoire#routemigratoire

  • En Tunisie, des migrants camerounais interceptés en mer et abandonnés à la frontière algérienne
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/05/21/en-tunisie-des-migrants-camerounais-interceptes-en-mer-et-abandonnes-a-la-fr

    En Tunisie, des migrants camerounais interceptés en mer et abandonnés à la frontière algérienne
    Par Nissim Gasteli (Tunis, correspondance)#
    Une longue coque blanche de 35 mètres surmontée d’une cabine à deux étages : François, un Camerounais de 38 ans qui préfère ne pas donner son nom complet, reconnaît immédiatement l’un des douze patrouilleurs de la garde nationale tunisienne, offerts par l’Italie en 2014, et dont la maintenance est toujours assurée par Rome. Le don, d’une valeur de 16,5 millions d’euros, a permis aux autorités tunisiennes de renforcer le contrôle de leur frontière maritime avec l’Union européenne (UE).
    Rencontré dans un appartement de Tunis par Le Monde, qui a enquêté avec le média à but non lucratif Lighthouse Reports et sept médias internationaux sur les violations des droits humains subies par des migrants dans les pays du Maghreb, parfois avec des moyens alloués par des pays de l’UE, François raconte.
    Les yeux rivés sur l’écran d’un téléphone qui affiche une image du bateau, il se souvient s’être retrouvé à bord, avec sa compagne, Awa, et l’enfant de cette dernière, Adam, un matin de septembre 2023, alors qu’ils tentaient de rejoindre l’île italienne de Lampedusa à bord d’un petit rafiot. Des semi-rigides rapides interceptaient des embarcations de migrants avant de les transborder sur le patrouilleur. Celui-ci finissait par revenir au port de Sfax, « pour déposer » les migrants. Débarquée, la petite famille a été abandonnée la nuit suivante par la même garde nationale dans une zone montagneuse et désertique, à la frontière algérienne, avec près de 300 personnes, réparties en petits groupes, toutes ressortissantes d’Afrique. « Lorsqu’ils nous ont déposés, [les agents] nous ont dit : “Là-bas, c’est l’Algérie, suivez la lumière. Si on vous voit à nouveau ici, on vous tirera dessus.” » Le groupe d’une vingtaine de personnes, parmi lesquelles des hommes, des femmes dont deux sont enceintes et un enfant, s’exécute, mais se heurte immédiatement à des « tirs de sommation du côté algérien ». Ils font alors demi-tour.
    Pendant neuf jours, ils sont contraints de marcher à travers les montagnes, de dormir à même le sol, avant de regagner la ville de Tajerouine, dans l’ouest du pays, raconte François, données GPS et photos à l’appui. « Après une semaine sans sommeil, sans manger, vous commencez à perdre l’équilibre, vous êtes proche de la mort », dit-il froidement, évoquant les douleurs « aux articulations, aux pieds, au dos, aux hanches, aux chevilles » et des « hallucinations » à cause de la déshydratation.
    La première fois que Le Monde l’a rencontré, début octobre 2023, dans la localité côtière d’El Amra, François revenait de cet enfer. Depuis, l’homme a encore été expulsé à deux reprises. En novembre, il est arrêté avec d’autres migrants à El Amra. Frappés à coup de « gourdin, de chaîne, de matraque » et dépouillés de tous leurs biens par des agents de la garde nationale, ils sont finalement expulsés au milieu des « dunes de sable », dans le désert du gouvernorat de Tozeur, raconte le Camerounais.
    Revenu dans la région de Sfax quelques jours après, François tente une troisième fois, fin décembre, la traversée vers l’Europe. Mais le même scénario se répète : son bateau est arraisonné par la garde nationale. « Je savais exactement ce qui allait se passer. Le même film recommence : nous sommes ramenés à Sfax, menacés, dépouillés, mis dans des bus. » François et Adam – Awa n’ayant pas réussi à embarquer sur le rafiot – sont à nouveau expulsés, avec des centaines de personnes, réparties en petits groupes, selon ses dires.
    Ils se retrouvent ainsi près de la ville frontalière de Haïdra avec une quinzaine de personnes. Parmi elles, une femme « appelle un de ses contacts » : un homme qui vient les chercher en camionnette pour les ramener jusqu’à Sfax. Mais, à leur arrivée, ils sont déposés dans une maison et faits prisonniers. « Nous nous sommes retrouvés entre les mains d’hommes armés de machettes et de gourdins. Ils nous ont fait comprendre que nous devions payer [pour être libérés]. »
    Profitant de la vulnérabilité des migrants, des groupes criminels composés de Tunisiens et de migrants subsahariens prolifèrent dans le pays, s’enrichissant grâce à l’extorsion : la famille de François a dû verser une rançon de 300 euros, envoyée par une application mobile, pour qu’ils soient libérés, avec l’enfant, au bout d’une semaine. Par la suite, François a de nouveau été enlevé par l’un de ces groupes alors qu’il se trouvait dans un appartement qu’il louait à Sfax. Il a alors subi la torture à « coups de câbles électriques ». Des photos de lui, nu, sont envoyées à sa famille au Cameroun pour la convaincre de payer de nouveau une rançon avant qu’il parvienne à s’échapper par une fenêtre laissée ouverte. Epuisé par tant de souffrances, François a reconsidéré son rêve d’Europe.
    Contacté, le ministère tunisien des affaires étrangères réfute les accusations d’« expulsion de migrants d’origine subsaharienne vers des zones désertiques », les qualifiant d’« allégations tendancieuses » qui « n’engagent que leurs auteurs ». Les autorités italiennes n’ont pas répondu à nos sollicitations.

    #Covid-19#migration#migrant#migrationirreguliere#tunisie#subsaharien#sfax#UE#routemigratoire#desert#droit#violence#sante#algerie#maghreb#refoulement

  • La memoria rimossa del massacro di Debre Libanos e dell’età coloniale italiana

    Tra il 20 e il 29 maggio 1937 le truppe italiane massacrarono più di duemila monaci e pellegrini al monastero etiope. Una strage che, come altri crimini di guerra commessi nelle colonie, trova spazio a fatica nel discorso pubblico, nonostante i passi fatti da storiografia e letteratura. Con quel passato il nostro Paese non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale.

    “Questo avvocato militare mi ha comunicato proprio in questo momento che habet raggiunto la prova assoluta della correità dei monaci del convento di Debra Libanos con gli autori dello attentato. Passi pertanto per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vice-priore. Prego farmi assicurazione comunicandomi il numero di essi”.

    È il 19 maggio 1937. Con queste poche parole Rodolfo Graziani, “viceré d’Etiopia”, dà il via al massacro dei monaci di Debre Libanos, uno dei monasteri più importanti del Paese, il cuore della chiesa etiopica. Solo tre mesi prima Graziani era sopravvissuto a un attentato da parte di due giovani eritrei, ex collaboratori dell’amministrazione coloniale italiana, che agirono isolatamente, seppur vicini alla resistenza anti-italiana. La reazione fu spietata: tra il 19 e il 21 febbraio le truppe italiane, appoggiate dai civili e dalle squadre fasciste, uccisero quasi 20mila abitanti di Addis Abeba.

    Le violenze proseguirono per mesi e si allargarono in tutta la regione dello Scioa fino a raggiungere la città-monastero di Debre Libanos, a circa 150 chilometri dalla capitale etiope dove tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo il più grande eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano.

    “Vennero massacrate circa duemila persone tra monaci e pellegrini perché ritenuti in qualche modo conniventi con l’attentato a Graziani -spiega ad Altreconomia Paolo Borruso, docente di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano e autore del saggio “Debre Libanos 1937” (Laterza, 2020)-. Si è trattato di un vero e proprio crimine di guerra, poiché l’eccidio è stato qualcosa che è andato al di là della logica militare, andando a colpire dei religiosi, peraltro cristiani e inermi”.

    Al pari di molte altre vicende legate al passato coloniale italiano, a partire proprio dal massacro di Addis Abeba, anche la tragica vicenda di Debre Libanos è rimasta ai margini del discorso pubblico. Manca una memoria consapevole sulle responsabilità per gli eccidi e le violenze commesse dagli italiani nel corso della loro “avventura” coloniale per andare alla ricerca di un “posto al sole” in Libia, in Eritrea, Somalia ed Etiopia al pari delle altre nazioni europee, vengono ancora oggi occultate dalla coscienza pubblica.

    “La storiografia, a partire dal lavoro di Angelo Del Boca, ha fatto enormi passi avanti. Non c’è un problema di ricerca storica sul tema, quello che manca, piuttosto, è la conoscenza di quello che è avvenuto in quella fase storica al di là dei circoli degli addetti ai lavori”, puntualizza Valeria Deplano, docente di storia contemporanea all’Università di Cagliari e autrice, assieme ad Alessandro Pes di “Storia del colonialismo italiano. Politica, cultura e memoria dall’età liberale ai nostri giorni” (Carocci, 2024).

    Se da un lato è molto difficile oggi trovare chi nega pubblicamente l’uso dei gas in Etiopia, dall’altro è ancora molto diffusa l’idea che le violenze furono delle eccezioni riconducibili alle decisioni di pochi, dei vertici: il mito degli italiani “brava gente”, dunque, resiste ancora a ben sedici anni di distanza dalla pubblicazione dell’omonimo libro di Angelo Del Boca.

    Che l’Italia non abbia ancora fatto compiutamente i conti con il proprio passato coloniale lo dimostrano, ad esempio, le accese polemiche attorno alle richieste avanzate da attivisti e comunità afro-discendenti per modificare e contestualizzare la toponomastica delle nostre città o per una ri-significazione dei di monumenti che celebrano il colonialismo italiano (ad esempio l’obelisco che celebra i cinquecento caduti italiani nella battaglia di Dogali a Roma, nei pressi della Stazione Termini) (https://altreconomia.it/perche-serve-mappare-i-segni-del-fascismo-presenti-nelle-nostre-citta). Temi che vengono promossi, tra gli altri, dalla rete Yekatit 12-19 febbraio il cui obiettivo è quello contribuire a un processo di rielaborazione critica e collettiva del ruolo del colonialismo nella storia e nel presente dell’Italia e che vorrebbe il riconoscimento di una giornata nazionale del ricordo delle oltre 700mila vittime del colonialismo italiano.

    “C’è un rifiuto a riconoscere il fatto che i monumenti e le strade intitolate a generali e luoghi di battaglia sono incompatibili con i valori di cui la Repubblica dovrebbe farsi garante”, sottolinea Deplano ricordando come fu proprio nel secondo Dopoguerra che si costruì un racconto del colonialismo finalizzato a separare quello “cattivo” del regime fascista da quello “buono” dell’Italia liberale. Una narrazione funzionale all’obiettivo di ottenere dalle Nazioni Unite un ruolo nella gestione di alcune ex colonie alla fine della Seconda guerra mondiale: se l’Eritrea (la “colonia primigenia”) nel 1952 entra a far parte della Federazione etiopica per decisione dell’Onu, Roma ottenne invece l’Amministrazione fiduciaria della Somalia, esercitando un impatto significativo sulle sorti di quel Paese per decenni.

    “Invece ci fu continuità -sottolinea Deplano-. Furono i governi liberali a occupare l’Eritrea nel 1882 e ad aprire le carceri dove vennero rinchiusi i dissidenti eritrei, a dichiarare guerra all’Impero ottomano per occupare la Libia nel 1911 dove l’Italia fu il primo Paese a utilizzare la deportazione della popolazione civile come arma di guerra. Il fascismo ha proseguito lungo questa linea con ancora maggiore enfasi, applicando in Africa la stessa violenza che aveva già messo in atto sul territorio nazionale”.

    Con quel passato l’Italia non ha mai fatto i conti, né sul piano giuridico né su quello materiale. Come ricorda Paolo Borruso in un articolo pubblicato su Avvenire (https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta), Graziani venne condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per i crimini commessi in Africa. Le ex colonie ricevettero indennizzi irrisori e persino gli oggetti sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia non furono mai ritrovati.

    “Gli italiani non possono ricordare solo quelle pagine della loro storia funzionali alla costruzione di un’immagine positiva, serve una consapevolezza nuova”, riflette Borruso. Che mette l’accento anche su una “discrasia pericolosa: da un lato la giusta memoria delle stragi nazi-fasciste commesse ‘in Italia’ e dall’altro la pubblica amnesia sulle violenze commesse ‘dall’Italia’ nelle sue colonie in Africa. Questo distacco dalla storia è molto preoccupante perché lascia la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti, aprendo vuoti insidiosi e facilmente colmabili da slogan e da letture semplificate del passato, fino alla riemersione di epiteti e attributi razzisti, che si pensava superati e che finiscono per involgarire la coscienza civile su cui si è costruita l’Italia democratica”.

    Se agli storici spetta il compito di scrivere la storia, agli scrittori spetta quello di tracciare fili rossi tra passato e presente, portando alla luce memorie sepolte per analizzarle e contestualizzarle. Lo ha fatto, ad esempio, la scrittrice Elena Rausa autrice di “Le invisibili” (Neri Pozza 2024) (https://neripozza.it/libro/9788854529120), un romanzo che si apre ad Addis Abeba, durante la rappresaglia del 1937 per concludersi in anni più recenti e che dà voce a uno dei “reduci” dell’avventura coloniale italiana e a suo figlio. “Ho voluto indagare in che modo le memorie negate dei traumi inflitti o subiti continuano a influenzare l’oggi -spiega ad Altreconomia-. Tutto ciò che non viene raccontato continua a esercitare delle influenze inconsapevoli: si stima che un italiano su cinque abbia nella propria storia familiare dei cimeli legati alle campagne militari per la conquista dell’Eritrea, della Libia, della Somalia e dell’Etiopia. In larga parte sono uomini che hanno fatto o, più facilmente, hanno visto cose di cui pochi hanno parlato”.

    A confermare queste osservazioni, Paolo Borruso richiama il suo ultimo saggio “Testimone di un massacro” (Guerini 2022) (https://www.guerini.it/index.php/prodotto/testimone-di-un-massacro), relativa al diario di un ufficiale alpino che partecipò a numerose azioni repressive in Etiopia, al comando di un reparto di ascari (indigeni arruolati), fino alla strage di Debre Libanos, sia pur con mansioni indirette di sorveglianza del territorio: una testimonianza unica, mai apparsa nella memorialistica coloniale italiana.

    Un altro filo rosso è legato alle date: l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe dell’Italia fascista ebbe inizio il 3 ottobre 1935. Quasi ottant’anni dopo, nel 2013, in quello stesso giorno più di trecento profughi, in larga parte eritrei ed etiopi, perdevano la vita davanti all’isola di Lampedusa. Migranti provenienti da Paesi che hanno con l’Italia un legame storico.

    E se oggi la migrazione segue una rotta che va da Sud verso Nord, in passato il percorso è stato inverso: “Come il protagonista del mio romanzo, anche il mio bisnonno è partito per l’Etiopia, ma non per combattere -racconta-. Migliaia di persone lasciarono l’Italia per lavorare in Etiopia e molti rimasero anche dopo il 1941. Anche in quel caso a partire furono persone che si misero in viaggio alla ricerca di condizioni migliori di vita per sé e per i propri figli. Ricordare anche quella parte di storia migratoria italiana significa riconoscere la radice inconsapevole del nostro modo di guardare chi oggi lascia la propria terra per compiere un viaggio inverso”.

    https://altreconomia.it/la-memoria-rimossa-del-massacro-di-debre-libanos-e-delleta-coloniale-it
    #colonialisme #Italie_coloniale #colonialisme_italien #massacre #Debre_Libanos #monastère #Ethiopie #histoire_coloniale #Rodolfo_Graziani #fascisme #Scioa #violence #crimes_de_guerre #mémoire #italiani_brava_gente #passé_colonial #toponymie #toponymie_politique #toponymie_coloniale #déportations

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
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    • Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia

      Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti ‘conniventi’ con l’attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un’accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un’operazione strettamente militare. Esso rappresentò l’apice di un’azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All’eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di ‘sopravvissuti’ in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L’accanimento con cui fu condotta l’esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che ‘religiosa’) che andò oltre l’esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di ‘eretici’, scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l’obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant’anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141083
      #livre #Paolo_Borruso

    • Storia. Su Debre Libanos il dovere della memoria è conquista di civiltà

      Dal 21 al 27 maggio 1937 il viceré Graziani fece uccidere duemila etiopi. Un eccidio coloniale a lungo rimosso che chiede l’attenzione delle istituzioni e della storiografia.

      Il nome di Debre Libanos è tristemente legato al più grave crimine di guerra italiano, ordinato dal viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani come rappresaglia per un attentato da cui era sfuggito. È il più antico santuario cristiano dell’Etiopia, meta di pellegrini da tutto il paese. Il 12 Ginbot (20 maggio) ricorre la memoria della traslazione, nel 1370, dei resti di san Tekla Haymanot – fondatore nel XIII secolo della prima comunità monastica in quel sito –: è la festa più sacra dell’anno, particolarmente attesa a Debre Libanos non solo tra i monaci, ma da tutti i cristiani etiopici provenienti da ogni parte del paese. È il giorno di massima affluenza di persone nel monastero. Ed è il motivo che spinse il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani ad una cinica pianificazione fin nei minimi dettagli. Tra il 21 e il 27 maggio 1937 i militari italiani, sotto la guida del generale Pietro Maletti, presidiarono il santuario e prelevarono i presenti, caricandoli a gruppi su camion verso luoghi isolati, dove ebbero luogo le esecuzioni, ordinate ai reparti coloniali musulmani per scongiurare possibili ritrosie degli ascari cristiani di fronte a correligionari. Nonostante le 452 esecuzioni dichiarate da Graziani per cautelarsi da eventuali inchieste, le indagini più recenti attestano un numero molto più alto, compreso tra le 1.800 e le 2.200.

      Sono passati 86 anni da quel tragico episodio, che andò molto al di là di una strategia puramente militare. Un «crimine di guerra», appunto, per il quale i responsabili non furono mai processati. Nel dopoguerra Graziani fu condannato a 19 anni di reclusione per collaborazionismo con la Repubblica sociale italiana, ma non per le violenze inflitte in Africa, e scontò solo quattro mesi in seguito ad amnistia, divenendo nel 1952 presidente onorario del Movimento sociale italiano, erede diretto del fascismo.

      Nell’Italia del dopoguerra, le esigenze del nuovo corso democratico spinsero a rimuovere memorie e responsabilità di quella violenta e imbarazzante stagione, potenziali ostacoli ad una sua collocazione nel campo occidentale auspicata da Usa e Inghilterra. Dei risarcimenti previsti dai trattati di pace del ‘47, fu elargita una cifra irrisoria, oltre i termini temporali stabiliti di dieci anni; i beni e arredi sacri trafugati a Debre Libanos e portati in Italia, mai ritrovati; unica restituzione, il noto obelisco di Axum, avvenuta nel 2004 (dopo quasi 60 anni!). Paradossalmente, la copertura dell’episodio parve una scelta obbligata anche per l’Etiopia di Haile Selassie, in nome di una ripresa del paese, dopo la fine dell’occupazione coloniale e della guerra mondiale, e di una inedita leadership internazionale negli anni della decolonizzazione, nonostante la persistenza di una ferita profonda mai rimarginata.

      Solo negli anni settanta, a partire dagli studi di Angelo Del Boca, l’«assordante» silenzio attorno ai «crimini» dell’Italia in Africa ha cominciato a dissolversi, decostruendo faticosamente il mito dell’«italiano brava gente». La storiografia ambiva divenire un polo di interlocuzione importante per la “memoria” pubblica del paese ed apriva la strada a nuove relazioni con l’Etiopia. Ne fu un segnale la visita ad Addis Abeba del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel 1997, il quale richiamò il tributo di sangue versato dal popolo etiopico durante la dolorosa esperienza dell’occupazione fascista e la necessità di quella memoria per rilanciare proficui rapporti di pace e cooperazione. Ricordo, successivamente, la proposta di Del Boca, nel 2006, di istituire una “giornata della memoria” per le vittime del colonialismo italiano, ma neppure fu discussa in parlamento, e quindi fu archiviata. È qui che la storiografia è chiamata a consolidare gli anticorpi di fronte rimozioni e amnesie che rischiano di erodere rapidamente la coscienza pubblica. È il caso del monumento in onore del maresciallo Graziani, eretto nel 2012 ad Affile, nel Lazio, con i fondi della Regione, ultimo eclatante atto di oscuramento della memoria, suscitando immediate reazioni della comunità scientifica e dell’associazionismo italiano.

      A partire dal 2016, alcuni articoli apparsi sulla stampa, tra cui ripetuti interventi di Andrea Riccardi, e lo sconcertante film documentario Debre Libanos, realizzato da Antonello Carvigiani per TV 2000, hanno richiamato l’attenzione su quell’eccidio fascista. Un riconoscimento pubblico venne esplicitato in quell’anno dal presidente Mattarella ad Addis Abeba, quando in un eloquente “silenzio” depose una corona di fiori al monumento della vittoria Meyazia 27, in piazza Arat Kilo, in memoria dei caduti della resistenza etiopica dell’epoca e salutò uno ad uno ex partigiani etiopici, ormai anziani. Sotto queste sollecitazioni, l’allora ministero della difesa emanò un comunicato stampa, che richiamava la tragica rappresaglia con cui «il regime fascista fece strage della comunità dei copti; monaci, studenti, e fedeli del monastero di Debra Libanos. L’eccidio durò vari giorni, crudele e metodico. In Italia con il silenzio di tutti, durante il fascismo ma anche dopo, l’episodio era stato dimenticato […]», e si assumeva l’impegno ad approfondirne le dinamiche storiche con la costituzione di un’apposita commissione di studiosi, militari ed esperti. Altre urgenze, tuttavia, s’imposero nell’agenda politica e l’iniziativa non ebbe seguito.

      L’attuale disattenzione da parte delle istituzioni dello Stato italiano chiama nuovamente in causa la storiografia per la sua funzione civile di preservazione della memoria storica. C’è, qui, una discrasia da colmare: a fronte degli eccidi nazifascisti sul territorio italiano – oggi noti, con luoghi memoriali di alto valore simbolico per la storia nazionale –, il massacro di Debre Libanos è accaduto in Africa, fuori dal territorio nazionale, in un’area rimasta, per decenni, assente anche sul piano storiografico, le cui responsabilità sono ascrivibili direttamente all’Italia e non possono essere negate né oscurate. Occorre, in questo senso, allargare i confini della memoria storica, rinsaldando il rapporto tra storia e memoria come un argine di resistenza fondamentale per la difesa di una cultura civile, oggi provata da un crescente e preoccupante distacco dal vissuto storico. Lo smarrimento del contatto con “quel” passato coloniale, e con quella lunga storia di rapporti con l’Africa, rischia di lasciare la coscienza pubblica in balìa di pericolose derive disumanizzanti e discriminatorie, potenziali o in atto.

      https://www.avvenire.it/agora/pagine/su-debre-libanos-il-dovere-della-memoria-e-conquista-di-civilta

  • HARRY ROSELMACK ACCUSE ! L’AFFAIRE QUI A SECOUÉ LA GUADELOUPE
    https://www.youtube.com/watch?v=_eVFepfokcA

    21 novembre 2020, dans la commune de Deshaies, en Guadeloupe, Claude Jean-Pierre est contrôlé par la gendarmerie. L’interpellation prend d’un coup une étrange tournure. L’homme âgé de 67 ans est violemment sorti de son véhicule et étendu sur le sol sous un soleil de plomb. Transporté à l’hôpital quelques jours plus tard, Claude Jean-Pierre, appelé Klodo par ses intimes et ses proches, décède des suites des blessures survenues lors de ce contrôle routier.
    Depuis, sa fille Fatia Alcabelard et son gendre Christophe Sinnan se battent pour obtenir justice.
    Dans le film documentaire du journaliste Harry Roselmack, l’Etat Républinial on revient sur cette affaire. Les faits, l’enquête, le déni de justice, tout est abordé. Et pour reprendre une expression du moment “ On y dit les termes” Notamment sur la défaillance récurrente dans l’appareil policier et judiciaire français aux Antilles. Car hormis l’affaire Claude Jean-Pierre, le film évoque trois autres cas qui ont secoué la Guadeloupe.

    #Violences_policières

  • Les prédateurs sexuels ne doivent pas devenir médecins

    Mesdames et Messieurs,
    Nous souhaitons par la présente vous alerter sur une situation extrêmement préoccupante au sein de l’université de médecine de Limoges.

    Celle-ci accueille depuis la rentrée 2021 un étudiant originaire de Tours, accusé de viol et d’agressions sexuelles, qui a depuis été condamné à deux reprises.

    Il poursuit tout de même ses études parmi les autres étudiants en 6ème année de l’université, et passe au mois de mai 2024 le concours de l’internat

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2024/05/15/les-predateurs-sexuels-ne-doivent-pas-devenir-

    #feminisme #violence #medecin

  • Haines antisémites en Algérie française
    https://laviedesidees.fr/Haines-antisemites-en-Algerie-francaise

    Dans une ville de province de l’Algérie coloniale, juifs et musulmans coexistent dans un climat de plus en plus tendu. C’est alors qu’un provocateur proche de l’extrême droite déclenche de sanglantes émeutes.

    #islam #Histoire #antisémitisme #judaïsme #violence #Algérie
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240515_provocateur.pdf